E’ tempo di giustizia? Misure cautelari e separazione delle carriere nel processo penale
(di Lapo Becattini)
Trovare il corretto equilibrio tra esigenze del processo penale e garanzie di tutela dei diritti dell’indagato o dell’imputato è una delle problematiche più rilevanti che attanagliano il sistema giudiziario italiano.
Tale questione non rappresenta la solita “tiritera tricolore”, ove si considerino il preminente valore degli interessi in gioco e la natura di iuris mater della nostra terra: chi ha dato i natali a Beccaria prima e a Carnelutti qualche secolo più tardi ha il dovere di affrontare le grandi questioni della giustizia nella maniera più approfondita possibile e soprattutto di trovare soluzioni che sappiano esprimere la cultura giuridica di cui sono frutto.
Ed invece, da un lato, il dibattito politico sembra talvolta dimenticarsi dei principi cardine della Giustizia, con un Legislatore che ha più volte dimostrato di non voler assumere iniziative coraggiose, capaci di far acquisire finalmente concretezza a formule costituzionali ancora troppo lontane dalle aule dei Tribunali; dall’altro, la sovraesposizione mediatica dei processi, specie quelli di cronaca nera, trasformati in talk shows che si propongono di duplicare le attività degli investigatori, portando il cittadino a “tifare” per l’innocenza o la colpevolezza di colui che, volente o nolente, diviene bersaglio di pretesi esperti della materia che esaminano, tra una pubblicità e l’altra, intercettazioni, consulenze tecniche e verbali, atti spesso ancora secretati.
Inerzia istituzionale e mal interpretato diritto all’informazione provocano quotidianamente un vulnus al cuore stesso del sistema giustizia, che oggi più che mai deve essere ripristinato, al fine di ricostituire una coscienza sociale, ancor prima che giuridica, che appare perduta.
Non va sottaciuto, invero, che nel Paese aleggia, nostro malgrado, la pesante atmosfera della presunzione di colpevolezza e che, pertanto, l’incardinarsi di un procedimento penale sembra, per ciò solo, caricare di responsabilità l’indagato, attribuendo all’ipotesi accusatoria una cogenza di cui è certamente priva.
Un simile approccio non appartiene tuttavia soltanto a chi, estraneo all’ambito di cui si discute, forma la propria opinione in base ad informazioni ben poco tecniche, acquisite dai mass media, bensì, nei fatti, ai ranghi più alti dei giuristi e dei politici.
Come mi è stato insegnato, infatti, un processo non si vince mai: chi lo ha vissuto da imputato, anche in caso di assoluzione, porterà sempre con sé il marchio.
Consentire periodi di carcerazione preventiva; violare la riservatezza delle comunicazioni, al fine di investigare circa rapporti e relazioni personali; sospendere, anche per lunghi periodi, l’esercizio di attività commerciali nominando all’uopo amministratori giudiziali; separare un padre o una madre dai propri figli piccoli in attesa dell’esito del processo, appaiono tutte misure, se non garantiste, in ogni caso utili e – forse – necessarie per assicurare che sino alla verifica circa l’innocenza o la colpevolezza dell’indagato costui non sia in grado di potenzialmente nuocere.
Affrontato però l’argomento con spirito di giustizia concreta, tali provvedimenti rappresentano, già autonomamente considerati, vere e proprie condanne anticipate per reati ancora da accertare: essere rinchiusi in carcere per un periodo di tempo che può giungere a sei anni; vedere la propria vita privata violata nella più intima confessione; perdere – perché così accade nella quasi totalità dei casi – la propria azienda che non ha saputo reggere, anche a livello d’immagine, l’impatto giudiziario; essere allontanato, magari per anni, dall’affetto dei figli sono obiettivamente sanzioni che incidono profondamente nella vita delle persone che ne sono attinte, causando anche effetti definitivi, a prescindere dalla successiva pronuncia dei Giudici.
Ed allora, a mio avviso, non essendo censurabile, da un lato, l’utilizzo di strumenti cautelari e, dall’altro, non apparendo prioritaria al Legislatore l’esigenza di accelerare quantomeno la fase delle indagini preliminari – che in alcuni casi vengono protratte per anni e anni, senza che venga posta in essere alcuna attività – l’unica vera soluzione è quella di “garantire” il processo ponendolo nelle mani di un Giudice che sia terzo, nella forma e nella sostanza, rispetto alle parti.
La mancata volontà di affrontare il tema in questione ha generato norme addirittura contraddittorie rispetto alle premesse ed alle promesse formulate: si pensi soltanto agli slogans propagandistici di violenta accelerazione per la conclusione dei processi e alla opposta volontà di rivedere la normativa sulla prescrizione dei reati, al fine incrementarne il tempo necessario al suo verificarsi, nonché agli interventi spot con i quali si è già intervenuti in materia (reato di corruzione).
Quindi, se è vero che numerose sono le questioni sottese al processo penale che andrebbero affrontate in modo organico, è altrettanto vero che la separazione delle carriere dei Magistrati rappresenta forse l’unica riforma che potrebbe davvero razionalizzare il sistema del processo penale.
Tale riforma, affiancata al necessario rigore col quale deve essere assicurato il segreto istruttorio, potrebbe garantire la più piena fiducia nel sistema- giustizia.
“Giusto processo” è processo giusto per accusa e difesa; ciò significa – anche – corretto uso degli strumenti procedurali e processuali. Pertanto, se, come visto, sussistono serie ed evidenti problematiche legate ai provvedimenti cautelari, queste sembrano poter essere risolte non tanto invocando la loro indiscriminata disapplicazione ma, piuttosto, attraverso una duplice garanzia: che la misura venga irrogata da un Giudice terzo; e che la sua durata sia ridotta al minimo.
(31 marzo 2016)