Il viaggio nella storia del Novecento di Galli della Loggia (di Alfredo Franchi)
Nel saggio recentemente uscito, dal titolo “Credere tradire vivere” 1, Galli della Loggia ripercorre le fasi della sua formazione storica, ricordando le modalità d’inserimento nella compagine accademica con annotazioni di indubbio interesse che dilatano la narrazione dall’ambito individuale e autobiografico a quello più vasto della storia italiana intravista in certi suoi decisivi momenti. Si tratta di un libro di memorie, di una sorta di autobiografia in cui l’autore cerca di venire in chiaro con se stesso senza dissimulare quanto di spiacevole e compromissorio ha qualificato le scelte di volta in volta effettuate. In tale maniera si viene edotti dei condizionamenti inevitabili ai quali si andava incontro per essere inseriti nel contesto istituzionale ed accademico, del paradigma all’interno del quale si dipanava la ricerca, delle finalità politiche cui la storia e la storiografia venivano assoggettate 2. A tale proposito, in un suo articolo del 2014, Galli della Loggia, riferendosi alla Storia d’Italia pubblicata da Einaudi a metà degli anni ’70, ne indicava con chiarezza le finalità:
“Pubblicata …tra il 1972 e il 1976 e largamente ispirata al pensiero di Gramsci, essa volle essere, e a suo modo fu, la premessa culturale della fase politica interamente nuova che sembrava delinearsi alla metà di quel lontano decennio: cioè il raggiungimento di una piena democrazia , identificata con l’ingresso del Partito comunista nell’area del potere. Grazie al quale, s’immaginava, l’acquisto irrinunciabile dello Stato nazionale sarebbe riuscito a superare le proprie tare d’origine e a far finalmente suo il mondo moderno. La Storia d’Italia Einaudi voleva per l’appunto aprire la strada in quella direzione” 3.
A tale impresa storiografica dettero il loro contributo gli studiosi più accreditati dell’epoca con esiti rimarchevoli che, tuttavia, non dovevano risultare eccentrici, in maniera esplicita, all’intento generale dell’opera. Al fine di rendere più chiaro il messaggio venne compilato, al termine della pubblicazione della Storia d’Italia, un agile volume in cui si compendiavano i risultati acquisiti con l’invito al lettore di tradurli nel diretto e consapevole impegno politico 4. La lettura di quest’ultimo costituisce la premessa migliore per comprendere il saggio “Credere tradire vivere” di Galli della Loggia, che egli definisce insieme “ libro di storia e di ricordi, di vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro” 5, ed anche di rimpianti e di rammarico per essere stato protagonista di una vicenda culturale altamente problematica, al di là delle intenzioni che lo accomunavano agli intellettuali più prestigiosi persuasi di poter trasformare in meglio l’Italia. Anche Galli della Loggia era “convintissimo della storia mitologica divulgata dalla sinistra” 6, e quindi si era adeguato ai moduli interpretativi imperanti venendo però via via sempre più preso dal sospetto che proprio “quella storia e tutto quanto essa aveva prodotto fossero invece una delle principali cause – anzi da un certo momento in poi la principale – che bloccavano ogni cambiamento” 7.
A suo parere gli intellettuali italiani, e non solo loro, ogniqualvolta sono stati costretti a cambiare idee e punti di vista l’hanno fatto “sotto la pressione degli eventi, senza alcuna discussione pubblica, senza mai poter ammettere e chiamare con il suo nome ciò che stavano facendo” 8, e soprattutto senza mettere in luce che il fattore decisivo del cambiamento era quasi sempre ideologico 9. Ove l’ideologia si coniughi al moralismo s’avvalora, a suo parere, un paradigma interpretativo in virtù del quale il successo dell’avversario viene spiegato con motivazioni dispregiative 10, estranee all’analisi rigorosa condotta con le categorie specifiche della storiografia politica 11. Nella storia dell’Italia unita la delegittimazione dell’avversario tramite insinuazioni sulla moralità personale era già stata praticata nei riguardi di Giolitti e di seguito venne utilizzata dalla dittatura mussoliniana contro gli avversari politici 12. Anche l’antifascismo democratico non rimase estraneo a tale attitudine deteriore che lo indusse a trasferire la lotta politica sul piano etico per cui, alla fine, “Il moralismo divenne il suo scudo elettivo e anche la sua sola arma di difesa” 13.
Per un insieme di circostanze favorevoli e convergenti il moralismo e la propensione alla questione morale , per una sorta di coazione a ripetere, si configurarono come un’attitudine ricorrente “del modo di pensare, di sentire, degli atteggiamenti istintivi dei loro intellettuali: una sorta di deposito permanente della memoria che di continuo tende a riaffiorare, chiedendo di essere replicato” 14.
La nascita del fascismo nella esplicazione tradizionale, diffusa, risente negativamente
“ di una brutale manipolazione di alcuni dati storici essenziali, che tuttavia hanno dovuto aspettare lunghi anni prima di essere riscoperti e valutati in tutta la loro reale portata” 15
In primo luogo Della Loggia ricorda la rovinosa condotta politica tenuta dal partito socialista alla fine della Prima guerra mondiale 16 quando, pervaso dall’intransigenza massimalista, rimase estraneo a qualsiasi combinazione ministeriale pur disponendo della maggioranza relativa dei seggi alla Camera e continuò insieme ad agitare inutilmente le masse
“in un inconcludente movimentismo sociale e una agitazione antimilitarista puramente suicida” 17.
Si trattò, secondo lui, di una scelta rovinosa e paralizzante che impedì il funzionamento del sistema politico poiché non fu possibile né governare con i socialisti, né contro di loro. Si venne in tal modo a creare nell’opinione pubblica borghese, nelle forze dell’ordine e della magistratura un clima di progressiva sfiducia nelle istituzioni liberal-parlamentari e insieme un aggressivo desiderio di rivincita 18. Un secondo aspetto, non casualmente trascurato, nella vulgata tradizionale, è quello della vastità del consenso, delle motivazioni ideali, del favore con cui l’iniziativa di Mussolini venne accolta, come reazione inevitabile e giustificata alle violenze occorse nel biennio rosso e alla debolezza e all’ impotenza dello Stato costituzionale 19. Ove si fosse dato il debito rilievo a questi dati fondamentali sarebbe stato impossibile trascurare le gravi responsabilità politiche della sinistra nella nascita del fascismo e, del pari, non si sarebbe potuto addossare la colpa di ciò in maniera esclusiva alle forze liberali ed al liberalismo sino a descrivere il fascismo come
“un fenomeno storico privo di ragioni men che ignobili, una sorta di male storico assoluto” 20.
Nella vulgata storiografica antifascista si è fatto largamente ricorso alla categoria di complicità con una continua dislocazione dalla politica alla storiografia e viceversa 21. Con l’uso di tale strumento interpretativo si viene a trascurare la vicenda storica nella sua complessità e nelle sue vischiosità e così non riveste più una primaria importanza l’accertamento fattuale e documentario 22, a vantaggio della valutazione morale costruita in maniera negativa. Operando in tale maniera è agevole colpire gli avversari politici, avvalendosi della conoscenza dell’esito finale degli eventi di cui sono stati protagonisti 23. Di seguito si è potuto approntare la delegittimazione antifascista come paradigma discriminante e fondativo della Repubblica, atto ad identificare coloro che ne fanno parte e coloro che ne sono esclusi 24. Nell’analisi storica del fascismo viene così a prevalere una prospettiva moralistico-ideologica che induce ad evocare una responsabilità collettiva degli italiani 25 alla quale, per singolare paradosso, viene a seguire una assoluzione universale per cui, alla fine, nessuno si sente colpevole ed a quelli più compromessi è sufficiente l’iscrizione ad un partito antifascista per liberarsi dallo scomodo passato 26. Il fascismo viene presentato non come esito di una crisi storico-politica in cui sono ravvisabili diverse e variegate responsabilità, ma come
“malattia morale per eccellenza di una parte sola del Paese, dell’Italia liberal –borghese, come frutto del tradimento di questa, della sua presunta complicità nel male” 27.
Con l’uso di tale paradigma interpretativo 28, coniugato alla categoria di complicità 29, era possibile passare dalla politica alla moralità, colpire con un epiteto infamante colui che si fosse trovato di volta in volta nella parte sbagliata 30. Tale impostazione ideologica si è dislocata nella manualistica scolastica avvalorando una visione codificata del fascismo 31 come di una dittatura considerata compendio di tutte le negatività italiane e quindi quanto mai atta a fungere da discriminante tra il bene e il male 32. In realtà le cose erano andate in maniera ben diversa poiché il fascismo
“con il suo straordinario impasto di ambiguità e velleità, ma anche di ideali e desideri degni, e non da ultimo grazie all’antica versatilità italiana per l’accomodamento cui era anch’esso sapientemente incline…in quanto regime era stato accettato senza troppa fatica da un’opinione pubblica che per ragioni storiche non aveva mai avuto troppa familiarità né con il liberalismo né con la democrazia” 33.
La memoria ufficiale del fascismo nella codificazione indicata ha goduto per quasi mezzo secolo di un favore incondizionato e generalizzato 34. A seguito di ciò esso è stato ritenuto una sorta di male metastorico senza possibilità alcuna di rimedio 35, realtà nefasta cui poter ricondurre qualsiasi negatività storica al fine di escludere dall’area democratica colui che ne fosse infetto 36. In tale atmosfera esasperata ed unilaterale si veniva a creare una sorta di divario tra quanto pubblicamente era lecito affermare 37, e quanto privatamente si era costretti ad ammettere per semplice aderenza alla realtà effettuale delle cose 38. In tal modo si determinava una situazione a dir poco ambigua per la coscienza del paese indotto ad accettare nei confronti del fascismo una doppia verità:
“Da un lato, la schematica verità ufficiale che parlava di un regime di violenza e di arbitrio voluto da una minoranza di malvagi – verità accreditata anche per cercare di accattivarsi la benevolenza degli Alleati vincitori: magari aggiungendovi soprattutto, a uso interno, la complicità della classe dirigente liberale; dall’altro lato, invece, la verità privata di un’ambigua adesione di quasi tutti a quel regime, seppure variamente motivata e modulata” 39.
Alla fine, nella impossibilità di modificare la verità ufficiale e le implicazioni conseguenti, si scelse di occultare la verità privata che, per quanto rimossa
“sopravvisse comunque nei cuori e nelle memorie: vuoi come inespresso rimorso…vuoi come un’ipoteca permanentemente accesa sulla fondatezza della narrazione storica posta alla base della legittimazione della Repubblica” 40.
Alla maggior parte delle persone fu impossibile venire in chiaro con se stesse e così si ebbero delle conseguenze deleterie sulla formazione della coscienza individuale e collettiva dei cittadini poiché
“la menzogna sulla propria esperienza personale del fascismo non poteva portare ad altro se non a un’eguale dose di menzogna circa la propria personale conversione all’antifascismo” 41 .
I partiti antifascisti alla caduta definitiva del regime, pur essendo tutti profondamente cambiati, rivendicarono una coerenza ed una continuità con il loro passato 42, senza fare ammenda alcuna degli errori compiuti poiché bisognava salvaguardare la propria immagine ideale sino a negare qualsiasi responsabilità nell’avvento della dittatura 43. Il cambiamento c’era stato, ma non lo si poteva riconoscere anche se i comunisti avevano accantonato il pregiudizio antinazionale, e i cattolici avevano deposto ogni remora ad integrarsi nella compagine statale. Per singolare paradosso la gran parte degli italiani non erano cambiati, ma dovevano invece proclamare di esserlo 44. In Germania, diversamente da quanto si era verificato in Italia, non circolò alcuna visione edulcorata intorno alle origini e al successo del regime nazista. Non vi fu alcuno che non attribuisse
“ai tedeschi in blocco, al loro intero retaggio storico culturale oltre che alle loro sconsiderate scelte elettorali, la responsabilità di quanto era accaduto” 45.
Essi, nella loro totalità, vennero subito e da tutti ritenuti colpevoli e non vittime 46. A giudizio di Galli della Loggia fu proprio questo riconoscimento che favorì in seguito un effettivo processo di autoconsapevolezza storica intorno al proprio passato 47, sul quale poi fondare una sicura mentalità democratica 48. In Italia non si ebbe niente di simile: per ottenere la qualifica democratica fu sufficiente la militanza in qualsiasi partito antifascista.
Per la generazione che si è formata negli anni ’60 del secolo andato era emblematica l’indicazione di Rimbaud:
“Bisogna essere assolutamente moderni” 49.
A giudizio di Galli della Loggia i giovani rimasero affascinati da tale programma di vita che sollecitava alla libertà e alle avventure più spregiudicate della ragione 50, con il conforto di pensatori come Marx, Freud, Einstein. L’Italia arcaica e retrograda della aborrita Democrazia cristiana appariva come la realtà negativa antagonista che andava combattuta in ogni modo. Quella Dc di cui oggi capita talvolta di sentire rimpiangere dagli stessi che trent’anni fa l’esecravano
l’opera, gli uomini e lo stile di governo
“appariva non solo e non soltanto la responsabile prima del malgoverno del Paese, del regime che con molte caratteristiche analoghe … aveva sostituito quello fascista precedente, quanto specialmente la rappresentante per antonomasia di un’antropologia negativa fin quasi alla ripugnanza” 51.
Tale raffigurazione si è sedimentata nell’immaginario collettivo come appare dalla descrizione delineata da Pietro Citati 52, che recupera tutti gli stilemi negativi e i pregiudizi largamente diffusi 53:
“I democristiani…non amano la forza, avrebbero avuto un’idea passiva della politica…sapevano corrompere, avevano una cattiva cultura e una specie di allergia per la verità. Amavano mentire o, per meglio dire, trovare forme in cui verità e menzogna si accoppiassero” 54
Per tutti questi motivi, a suo parere, venivano a rappresentare egregiamente il carattere degli italiani nella forma più vieta e deteriore. La Dc si trovò a gestire il potere in un clima culturale pregiudizialmente ostile e, dal luglio 1960, dopo la conclusione del governo Tambroni 55, nei confini rigidamente delimitati del cosiddetto arco costituzionale , ossia dei partiti che avevano fatto parte del Cln e avevano partecipato alla redazione della carta costituzionale, ritenuti quindi unici custodi ed interpreti autorizzati dei valori dell’antifascismo. A partire da tale periodo
“la Dc non poté più ricorrere in Parlamento ai voti della destra missina per alcun motivo: pena non solo e non tanto agitazioni nel Paese e problemi per l’ordine pubblico, ma per l’appunto la sua virtuale estromissione dalla legittimazione costituzionale. In pratica, il suo margine d’azione e di alleanze sulla destra si trovò in tale modo ridotto alla sola pattuglia liberale: con ciò subendo un’ovvia spinta a trovare a sinistra ciò che veniva a mancarle dall’altra parte” 56.
Della vulgata antifascista divenne custode e compiuto interprete il partito comunista che già prima del 1968 giunse a stabilire una vera e propria egemonia
“sul senso comune prevalente, sulle opinioni e sui valori accreditati fatti propri dalla maggioranza dei media, sull’orientamento diffuso del ceto dei colti, sul più vasto circuito dell’istruzione, sui settori più giovani e dinamici della popolazione” 57
Si tratta di una vicenda peculiare della storia italiana, non priva di risvolti paradossali ove la si paragoni a quanto si era verificato negli altri paesi europei occidentali nei quali
“i valori borghesi erano ancora pienamente egemonici allorché si era prodotto il grande sviluppo industriale moderno” 58, mentre in Italia la modernizzazione culturale si verificò in concomitanza con il processo di industrializzazione e modernizzazione economica 59. Tutto questo avvenne in un clima di diffusa conflittualità sociale allargata ad inediti ambiti lavorativi, professionali, sociali. Tale processo innovativo trasse una forte sollecitazione dalle lotte sociali e, a sua volta, fornì ad esse contributi ideologici, comportamenti, forme espressive singolarmente efficaci 60 e subito fatte proprie da coloro che non intendevano rimanere estranei alle dinamiche impetuose e coinvolgenti dell’epoca. Non deve essere dimenticato al riguardo come, dagli anni Sessanta in poi, anche se di questo raramente si parla nei libri di storia,
“tutta o quasi la società italiana… abbia preso sempre di più a fare propria una versione della storia nazionale intesa a sottolineare puntualmente tutti gli errori e le insufficienze (veri o presunti non importa) degli uomini e dei partiti avversi al Pci, sorvolando puntualmente, viceversa, su quelli dello stresso Pci” 61.
A titolo puramente esemplicativo anche in una rivista della più nobile tradizione azionista si potevano trovare nel 1970 dichiarazioni di completa sfiducia nel rito elettorale, poiché in Italia in luogo della democrazia liberale si riscontrava la presenza di una democrazia capitalistica al cui interno le elezioni non apparivano come strumento di verifica democratica della volontà popolare, ma al massimo come
“l’indicazione più o meno confusa della capacità di reazione, nonostante tutto, della classe operaia e in genere delle forze rivoluzionarie al processo di condizionamento massiccio di cui sono vittime in questa società” 62.
La sterzata a sinistra del gruppo di matrice azionista a metà degli anni ’60 aveva provocato un isolato e accorato articolo di dissenso da parte di Carlo Casalegno che stava allora collaborando al giornale La Stampa. Il suo scritto restituisce a pieno il clima diffuso nella cultura italiana di sinistra:
“da giudizi e commenti anche di vecchi e cari compagni mi sento messo in stato d’accusa. Alcune mie note degli ultimi mesi hanno suscitato reazioni aspre, quasi violente…Mi sembra che un chiarimento portato oltre l’episodio personale sia necessario… Non è un reato di lesa Resistenza rifiutare il neutralismo per l’Alleanza atlantica, respingere il Fronte popolare, credere (o sperare) che la Germania del 1964 sappia occupare il suo posto nelle schieramento dei popoli liberi, denunciare l’antisemitismo in Russia, rifiutarsi di identificare la politica degli Stati ex coloniali con la causa del Bene. Non è un peccato contro la giustizia e la libertà dire no al comunismo, al castrismo, al massimalismo del Psiup, ai sogni di palingenesi rivoluzionaria, al disarmo dell’Occidente” 63.
Il Sessantotto italiano non avrebbe potuto conseguire i suoi effetti inquietanti e duraturi se non fosse venuto meno in maniera rapidissima il retroterra dell’antifascismo democratico dell’Italia civile, dell’Italia della ragione 64. Negli anni ’60, senza problemi, senza travaglio particolare
“un’intera società, quella italiana, o per meglio dire la sua parte colta, quella più visibilmente e professionalmente implicata nell’elaborazione e nella trasmissione delle idee, si trasferì in vario modo nel campo del radicalismo” 65.
Anche l’autore del libro seguì l’andazzo generale come risulta da questa significativa ammissione:
“Lontano da un impegno politico diretto, il campo del mio radicalismo fu soprattutto quello degli studi storici che proprio nella seconda metà degli anni Sessanta cominciavo a praticare. Adempii dunque con grande scrupolo a tutti gli obblighi di schieramento storiografico-culturale a cui la nuova sinistra – si diceva così – chiamava i suoi seguaci in quel campo. Deprecai per esempio che Roberto Vivarelli scrivendo dell’ascesa del fascismo mettesse in luce i catastrofici errori dei socialisti nel biennio rosso. Fui doverosamente critico di quella che appariva la colpevole comprensione usata da Renzo De Felice nei confronti della giovinezza rivoluzionaria del Duce. Stigmatizzai le interpretazioni all’insegna dell’arretratezza che il Pci ancora dava dell’economia italiana durante il ventennio (in questo caso almeno, però, non ho cambiato opinione). Mi convinsi anch’io che la categoria leniniana dell’imperialismo era in tutto e per tutto valida per capire la storia d’Italia e del mondo. E infine, seppure come ultima ruota del carro, diedi il mio modestissimo contributo alla riuscita di un grottesco colpo di mano (elettorale per carità, solo elettorale) organizzato da alcuni baroni democratici al fine di defenestrare gli odiati defeliciani dalla guida dell’Istituto romano per la storia della Resistenza. Oggi sono in grado di giudicare queste cose per quello che effettivamente furono: delle sciocchezze. Ma se su di esse si deve dare un giudizio equanime e comprensivo di tutti gli aspetti implicati, allora la semplice condanna non basta. C’è bisogno di una spiegazione. E la spiegazione è che la generazione di studiosi di storia, ma non solo (più o meno lo stesso vale per molte altre discipline), la quale vide la luce in quegli anni Sessanta si trovò a dover fare i conti…con una sistemazione della vicenda italiana e del suo passato che, anche se universalmente accettata, era però ispirata a una decisa e radicale, unilateralità” 66.
Si trattava in concreto di una versione della storia italiana filtrata dalla vulgata gramsciana che, in ultima istanza, finiva con l’esaltazione del Partito comunista di cui si rimarcava la capacità di coniugare a livello politico ideologico la fedeltà leninista con la tradizione democratica nazionale 68. Contrastare tale visione era impresa ardua, nonostante tutte le sue contraddizioni, dal momento che l’effettuazione di tale intento era subito passibile di venir qualificata come operazione anticomunista 69. Al fine di rimanere estranea a tale pericolosa accusa la confutazione, conformandosi al vento dell’epoca, si venne a collocare a sinistra rispetto al Pci 70, senza comprendere che, sul piano effettivo della critica, molto più dell’astratto furore goscista, erano adatte le pagine puntuali di Vivarelli, De Felice e dei pochi loro vicini, tutti colpiti del resto da esecrazione impietosa 71. Si era ben lontani dal condividere l’atteggiamento che dovrebbe avere lo storico secondo l’esemplificazione suggestiva data da Emilio Gentile quando ricorda Nino Valeri 72, suo professore all’Università che, all’inizio del suo corso di storia, invitava gli studenti a
“diffidare di tutto quello che avrebbe detto” 73.
E non perché si sentisse in mala fede, ma perché convinto della problematicità estrema delle discipline storiche. Si tratta di una dichiarazione sicuramente eccentrica alla storiografia qualificata da intenzionalità ideologica e propagandistica di cui Valeri aveva conoscenza e dalla quale intendeva prendere le distanze, consapevole che nessuna visione ideale orienta in maniera infallibile nella ricerca storica e, anzi, essa può fungere da ostacolo al conseguimento della verità ove operi da filtro discriminante nell’accertamento dei fatti e della loro interpretazione. Nel suo saggio sul Risorgimento, per certi aspetti complementare all’opera di Galli della Loggia, Emilio Gentile nota come l’Italia sia un paese privo di radici storiche in cui la tradizione nazionale è scomparsa 74. Tutto questo si è verificato non casualmente ove si constati la presenza di una storiografia incline a decifrare, quasi per coazione a ripetere, in chiave negativa la storia italiana 75, secondo formule suggestive ricorrenti come rivoluzione mancata, incompiuta, tradita riferite al Risorgimento 76. Del resto nel compiersi della vicenda risorgimentale, per motivazioni diverse e alla fine convergenti, i socialisti, i cattolici, i repubblicani rimasero estranei e addirittura ostili a quanto stava avvenendo. La formula con cui si esprimeva nel modo più efficace il disagio per la nuova compagine politica era quella del paese reale opposto al paese legale, una dicotomia destinata a perseverare, anche in maniera non del tutto consapevole, nella coscienza degli italiani. La smitizzazione del passato nazionale, non circoscritta alla consorteria degli storici accademici, si sarebbe prolungata in maniera enfatica nella storiografia scolastica 77, con indubbie conseguenze negative nel processo di identificazione nazionale e politica delle giovani generazioni le quali, casomai, potevano rinvenire in una storia tutta negativa alle loro spalle l’alibi e la giustificazione a tutte le loro inadempienze.
Il saggio di Galli della Loggia si estende all’analisi delle fasi successive della storia italiana con annotazioni che si saldano con coerenza al quadro sin qui delineato, peraltro è sembrato opportuno soffermarsi sulla prima parte del libro in quanto più significativa dal punto di vista storiografico e metodologico. Si tratta, in ogni caso, di un’opera importante e sofferta che aiuta sicuramente a comprendere meglio la storia italiana del Novecento.
(1 marzo 2018)
N OTE
1 E. GALLI DELLA LOGGIA, Credere, tradire, vivere, Bologna, il Mulino, , 2017.
2 E. GENTILE, Italiani senza patria – Intervista sul Risorgimento, Bari, Laterza, 2011, p.87 : “tra il 1969 e il 1972, occuparsi del tema della nazione, in modo diverso dal denunciarla come una sovrastruttura mistificatoria del dominio di classe borghese, significava o essere considerati fascisti o scrivere di qualcosa che non aveva più senso, un relitto antiquario”.
3 Il Corriere della Sera 6 Dicembre 2014, Zero in storia – Einaudi stecca.
4 L’Italia contemporanea, Torino, Einaudi, 1976, a cura di V. CASTRONOVO, p. VII : “Una nuova mobilità di larghi strati dell’elettorato ha proposto infine, con una forza sconosciuta per l’innanzi, il problema di un’alternativa del potere, della rinnovata capacità d’espansione di quel filo rosso di sinistra presente a ogni livello nella vita nazionale lungo tutto il corso degli ultimi trent’anni. Come nel 1945 il momento delle scelte e delle decisioni politiche è tornato così ad assumere un ruolo dominante”.
5 E. GALLI DELLA LOGGIA, ivi, p.8.
6 Ivi, p.8.
7 Ivi, p.9.
8 Ivi, p.9.
9 Ivi, p.9.
10 Ivi, p.23: “Era anche il moralismo congenito dell’opposizione italiana. Stare nel cui campo…significava per esempio dover sentire o leggere di continuo che De Gasperi era un traditore perché nel 1947 aveva proditoriamente rotto la coalizione con le sinistre cacciandole dal governo, che la Dc aveva vinto surrettiziamente le lezioni del 1948 grazie all’intimidazione religiosa, che i governi degli italiani erano servi degli americani e la socialdemocrazia internazionale del capitalismo, che i deputati centristi dovevano la loro elezione solo ai favori e alla corruzione…Insomma, la sconfitta era sempre frutto di qualche colpo basso altrui, il successo dell’avversario aveva sempre un che di disonesto, di illecito”.
11 Ivi, p.23.
12 Ivi, p.31-32: “Il fascismo infatti amò sempre più raffigurarsi come una rivoluzione, e dunque volle dare di sé un’immagine di rottura naturalmente del tutto positiva, in contrapposizione allo Stato e alla società italiani immediatamente precedenti. Allo stesso modo come dopo la sua caduta avrebbe fatto, a parti invertite, l’antifascismo più radicale, parlando anch’esso di rivoluzione antifascista. Ma è precisamente in forza di tale rappresentazione di sé come rottura positiva che il fascismo per primo delegittimò tutti i propri avversari, considerandoli rappresentanti di un passato negativo e non esitando a manipolarle l’identità morale e politica. Anche su questo piano esso venne imitato in seguito da molto antifascismo, con la raffigurazione più o meno di comodo che questo si fece del fascismo”.
13 Ivi, p.26.
14 Ivi, p.27.
15 Ivi, p.30.
16 Ivi, p.30.
17 Ivi, p.30.
18 Ivi, p.30.
19 Ivi, p.40: “Nella stessa occasione Croce dichiarò che il fascismo ”. Al riguardo particolarmente significativa è la testimonianza di P.CALAMANDREI sul clima di violenza che c’era in quel periodo : “Senza pubblico sfoggio di cortei e senza solennità di bandiere al vento, raduniamoci qui, o colleghi illustri e cari studenti senesi, come nelle catacombe i fedeli di una religione perseguitata; raduniamoci qui, tra queste mura consacrate alla severità della scienza, per celebrare in segreto il rito di una religione che fuori di qui ognuno può impunemente bestemmiare: la religione della Patria. Fuori di qui, mentre stan per compiere due anni da quella vittoria del Piave, che liberò l’Italia e il mondo dal minacciato servaggio, è ormai lecito bruciare sulle piazze la bandiera d’Italia per sollazzo domenicale; fuori di qui, coloro che portano sulle vesti e più sulle carni i segni del loro valore del loro martirio, i mutilati in divisa, sono ingiuriati, inseguiti come ladri, percossi, pugnalati alle spalle; fuori di qui, le turbe esaltate che passano in corteo cantano una loro canzone, il cui stolto ritornello dice che la bandiera bianca rossa e verde si deve abbassare; e noi pensiamo mestamente, con un nodo di pianto alla gola, che proprio perché il bianco rosso e verde non fosse abbassato, cinquecentomila giovinezze si sono immolate…cinquecentomila nostri caduti giacciono lassù, nei solitari cimiteri di guerra, dove nessuno più li ricorda, fuorché le madri che non dimenticano mai”, In memoria degli studenti caduti per la Patria, Discorso detto il XXIX Maggio MCMXX, R.Università degli Studi di Siena, Arti Grafiche Lazzeri, Siena 1920, p.4.
20 Ivi, p.31.
21 Ivi, p.43: “La vasta e perdurante fortuna del paradigma della complicità applicato alla politica e alla storia forse rimanda ad alcuni psichismi sociali che strutturano l’immaginario collettivo. Al cui centro sta evidentemente l’idea che il mutamento sociale – quando è percepito come negativo – si spiega con cause che non sono mai quelle che appaiono, bensì sono il prodotto di forze oscure, solite a muoversi dietro le quinte nella dimensione del complotto. E c’è egualmente l’idea che il mutamento sociale negativo, il male, abbia bisogno, per affermarsi, di avere dei complici”.
22 Ivi, p.44.
23 Ivi, p.44.
24 Ivi, p.46: “la delegittimazione antifascista, assurta a una specie di delegittimazione fondativa della Repubblica, ha fatto quasi corpo con essa, è stata destinata a punteggiarne ogni fase, e il suo modello fondato sulla categoria di complicità è diventato il modello di un meccanismo di esclusione destinato a un amplissimo uso”.
25 Ivi, p.52.
26 Ivi, p.52.
27 Ivi, p.52.
28 Ivi, p.53.
29 Ivi, p.53.
30 Ivi, p.534.
31 Ivi, p.59.
32 Ivi, p.59: “non pochi di coloro che già nel 1945 costituivano la crema dell’Italia antifascista…avevano alle spalle esperienze come quella che lo stesso Bobbio così riassumeva..con una sincerità di cui gli va riconosciuto il merito: 33 Ivi, p.60: “Bobbio si vergogna e si tormenta per quella sua ambiguità giovanile…di essere stato, negli anni in cui la parabola del fascismo cominciò a calare, insieme fascista di regime ed antifascista. Ma fu così di milioni d’italiani, che non capivano la persecuzione razziale, non approvavano l’alleanza con i nazisti, consideravano la guerra una tremenda sciagura, ma continuavano a portare il distintivo, ad andare alle adunate, e a considerarsi fascisti di regime”.
34 Ivi, p.61.
35 Ivi, p.61.
36 Ivi, p.61, e alla p.64: “Per vivere nel loro nuovo Stato, per essere accolti nella casa dell’appena fondata democrazia, quasi tutti gli italiani erano stati costretti dalle circostanze a dimenticare, manipolare o rinnegare il proprio passato”.
37 Ivi, p.63: “Il ventennio fascista…fu un ventennio di sconcio illegalismo, di umiliazione, di corrosione morale, di soffocazione quotidiana, di sorda e sotterranea disgregazione civile… Perché, sì, fu un’invasione che veniva dal di dentro, un prevalere temporaneo di qualche cosa di bestiale che si era annidato dentro di noi”quadro dell’epoca fascista disegnato da Piero Calamandrei”.
38 Ivi, p.64.
39 Ivi, p.85.
40 Ivi, p.85.
41 Ivi, p.86.
42 Ivi, p.86.
43 Ivi, p.86.
45 Ivi, p.87.
46 Ivi, p.87.
47 Ivi, p.87.
48 Ivi, p.87: “L’Italia del Cln, insomma, non poté avere nessun Karl Jaspers – l’autore, come si sa, del celebre La colpa della Germania (1946(, indicativo già nel titolo del proprio contenuto”.
49 Ivi, p.93: “Torna qui a proposito che confessi il mio debito di gratitudine verso Augusto del Noce, i cui libri come quelli di nessun altro sono serviti a liberare da questo pregiudizio storiografico me come chiunque abbia deciso di superare il più o meno velato ostracismo con cui l’intellettualità ufficiale (inclusa quella della sua parte) cercò a lungo di neutralizzarlo”.
50 Ivi, p.93.
51 Ivi, p.94.
52 Ivi, p.94-95: “(i cattolici) avevano condotto una vita nascosta attorno agli arcivescovadi, le sacrestie, le scuole e le associazioni cattoliche; e sembravano stupefatti di comparire ai raggi del sole. Della loro lunga esistenza segreta conservavano una specie di profumo: quel profumo di tisane, sonno, sudore, borotalco e marmellate di prugne che intride gli ambienti ecclesiastici…Avevano dei visi molli e un poco informi, dove non si distinguevano bene i lineamenti: il naso si scioglieva tra le guance, le mascelle non erano mai nette, il colore dei capelli indugiava tra il bruno e il biondiccio, gli occhi erano sbiaditi, sulle labbra errava un sorriso indeciso. Non guardavano negli occhi. Stringevano fiaccamente la mano. E se cominciavano a parlarti, guardavano da un’altra parte. Non esibivano mai verità perentorie”.
53 Ivi, p.94.
54 Ivi, p.54.
55 Ivi, p.99.
56 Ivi, p.100.
57 Ivi, p.116.
58 Ivi, p.116.
59 Ivi, p.116.
60 Ivi, p.116.
61 Ivi, p.123.
62 Ivi, p.127.
63 Ivi, p.128.
64 Ivi, p.139-140 : “Il Sessantotto italiano non avrebbe potuto avere i suoi effetti maggiori e più duraturi…se non ci fosse stato lo sgretolarsi repentino di quel territorio culturale, storico politico, in genere intellettuale, all’apparenza solidissimo, presieduto dai più eminenti rappresentanti dell’antifascismo, dagli esponenti più autorevole della cultura democratica e del giornalismo d’opinione”, e alla p.140-141 : “Delle cose sostenute in quella temperie politico-culturale …mi sembrano soprattutto degne di essere ricordate, a causa degli effetti perniciosi di lunga durata prodotti in un settore cruciale come quello della scuola, quelle dette e scritte da Tullio De Mauro. Ad esempio, in vista di un auspicato <ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale>, la quale <fin nell’insegnamento innocente dell’ortografia…obbedisce ad un disegno che è un disegno politico, obbedisce cioè al disegno di verificare il grado di conformazione dei ragazzi che passano nelle scuole ai modi linguistici delle classi dominanti>, De Mauro non si peritò di proporre con forza <il recupero del valore dell’oralità> come <recupero della coscienza e della dignità dell’inventiva, dell’informale, rispetto all’ossequio pedissequo agli stilemi della lingua scritta”.
65 Ivi, p.143.
66 Ivi, p.143-144.
67 Ivi, p.144.
68 Ivi, p.144.
69 Ivi, p.144.
70 Ivi, p.144-145.
71 Ivi, p.145.
72 E. GENTILE, op.cit., p.89: “l’anno dopo seguii il corso di Storia di Nino Valeri, in oratore brillantissimo e molto ironico, che cominciava i suoi interventi invitando gli studenti a diffidare di tutto quello che avrebbe detto”.
73 Ivi, p.89.
74 Ivi, p.19.
75 Ivi, p.112-113: “In Italia, scrive Jacques Le Goff , è peculiare la … questo rilevava Le Goff in Italia nel 1974”.
76 Ivi, p.30: “Del resto, in altri romanzi del primo cinquantennio unitario, da Vicerè di Federico De Roberto ai Vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, prevale la visione fallimentare del Risorgimento, che accompagna la critica dello Stato unitario, quella visione della , o che ebbe successo presso le nuove generazioni, da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Amendola a Piero Gobetti”.
77 E. GALLI DELLA LOGGIA, op.cit., p.165 : “non meraviglia che nel senso comune di una parte importante del popolo di sinistra sia rimasta a lungo la convinzione che il terrorismo rosso in realtà non fosse per nulla rosso. Può sembrare invece alquanto più sorprendente, ma è solo la riprova di una certa egemonia culturale conquistata dal Pci, il modo in cui nei due o tre decenni seguenti l’argomento è stato trattato dal manuale di storia forse più diffuso nelle scuole superiori, quello di Augusto Camera e Renato Fabietti, L’età contemporanea, edito da Zanichelli : "Al terrorismo nero si salda presto quello che si dichiara rosso e proletario ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensioni e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide”. Importante di G. ZAZZARA, La storia a sinistra, Bari Laterza 2011.