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Una prospettiva marginalista

A proposito dell’interminabile actio finium regundorum in materia di pratiche commerciali scorrette[1]

(di Simone Lucattini)

 

1.- Incertezza/incertezze

Evaporata la certezza circa la nozione di pratica, fino ad oggi delineata nei suo contorni, con mano sicura, dall’interprete e dall’operatore chiamati all’applicazione del nuovo apparato normativo, si addensa sul sistema una minaccia alla certezza del diritto”. Così si legge nelle conclusioni dell’articolo di Cristiano Artizzu dedicato alla nozione di pratica commerciale scorretta (Sul concetto di pratica commerciale nell’ordinamento comunitario e nell’ordinamento nazionale: considerazioni attuali alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia, in questa Rivista, sezione “Nel merito”).

Incertezza, ancora una volta. Incertezza oggettiva – la definizione di pratica commerciale scorretta – che si somma ad incertezza soggettiva: l’annosa disputa, chi sanziona? L’Autorità garante per la concorrenza o l’autorità di regolazione di settore (l’Autorità per l’energia, l’Autorità per le comunicazioni, quella dei trasporti, la Banca d’Italia). Sì, perché non sono bastate, nel giro di un paio di anni, due interventi (uno recentissimo) dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, una procedura d’infrazione comunitaria, due successivi interventi del legislatore nazionale. Siamo ancora lì, chi sanziona?

Incertezza preoccupante, in ragione del rilievo dei valori coinvolti: la tutela dei consumatori, da un lato, e la libertà delle imprese, dall’altro; la fiducia del mercato e nel mercato, più in generale. Sì, perché nei settori regolati tipicamente le sanzioni non si limitano a punire, ma trasmettono segnali ai mercati, affermando orientamenti volti a conformare la condotta degli agenti economici, con funzione di prevenzione generale e di certezza in ordine alla liceità/illiceità di determinati comportamenti.

Al di là del tema economico, centrale – la certezza e la fiducia dei mercati –, il problema giuridico di fondo riguarda qui il (non semplice) coordinamento tra normativa generale a tutela dei consumatori – contenuta nel Codice del consumo (d.lgs. n. 206/2005) – e normative speciali di settore: se prevale la prima, le pratiche commerciali scorrette ricadono nella competenza sanzionatoria dell’autorità antitrust; altrimenti, in quella delle autorità preposte alla regolazione e al controllo dei singoli settori. E che settori: energia, telecomunicazioni, trasporti, banche. Sufficiente per pretendere un pò di certezza? Qui non si tratta soltanto del singolo, sparuto, dimenticato privato cittadino (anonimo protagonista dell’eretico saggio di A. Shlaes, L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione, Feltrinelli, Milano, 2011): ci sono di mezzo i consumatori, le loro associazioni, le più grandi imprese italiane (a partecipazione statale…).

Con questo breve intervento non pretendo certo di stabilire, una volta per tutte (anche ove possibile, e probabilmente non lo è), se debba prevalere la normativa generale su quella speciale, o viceversa, e quindi decretare il vincitore della ormai defatigante “gara” (tra istituzioni, sic) … a chi sanziona. Vorrei piuttosto, ancora una volta e fino alla noia (dopo Merito e certezza – in margine alla vicenda dei debiti della pubblica amministrazione, in questa Rivista, sezione “In pratica”), far emergere il disperato bisogno di certezza che affligge chi investe, lavora, produce, paga le tasse, consuma, vive, respira in Italia.

Ma, per una volta, vorrei “prendere la parte del più forte”, non quella del povero cittadino-consumatore- (magari anche) creditore della pubblica amministrazione, ma degli operatori economici che, per stare sul mercato, per competere, debbono poter conoscere, in anticipo e con sufficiente grado di certezza, le pratiche di acquisizione della clientela da ritenersi scorrette e il soggetto competente a sanzionarle; quegli stessi operatori economici che non possono neppure rimanere sine die  sottoposti a (onerosi) procedimenti sanzionatori, poichè, in tale situazione, le loro scelte e piani d'azione saranno invevitabilmente condizionati da una variabile esterna (l'an e il quantum della sanzione).

2.- Da un’Adunanza plenaria all’altra?

In principio furono le pronunce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (nn. 11, 12,13, 14, 15, 16 dell’11 maggio 2012) con cui il giudice amministrativo, in coerenza con lo schema della c.d. specialità “per settori”, stabilì l’incompetenza dell’Autorità antitrust, a favore delle autorità di settore.

Successivamente, l’art. 23, comma 12- quinquiesdecies, del decreto legge n. 95/2012 cristallizzò in norma l’orientamento dell’Adunanza plenaria, senza tuttavia riuscire a risolvere in modo certo e stabile le sovrapposizione e le interferenze tra autorità in concorrenza[2]. Ed infatti, la procedura d’infrazione (2013/2169) avviata nei confronti dello Stato italiano per violazione della direttiva 2005/59/CE, in materia di pratiche commerciali scorrette, mise nuovamente in discussione l’assetto delle competenze sanzionatorie sulla base dell’assunto per cui, per effetto della giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Italia si sarebbe venuta a creare “una grave lacuna nell’applicazione della direttiva sulle pratiche commerciali”.

Per superare i rilievi mossi in sede comunitaria, l’art. 1, comma 6, del d.lgs. n.21/2014 (attuazione della direttiva 2011/83/UE, sui diritti dei consumatori) attribuì quindi, “in via esclusiva”, e “fermo restando il rispetto della regolazione vigente”, all’Autorità antitrust la competenza ad intervenire in materia di pratiche commerciali scorrette, una volta “acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente”.

Pochi giorni fà, l’Adunanza plenaria (decisioni nn. 3 e 4 del 9 febbraio 2016, reperibili nella sezione “Documenti e studi” di questa Rivista), con un “parziale revirement”, ha invece ragionato secondo lo schema della specialità per fattispecie, superando d'un tratto la specialità per settori. Nell’ambito della specialità per fattispecie concrete, i giudici sembrano, in particolare, valorizzare l’aggressività della pratica commerciale come quid pluris idoneo a marcare la specialità della previsione del codice del consumo, che assegna la competenza all’Antitrust, rispetto alle norme dei singoli ordinamenti di settore che prevedono invece la competenza sanzionatoria dei regolatori.

Da una Adunanza plenaria all’altra, dunque, e speriamo che stavolta l’intervento nomofilattico sia almeno in grado di assicurare alle imprese la “ragionevole previdibilità non solo delle decisioni giudiziarie, ma anche delle scelte dell’amministrazione”, come auspicato, in via generale, dal neo-Presidente del Consiglio di Stato Pajno nel discorso di insediamento di metà febbraio.

3.- Dove non poté il coordinamento: la tutela risarcitoria

Bene non farsi illusioni: le ultime sentenze dell’Adunanza plenaria non tagliano, una volta per tutte, il nodo delle competenze e non porranno, prevedibilmente, fine all’interminabile actio finium regundorum sulle pratiche commerciali scorrette. La logica della specialità per fattispecie, che scioglie l’antinomia giuridica attraverso una valutazione caso per caso, fattispecie per fattispecie appunto, lascia infatti uno spazio tendenzialmente ancora ampio per l’interpretazione, in sede amministrativa e giurisprudenziale. La speranza, quantomeno, è che pressoché ogni volta, per ripartire la competenza sanzionatoria, non serva un intervento (altrimenti non più nomofilattico …) della Plenaria; che, insomma, gli interpreti, in primis le amministrazioni coinvolte, siano animati dalla phronesis (la prudente saggezza), che sempre dovrebbe ispirare il ragionamento ermeneutico (H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2001) e, in generale, tutte “le cose su cui è possibile deliberare” (Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 7, 11411b 8, 15).

Ragionevolmente, una qualche stabilità nel riparto dovrebbe potersi ottenere attraverso la leale collaborazione tra istituzioni, cioè, in concreto, tramite accordi sulla competenza tra i regolatori e l’Autorità per la concorrenza. Ciò in linea con quanto previsto dall’art.1, comma 6, del d.lgs. n.21/2014, secondo cui l’Autorità antitrust e le autorità di regolazione “possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”. E’ questa, del resto, la via indicata dall’Adunanza plenaria già nel 2012 e correttamente imboccata, ad esempio, dall’Autorità per l’energia e dall’Antitrust che hanno stipulato un protocollo- quadro prefigurante diverse forme di cooperazione da definirsi, poi, mediante più specifici atti negoziali.

L’accordo flessibile sembra lo strumento più funzionale per garantire un’efficace e coordinata azione di enforcement, anzitutto perché un accordo “a maglie larghe” di per sé dovrebbe essere alieno dalla tentazione di individuare generali, perfetti, criteri di riparto, destinati comunque, con la loro tendenziale rigidità, a non comprendere l’incessante varietà delle pratiche scorrette sperimentabili sui mercati. Più utili e funzionali appaiono, in definitiva, fasi o organismi (vere e proprie stanze di composizione) deputati a favorire la risoluzione dei conflitti di competenza, come quelli prefigurati nel citato protocollo Autorità energia/Autorità antitrust dove, ad esempio, è prevista la costituzione di un gruppo di lavoro congiunto[3].

Ma cosa accade se neppure i più raffinati strumenti di coordinamento riescono a risolvere (in tempi economicamente ragionevoli) l’antinomia giuridica e il conseguente conflitto interistituzionale? In questi casi, non resta che guardare ai rimedi giurisdizionali esperibili dagli operatori economici: quando la cooperazione fallisce, insomma, bisogna realisticamente fare i conti con i negativi effetti del difettoso/mancato coordinamento, con i danni dell’incertezza.

Ebbene, esiste una pretesa dei privati al coordinamento e, quindi, un dovere di coordinamento tra autorità indipendenti operanti in settori sovrapponibili. Tale pretesa, a livello normativo, pare potersi ricavare dal principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) e da una serie di disposizioni primarie, quali ad esempio alcune rinvenibili nell’ordinamento settoriale dell’energia, che affermano un principio generale di collaborazione tra autorità indipendenti[4]. In tale prospettiva, pare allora potersi configurare una figura autonoma di danno da mancato/difettoso coordinamento, e ciò affermando la separata rilevanza, a fini risarcitori, dell’interesse procedimentale al coordinamento infrastrutturale.

Più in generale, esiste poi una pretesa alla conclusione, in tempi ragionevoli, del procedimento sanzionatorio: una pretesa alla ragionevole durata dell’accertamento sanzionatorio; in tal senso può leggersi la recentissima pronuncia del Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17 febbraio 2016, n. 345, secondo cui, a fronte dell’“abnorme ritardo”, “l’interesse al “giusto procedimento … può ricevere piena tutela dall’ordinamento attraverso – ad esempio – gli strumenti ritualmente previsti contro il silenzio o l’inerzia dell’amministrazione, oltre che mediante il risarcimento del danno da ritardo”.

In buona sostanza, se l’operatore economico rimane, per qualunque ragione (difettoso coordinamento o altro), per troppo tempo sub procedimento sanzionatorio, il danno risarcibile è quello generato dallo stato d’incertezza subito. In particolare, il danno emergente consiste qui nelle spese sopportate per le complesse attività istruttorie e difensive[5] svolte dinanzi all’autorità indipendente, magari poi ritenuta incompetente, o in attesa di una pronuncia del giudice o di un accordo (tra autorità) che definisca la competenza; oppure nelle spese sostenute per interloquire con quell’autorità nel corso di un interminabile procedimento. Tale stato di incertezza può, inoltre, configurare un lucro cessante, sotto forma di perdita di occasioni più favorevoli o di rinuncia a certi piani e attività. L’impresa potrebbe, infatti, decidere di accantonare prudenzialmente fondi, per far fronte all’eventuale esborso economico della sanzione, sottraendoli così ad altre destinazioni e investimenti, ovvero rallentare la realizzazione di determinati progetti, perdendo nel frattempo possibili finanziamenti bancari: autentici toccasana, non c’è che dire, soprattutto in tempi di crisi o di stentata ripresa, e specie se la malcapitata non è uno dei grandi, e “più resistenti”, ex incumbent.

In linea con i principi di atipicità e strumentalità delle tutele, le enucleate figure di danno da ritardato accertamento sanzionatorio e da difettoso coordinamento sembrano poter rientrare nella dimensione a-realizzativa dell’affidamento, sganciandosi quindi dalla prospettiva deformante del potere (sanzionatorio) e della tutela specifica di annullamento (della sanzione)[6]. Per questa via, si potrebbe, quindi, anche giungere ad escludere la giurisdizione del giudice amministrativo, a favore della più mobile, duttile (e abituata a ragionare in concreto di danni, ben oltre le astratte logiche tabellari che spesso sorreggono le pronunce risarcitorie del giudice amministrativo) giurisdizione ordinaria. Soluzione, questa, che appare peraltro coerente con la natura del pregiudizio lamentato, frutto di un comportamento scorretto e/o scoordinato – e non di esercizio illegittimo del potere[7].

In ogni caso, anche il giudice amministrativo – dotato con riguardo alle sanzioni delle autorità indipendenti di giurisdizione estesa al merito ex art. 134, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 104/2010 (c.d. codice del processo amministrativo) e quindi del potere di ridurre l’importo della sanzione irrogata – è oggi in grado di valutare a pieno il fatto dannoso e quantificare il danno risarcibile, potendo al fine sfruttare pressoché tutti i mezzi di prova di cui dispone da tempo il giudice civile (art.63, comma 5, codice del processo amministrativo).

4.- Per una amministrazione marginalista

La abnorme durata di un procedimento sanzionatorio o lo scoordinato esercizio del potere medesimo fanno emergere un preoccupante disallineamento tra funzione di regolazione e processo economico, tra tempo dell’amministrazione e tempo dell’economia.

Se le soluzioni endogene, nella direzione della certezza dei tempi delle decisioni e del coordinamento, falliscono non resta, come detto, che rivolgersi ai rimedi giurisdizionali, e non necessariamente, o non soltanto, al rimedio specifico. Le vedute patologie della funzione sanzionatoria evidenziano, anzi, come la tutela risarcitoria possa, anche in quest’ambito, recuperare e manifestare a pieno la sua tipica ratio di sanzione della correttezza e funzionalità del rapporto amministrativo. Per questa via, il bisogno di certezza degli operatori (anche sul quando della sanzione), costituendo condizione fondamentale della programmazione economica, sembra poter quindi condurre ad un cambiamento di prospettiva: dall’attenzione (spasmodica) per il bilancio pubblico (inciso dagli esborsi per danni) ad una logica marginalista[8], in cui il potere si legittima in quanto capace di risolvere, con un vantaggioso rapporto costi/benefici, problemi concreti d’interesse generale. In quest’ottica, si deve guardare non soltanto ai benefici, ma anche ai pregiudizi che i pubblici poteri possono causare alle imprese ed al buon funzionamento del mercato: specie nell’attuale congiuntura economica, infatti, l’efficienza dell’apparato pubblico dovrebbe misurarsi anche alla stregua dei danni economici che, ad esempio, una scoordinata o inefficiente funzione di enforcement può arrecare al sistema produttivo e ai suoi attori.

In conclusione, se l’amministrazione è ormai una componente del mercato, e il suo diritto una infrastruttura essenziale tra sfera pubblica e privata, allora il potere, tanto più se di tipo regolativo, o garantisce certezza ai privati o risarcisce l’affidamento tradito[9]: la tutela risarcitoria come sanzione e deterrente al negligente o disfunzionale esercizio del potere (sanzionatorio). Sono i costi degli incidenti pubblici, si dice, inesorabilmente, in analisi economica del diritto; è la “sanzione della vittima”, vorrei dire, ricordando una delle tante indimenticabili pagine di Ayn Rand (L’uomo che apparteneva alla terra - La rivolta di Atlante, Corbaccio, Milano, 2007) in cui un potere pubblico immenso, impersonale, asettico (sordo e perciò silente), si piega, per un momento, di fronte alla comunque inesauribile spinta individuale.

   (24 febbraio 2016)

[1]Le riflessioni svolte sono a titolo personale e non impegnano l’Istituzione d’appartenenza (Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico).

[2]Tale disposizione, fissando l’importo massimo delle sanzioni irrogabili dall’Autorità garante della concorrenza per pratiche commerciali scorrette, affermava la competenza del Garante, “escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati”.

[3]Cfr. l’art. 1, comma 2, lett.a), del protocollo d’intesa integrativo approvato con delibera dell’Autorità energia 505/2014/A.

[4]Cfr., ad esempio, l’art. 46 del d.lgs. n.93/2011, il quale prevede che “l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato collaborano tra loro e si prestano reciproca assistenza” (comma 1) e che i loro rapporti “sono informati al principio della leale cooperazione e si svolgono, in particolare, mediante istruttorie congiunte, segnalazioni e scambi di informazioni” (comma 2), prevedendo anche la stipula di “appositi protocolli d'intesa” (comma 3).

[5]Si tratta, in sostanza, delle spese sostenute per assicurarsi competenze legali o altre professionalità esterne all’impresa, nonché dei costi operativi e di organizzazione aziendale necessari per sostenere i pesanti oneri di collaborazione richiesti ad esempio dai procedimenti antitrust o per difendersi dalle contestazioni mosse nell’avvio istruttorio. In quest’ottica, il giudice amministrativo (Tar Lazio, sez.I, 26 gennaio 2012, nn. 864 e 865) ha ritenuto, in deroga al principio di non immediata impugnabilità degli atti endoprocedimentali, ammissibile l’impugnativa dell’avvio del procedimento antitrust, alla luce dell’utilità conseguibile dal ricorrente in termini di “arresto procedimentale”, che consente all’impresa di evitare gli “onerosi obblighi informativi che il procedimento comporta”.

[6]L’auspicata elasticità del sistema delle tutele si scontra, ancora oggi, con la disciplina, rigida e condizionante, dell’art. 30 del codice del processo amministrativo che stenta ad affrancarsi dalla logica attizia del potere. Si pensi alla rilevanza riconosciuta all’azione di annullamento, ai fini dell’esame della domanda risarcitoria: ai sensi dell’art.30, comma 3, c.p.a., l’omissione dell’azione di annullamento comporta, difatti, che dal quantum risarcitorio sia sottratta la quota che il danneggiato avrebbe potuto evitare utilizzando il rimedio specifico.

[7]Nel solco tracciato dalle recenti ordinanze delle Sezioni unite della Cassazione, per cui il danno da violazione dell’affidamento – che non sia “causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo” – va chiesto al giudice ordinario e non al giudice amministrativo: cfr. Cass., Sez.Un., 23 marzo 2011, nn. 6594 e 6595.

[8]Per cui, semplificando oltremodo, l’individuazione delle scelte ottimali degli agenti economici passa attraverso il confronto tra beneficio e costo marginale: cfr., per tutti, C.Menger, Principi fondamentali di economia, Rubettino, Soveria Mannelli, 2001.

[9]Nella segnata logica marginalista, il costo dei danni può altresì condurre ad una valutazione della effettiva utilità dell’amministrazione di regolazione o della funzionalità di un determinato riparto di competenze sanzionatorie.

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