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Tra mitologia e concretezza: alcuni spunti storico-comparatistici in tema di certezza del diritto (di Giovanni Cossa)

La certezza del diritto è, senza dubbio, uno dei punti di riferimento concettuale delle esperienze giuridiche contemporanee, principio propugnato dai legislatori e valore agognato dai giuristi, nonché – comprensibilmente – oggetto di studio secondo le più diverse direttrici1: ben si comprende come non sia affatto impresa agevole quella di occuparsene in maniera sintetica e, al contempo, esauriente. Ciò, sia per la vastità dei suoi confini, sia per le peculiarità dei contesti in cui deve (o dovrebbe) trovare affermazione2, sia infine per il fatto che essa implica la ricerca di una difficile conciliazione tra istanze in astratto confliggenti: l’esigenza per il soggetto di diritto di conoscere pienamente le norme che l’ordinamento gli chiede di osservare, e quindi di poter dirigere correttamente i propri comportamenti, da un lato, e la sempre più viva richiesta di una giustizia concreta che possa esulare da precetti generici e, invece, adattarsi al divenire delle esperienze umane3.
Del resto, affrontare tale tema avendo come riferimento il panorama offerto dall’attuale stato del sistema delle fonti (ma anche dei meccanismi di applicazione delle norme) appare compito paradossalmente più problematico di quello cui dovette far fronte Lopez de Oñate quando, ormai oltre settant’anni fa, portava a compimento la sua ricerca, divenuta in breve pietra miliare sull’argomento e in grado di suscitare un fiorente dibattito di idee negli ambienti della scienza giuridica italiana4. Egli aveva davanti agli occhi, infatti, le esperienze dei totalitarismi, e poteva ben assumere la certezza del diritto quale “stella polare” del cammino giuridico dell’ordinamento, valore irrinunciabile cui aggrapparsi in opposizione agli arbìtri del potere politico. In realtà, l’Autore prospettava tale certezza come forma di reazione alla “crisi del diritto”, che per lui era essenzialmente “crisi della legalità”: solo la legge, infatti, avrebbe potuto garantire la tutela del singolo e dare attuazione così all’intrinseca “eticità” del diritto. 
Come si evince, si tratta di un’impostazione forgiata nel giuspositivismo, che è anche il contesto teorico al quale si riconduce tradizionalmente l’affermazione del valore qui considerato, sebbene esso venisse a essere apprezzato già nella riflessione del giusnaturalismo5. Ora, non è nelle intenzioni scendere nel dettaglio di un’accurata revisione storica dell’idea di certezza e della sua emersione al rango di “principio” nei vari ordinamenti, quanto piuttosto proporre con queste brevi note una chiave di lettura con cui dare interpretazione e fornire risposta ai persistenti assalti che il nostro valore sembra subire nell’odierna realtà della produzione e dell’applicazione di norme: attraversiamo anche noi un periodo di c.d. “crisi”, come nella prima metà del Novecento, ma diverse ne sono le caratteristiche così come le cause. Se a quel tempo si voleva contrastare la decadenza della legge, oggi piuttosto siamo chiamati a confrontarci con la “crisi delle codificazioni”, e del diritto astratto e immutabile. E non è detto, di conseguenza, che la “certezza” possa tuttora essere l’ancora di salvataggio cui aggrapparsi nelle agitate acque della pratica giuridica. Per sottoporre a vaglio, dunque, l’attualità e la necessità di un diritto ancora “certo” vorrei adottare la visuale dello storico, suggerendo così uno sguardo sulla tradizione propria del nostro ordinamento, nella convinzione che il tema in oggetto non debba necessariamente essere confinato alle “volatili” speculazioni dei filosofi del diritto, bensì meriti di essere approfondito anche in relazione ai suoi riflessi concreti (e pertanto la sua disamina non possa sottrarsi al giurista in quanto tale)6. Per questo, occorre anzitutto fare chiarezza, e delimitare l’oggetto della nostra osservazione.
Non è un mistero che il sintagma “certezza del diritto” possa riferirsi a una pluralità di significati, ciascuno dei quali con una precipua dimensione e innumerevoli implicazioni7. Per quanto qui rileva, si potrebbe tracciare una dicotomia di carattere generale tra due grandi manifestazioni di essa: da un lato, la nettezza del diritto, come oggettiva stabilità della norma e sua piena conoscibilità; dall’altro, la sicurezza del diritto, nel senso di garanzia di una sua pronta ed efficace applicazione. Il primo profilo è accompagnato dalla stretta prevedibilità dei comportamenti imposti e delle conseguenze della loro mancata osservanza: in un gioco fondato su regole certe, il consociato conosce astrattamente, in anticipo, quali saranno gli effetti delle proprie mosse, e non ne teme eventuali sovvertimenti in corso di partita. Egli deve, dunque, poter disporre di indicazioni formulate con chiarezza e rigore; al contempo, però, questa cristallina stabilità può volgersi a discapito delle inevitabili esigenze evolutive del sistema, a cui si chiede in linea di principio di plasmarsi in base alle dinamiche della società in cui si cala, ma che non sempre, nei fatti, è in grado di tenere il passo delle richieste da essa provenienti. Sotto il secondo profilo, invece, l’attenzione si sposta sui meccanismi di accertamento e attuazione coercitiva: dalla predisposizione alla effettiva operatività. Pertanto, un sistema “certo” assicura l’applicazione tempestiva delle norme tramite i propri organi giurisdizionali e amministrativi: ove i ritardi e le patologie costitutive impongono di differire la tutela concreta dei diritti e degli interessi legittimi, il soggetto non ha congrue guarentigie in caso di mancata spontanea collaborazione delle controparti e dei terzi.
È doveroso sottolineare, tuttavia, che queste notazioni non sono sufficienti a delineare cosa concretamente significhi la formula in oggetto: non basta cioè definirne il primo segmento, ma occorre chiarire anche cosa si intenda per “diritto”8. In una parola, potremmo dire che esso si identifichi con la legge statale, e si risolva in essa: il concetto di certezza presuppone che il titolare del potere di emanare regole sia identificato unicamente con lo Stato9. Negli ordinamenti della modernità, cioè, l’approccio è essenzialmente legalistico, tenendosi per saldi alcuni ben delineati “arnesi mitologici”, secondo la terminologia usata da Paolo Grossi, il quale provvede invero a elencarli. “Il primo è lo Stato quale unico produttore di diritto, al quale consegue, dapprima, il mito della legge quale unica fonte capace di esprimere la volontà generale e, quindi, quello della sua intrinseca giustizia e della indiscutibile infallibilità del legislatore. Il secondo è che la produzione del diritto ha termine con la promulgazione del testo contenente la volontà del legislatore quale unico produttore, con la rilevantissima conseguenza … che l’attività intellettuale di ogni interprete (soprattutto del giudice) si riduce … nella scansione logica del sillogismo benedetto in tante pagine illuministiche”10. Questa successione di assiomi restituisce una visione della certezza del diritto conforme a quella che generalmente si percepisce e si ritiene adeguata negli ordinamenti attuali: una visione che la sovrappone alla mera “certezza della legge”, trascurando tutte le altre componenti (anche extra-statuali) che concorrono comunque a formare il complessivo sistema delle regole. Si tratta, però, di una concezione che, nella sua ristretta portata, non può che incontrare ai nostri giorni un momento di forte instabilità, da apprezzarsi alla luce delle “minacce alla certezza”11 astrattamente prospettabili.
Dal punto di vista teorico – va anzitutto premesso – la certezza del diritto viene messa in pericolo da quei fenomeni che impediscono di percepire in maniera chiara l’esistenza di un precetto: ossia l’assenza di norme, ma anche, di converso, la loro soverchia moltiplicazione, poi la loro oscurità e ambiguità, nonché la mancata pubblicità del loro dettato, così come l’inconsistente coordinamento tra di esse sia in senso verticale (diacronico) che orizzontale (sincronico). Tutti questi ostacoli, teorizzati dalla dottrina, fanno implicito riferimento a situazioni inerenti alle procedure di confezione della norma statale, ossia in particolare alla legge, e in essa trovano origine. Ve ne sono, però, altri che presentano un’eterogenesi, pur essendo poi suscettibili di affliggere proprio la legge (stavolta vista quale semplice destinatario di interferenze): possono cioè costituire causa di incertezza, ad esempio, eventuali fonti concorrenti di derivazione non statuale (quale la consuetudine) oppure le modalità concrete con cui viene svolta l’attività di applicazione della legge (penso alla discrezionalità degli organi giurisdizionali), o anche ai criteri integrativi che in essa possono trovare spazio (come l’equità). Se della prima tipologia di circostanze v’è oggettivamente poco di cui dibattere, in quanto la loro presenza confligge di per sé con l’idea di un diritto affidabile, è piuttosto sulle seconde che deve spendersi qualche ulteriore riflessione, poiché esse rimandano alla citata assimilazione tra certezza del diritto e certezza della legge, e sono forse in grado di porla in discussione.
Sono ormai trascorsi quasi quarant’anni da quando Natalino Irti ha parlato, in riferimento alla presente, di “età della decodificazione”, ponendo attenzione alla (spesso incontrollata) proliferazione di leggi speciali, che avevano (e hanno) l’effetto di intaccare la vigenza universale delle normative generali la cui sede naturale è rappresentata negli Stati moderni dalla forma “codice”12. La destabilizzazione dei codici, di fronte all’emergere di complessi prescrittivi particolari, con la non secondaria conseguenza di affievolire il portato di stabilità che i primi implicano, è però solo una delle manifestazioni della ormai diffusa tendenza a riconoscere un sempre minor ruolo di garanzia alla fonte legislativa. Si tratta, ovviamente, dell’ultimo esito di un percorso le cui radici vanno ricercate nella crisi dello Stato moderno, a partire dalla prima metà del secolo passato13. Così, per il concorrere di una pluralità di elementi (che potremmo, in effetti, ascrivere all’evoluzione incessante della società), si è prodotta una progressiva marginalizzazione della legge come mezzo di disciplina dei rapporti tra privati: l’emergere di statuti particolari, la necessità di adeguare la legge stessa al correre delle esigenze pratiche, nonché il suo ridursi contenitore di regolazioni pressoché “contrattualistiche”; tutto questo ha fornito il contesto. Gli esiti, sotto forma di patologia nella risposta del legislatore, non hanno tardato ad arrivare: legificazione a perdifiato, impalpabili o fallaci meccanismi di successione, uso di semantica tecnica carica di eccessivi (e, di volta in volta, settoriali) specialismi o, all’opposto, di vere e proprie imprecisioni linguistiche. Il panorama è a disposizione di ogni osservatore; e si deve qui tacere dell’incidenza – non certo marginale, come si constata quotidianamente – dei principi costituzionali o delle disposizioni comunitarie: essi hanno ridotto ulteriormente lo spazio di applicazione delle codificazioni.
Il quadro di riferimento, quindi, ha chiamato necessariamente in causa l’attività degli operatori pratici, a sciogliere i dubbi, a scegliere tra le norme, talvolta a integrarle: una posizione che, per ovviare alla sempre minore autosufficienza della legge, non potremmo oggi definire esclusivamente ermeneutica e applicativa, ma che forse ha già compiuto il passo decisivo verso un implicito riconoscimento di competenze creative. Tutto ciò, però, aumenta a dismisura lo spazio aperto alla decisione singola, al contempo frazionando l’aspettativa di una disciplina globale in rivoli di regimi occasionali e particolari. E si tratta di uno scenario che si innesta su un sistema storicamente fondato sulla fonte legislativa, ove il Case Law non ha retaggio né dovrebbe avere spazio, perlomeno in astratto, e in cui quindi l’accresciuto ruolo della giurisprudenza non si è incontrato col necessario retroterra concettuale: di qui, i mancati o difettosi coordinamenti tra sentenze, indirizzi, interpretazioni, e le relative difficoltà degli organi preposti a mantenere una coerente unità di orientamenti.
Ci si chiede, dunque, da più parti quale debba essere oggi l’importanza e la funzione di un principio quale quello di certezza giuridica, in un’età che è stata definita “dell’incertezza”14; e – mi sembra – anche se possa continuare a sostenersi che la medesima certezza sia effettivamente un tratto intrinseco e costitutivo del diritto. Se dovessimo rispondere a tale ultima domanda sulla scorta della attuale situazione dell’ordinamento, dovremmo farlo – al contrario di quanto di solito si afferma15 – in maniera negativa: il diritto può essere certo, deve esserlo, ma non ne consegue che laddove non lo sia non possa considerarsi, appunto, diritto. Una siffatta visione, infatti, non avrebbe riscontro della realtà empirica; e, sul piano teorico, sembrerebbe porsi in contrasto con quella che è stata designata come la tendenza antitetica, ossia quella alla giustizia del caso concreto. Nella prospettiva tradizionale, del resto, quest’ultima è stata reputata, benché ugualmente coessenziale all’idea di diritto16, in grado di conciliarsi solo sporadicamente con la prima17.
La certezza deve essere piuttosto riguardata come un’aspirazione e un obiettivo, per la politica legislativa e giurisdizionale: il punto nodale sta, pertanto, nella scelta dei mezzi per raggiungere simile traguardo, ma è palese che i mezzi dipendono dal fine. Occorre definire, oggi, cosa intendiamo per “certezza giuridica” e quale configurazione ci interessa, se quella ancora legata all’impostazione giuspositivista, o forse una visione più aperta a quelle idee del “diritto naturale” che hanno avuto comunque un peso nell’emersione del nostro valore. Vorrei a tal fine suggerire una ricognizione su un periodo della storia giuridica del tutto “altro”, e perciò non contaminato dai presupposti teorici della modernità, che dunque ci permetta di riconsiderare il problema sotto una luce diversa; nella specie, vorrei considerare ciò che accadeva in una fase assai anteriore alla teorizzazione della certezza come principio fondamentale del diritto, quando vi si poteva guardare solo come a un’aspirazione concreta da inseguire nei fatti: penso al diritto dell’età romana.
Omnia sunt incerta, cum a iure discesseris” recita un abusato brocardo latino, spesso impiegato in contesti relativi alla materia in esame, ma del quale non tutti i fruitori probabilmente identificano l’autore, ossia Cicerone (Ep. ad fam. 9.16): laddove tutto ciò che si discosta dal diritto è afflitto dalla mutevolezza, la norma giuridica è assunta a paradigma della certezza e della stabilità. Dovremmo, quindi, immaginare che già nell’esperienza romana un simile “valore” abbia goduto di un peso rilevante, quale quello che si tende a riconoscergli nell’età moderna e contemporanea. 
In realtà, si tratterebbe di un giudizio alquanto superficiale, per almeno due motivi: anzitutto, perché l’opinione di Cicerone non può essere così semplicisticamente estrapolata dal complesso delle sue (sparse e molteplici) riflessioni sul tema “diritto”, le quali spesso lo vedono latore di giudizi negativi proprio a causa della confusione che sembra regnare nel ius. In secondo luogo, perché quella romana è appunto un’“esperienza” dinamica, e non un diritto cristallizzato e invariabile: quel sistema giuridico si manifesta e si modifica lungo secoli di applicazione e operatività – così da rendere piuttosto sterili tanto le ricognizioni globali quanto le affermazioni generiche – e, soprattutto, si mantiene costantemente aperto agli influssi e soggetto all’azione di forze che interessano sensibilmente i processi nomopoietici. In particolare, si potrebbe approfittare delle categorie proposte da Rodolfo Sacco18 – utili in prospettiva di comparazione diacronica oltreché sincronica, benché (come si vedrà subito) bisognose di qualche precisazione – notando che in quell’ordinamento un ruolo di primaria importanza tra le fonti di produzione del diritto è stato per molti secoli ricoperto dal “formante dottrinale” (che, però, dovremmo chiamare “giurisprudenziale”, con semantica etimologicamente più fedele all’accezione originaria di “iurisprudentia”, ossia “scienza giuridica, conoscenza del diritto”) e, altresì, dal “formante giurisdizionale” (che in tal modo, appunto, è più opportuno designare, in riferimento alla iurisdictio come funzione tipica del pretore nel cui ambito si esplica anche un’attività normativa).
Ciò non sta a significare che la componente “legislativa” non sia esistita o non abbia avuto rilievo: anzi, in recenti studi è stata espressa la fondata convinzione che in ogni epoca della storia istituzionale romana vi si facesse un ampio ricorso, anche nel settore del diritto privato (oltre che in quello del diritto pubblico, per il quale non si era in realtà mai dubitato)19. Inoltre, come hanno avuto modo di dimostrare alcune approfondite ricerche nel corso degli ultimi decenni, la certezza del diritto costituisce, senza dubbio un valore conosciuto e apprezzato dagli operatori giuridici di Roma20. Se dovessimo guardare, anzi, alla seconda delle due accezioni sopra delineate, quella relativa alla sicura applicazione della norme, dovremmo concludere che la tutela giurisdizionale si realizzava in maniera sicuramente più rapida ed efficiente di quanto saremmo autorizzati ad aspettarci, con tempi processuali ben delineati e assai concentrati, spese limitate e individuazione di soggetti giudicanti generalmente idonei21
Discorso più complesso – e più interessante ai nostri fini – è quello che concerne la certezza come riferita alla oggettiva esistenza e conoscibilità della regola: anch’essa era, in certa misura, un obiettivo da raggiungere per la scienza giuridica e per i titolari dei poteri pubblici. Invero, gli strumenti utilizzati per perseguirlo appaiono molteplici nel corso del tempo, di varia consistenza e di non eguale efficienza, pur se riconducibili prevalentemente alla legge scritta (dalle XII Tavole fino all’immane opera di codificazione e armonizzazione da parte di Giustiniano; a cui potrebbe affiancarsi l’attività “edicente” del pretore, con la sua preventiva definizione delle tutele giurisdizionali per i cives). In quella esperienza, in effetti, la lex publica prima, e le costituzioni imperiali poi rappresentano le fonti nella quale ravvisare la massima espressione di una normazione sicura e prevedibile. Soprattutto per l’epoca repubblicana, la deliberazione dell’assemblea popolare risulta lo strumento più idoneo per sottrarsi all’arbitrio politico, e per garantire un eguale trattamento per tutti i cives
Tuttavia, essa non è il vero “motore” creativo per la disciplina dei rapporti tra privati: è astratta e generica – e perciò “surda” e “inexorabilis”, com’è quella descritta da Livio (Ab Urbe cond. 2.3) – non potendo prevedere le specifiche ipotesi applicative, sulle quali essa viene calata e plasmata dall’intervento esegetico del prudens. Si tratta, beninteso, di un’interpretazione creativa: nella fucina del giurista si forgia la regola per il caso individuale, che poi diventerà regula iuris, cioè con valore più generale e quindi riproducibile altrove, allorquando sia suscettibile di essere assunta come principio più generale da impiegare in successive decisioni, anche da parte di futuri giurisperiti. Qui sta il nucleo del carattere eminentemente giurisprudenziale (nel senso “sapienziale” appena accennato) dell’ordinamento romano, perlomeno fino alla fine del III secolo d.C., età nella quale possiamo collocare l’ideale termine ante quem delle brevissime considerazioni qui svolte.
In sostanza, i prudentes partecipano, da una posizione privilegiata, alla formazione del diritto vigente attraverso la loro precipua attività di consulenza, consistente nella formulazione di pareri e soluzioni per i casi sottoposti da privati (o anche da magistrati giusdicenti). Questa produzione – a differenza di quanto avviene per le opinioni della nostra dottrina – assume il valore di norma giuridica, in quanto funge da strumento di mediazione tra l’astrattezza del precetto legale e la pratica delle vicende concrete. Le posizioni assunte nelle singole fattispecie venivano rispettate dai richiedenti e dal giudice, e seguite come fossero diritto positivo: ognuna di esse, ovviamente, valeva solo per il caso che l’aveva originata, ma il progressivo consolidarsi di una scienza giuridica, governata da sapienti laici, permise che tale valore si estendesse oltre i rispettivi confini genetici per essere recuperata e presa in considerazione dai giuristi successivi, in una continua dialettica “fuori dal tempo” che, nei fatti, ne esaltava la vigenza al di là della casistica occasionale.
È naturale che – ed è qui il tratto che ci interessa maggiormente – potessero, però, verificarsi di frequente dissensi giurisprudenziali, mutamenti di indirizzo, revisioni di opinioni su precise situazioni fattuali: in una parola che si originassero controversie. Tale “controversialità” è carattere inevitabile per il diritto romano (in quanto diritto puntiforme di casi e azioni) e, al tempo stesso, ne è tratto distintivo e conformante22. La peculiarità emergente da quell’ordinamento, però, risiede nella perfetta funzionalità di un sistema delle fonti, la cui traccia è quella di un’immanente dinamismo, grazie all’incessante opera di coloro che si esprimono su singole fattispecie: anche Pomponio, nel suo pionieristico “manuale” di storia del diritto romano, precisa che “il diritto non possa esistere, se non vi sia qualche giurista grazie al quale possa essere quotidianamente perfezionato”23. “In un sistema siffatto, ciò che è stabile e certo può essere revocato in dubbio; e ciò che è incerto e controverso può consolidarsi e stabilizzarsi. Da qui il binomio reversibile ‘ius controversum – ius receptum’, nel quale confluiscono e si integrano, ad opera della giurisprudenza, tradizione ed innovazione, certezza e concretezza del diritto”24
Il meccanismo, dunque, permette di non avvertire il problema della prevedibilità delle norme, in quanto esso è reso, al contempo, “instabil und überstabil” dal continuo lavorio della scienza giuridica25: la certezza diventa secondaria rispetto alla giustizia del caso concreto e alla “sicurezza sociale” che si perpetra con l’applicazione del diritto al fatto concreto da parte del prudens e del giudice. Il giurista, allora, non si preoccupa della certezza del diritto, come sicurezza dell’applicazione di un regime stabilmente prevedibile, ma è spinto a perseguire la decisione più “giusta” nel caso specifico: il suo obiettivo primario non è quindi il ius certum, ma il c.d. “bonum et aequum”, ossia la soluzione più idonea a realizzare la miglior contemperazione e realizzazione degli interessi in gioco tra le parti (il diritto è, del resto, proprio questo, a stare alla definizione di Celso: “ars boni et aequi”, vale a dire la tecnica operativa, l’attività umana volta alla progressiva definizione della regola di condotta secondo i criteri del “buono e del giusto”26. Come si nota, peraltro, il ius non è affatto immune alle componenti equitative, il che ci riconduce a quanto si potrebbe appunto osservare, in relazione alla scena contemporanea, proprio sull’equità come criterio integrativo della norma di legge.
L’impianto marcatamente casistico della disciplina che emergeva da tali meccanismi di normazione è stato spesso accostato alla realtà (anche odierna) dei paesi di common law: la similitudine coglie in effetti nel segno laddove accomuna entrambi nel genus dei “sistemi aperti”27. In entrambi si ammette un’eterointegrazione dei principi giuridici a partire da complessi di regole e valori che, in astratto, ne risulterebbero estranei: la fonte del diritto, in altre parole, non è solo quella legislativa, cosicché gli interpreti chiamati ad applicarlo hanno la facoltà di integrare il panorama precettivo in base a valutazioni non più ancorate a considerazioni formali, ma altresì legate a ragioni socio-politiche e morali, ad esempio. Un ordinamento è “aperto” se assume come tratto distintivo la fluidità delle proprie norme, che vanno considerate – lo spiegava chiaramente Bobbio – “in continua trasformazione”: in esso “al giurista viene attribuito il compito di collaborare insieme con il legislatore all’opera di creazione del nuovo diritto”28. E anzi, si potrebbe aggiungere che l’evoluzione dell’ordinamento non si produca solo “nel caso del presentarsi di nuove evenienze”, ossia per il tramite di una progressione lineare, bensì pure (e non secondariamente) in senso retrogrado, con un “ripensamento degli aspetti decisivi per le decisioni già prese in relazione ad una determinata fattispecie e conseguente riformulazione dei criteri regolatori”29.
Tutte queste notazioni, peraltro, non possono farci dimenticare l’ineludibile differenza tra antico ordinamento romano e l’odierno panorama anglosassone, qual è quella concernente i soggetti che, concretamente, partecipano alla creazione giuridica. Nel secondo sono i giudici, ossia coloro che esercitano funzioni applicative del diritto in relazione alle singole controversie, a contribuire con la loro attività decisoria alle trasformazioni del sistema30; a Roma, invece, si trattava dei giuristi, della componente “dottrinale”, nella sua triplice funzione di “cavere”, “agere” e “respondere”, ovverosia di predisposizione di atti e di schemi tanto negoziali che processuali, nonché di soluzione di questioni proposte dai privati. Tale composita occupazione, produttiva di regole assunte come vincolanti nel caso concreto, mantiene intatto il suo ruolo dominante fino appunto al termine dell’epoca severiana. 
Con tutte queste precisazioni, allora, si potrebbe proseguire nel filo del ragionamento innescato dalla comparazione e chiedersi se, in effetti, nei sistemi di common law si affronti una realtà di totale insicurezza, laddove lo spazio lasciato alle decisioni giudiziali prevale su quello delle leggi statuali: la risposta è senz’altro negativa, in quanto proprio il sistema del ricorso al precedente assicura una certa prevedibilità degli esiti dell’azione giudiziaria. Si tratta solo – come si nota – di una forma di certezza diversa, ma perfettamente praticabile (con la concorrenza di alcuni requisiti di contesto, tra cui, ad esempio, una diffusa consolidazione delle massime giurisprudenziali). Il Case Law ottiene la stabilità mediante una più stretta valutazione dei fatti e della loro natura31.
Tornando a Roma, la situazione si evolve nella c.d. “età postclassica” verso l’accentramento delle funzioni normative in mano al potere del sovrano, che non tollera più la concorrenza di fonti di produzione che non siano quelle da sé provenienti; ma, del resto, una simile operazione è resa assai agevole dalla progressiva “atrofizzazione” della iurisprudentia come scienza autonoma e dal suo, ormai irreversibile, assorbimento nelle cancellerie imperiali con competenze e funzioni meramente burocratiche32. Per questa epoca, dunque, con l’affermazione dell’egemonia legislativa nella gerarchia delle fonti, scompare quella sorgente di possibile incertezza determinata dalla pluralità delle voci dei sapienti intenti a lavorare su nuove fattispecie; rimane comunque, quale lascito di un passato autorevole, la messe di opinioni dei giurisperiti classici, ma è ora il potere centrale che si assume il compito di ridurla ad armonia, tramite interventi autoritativi (quale la c.d. “legge delle citazioni”) su cui non è questa la sede per dilungarsi, ma che in sostanza arrivano dall’esterno a regolare una fonte che si era sempre sottratta a tale tipo di influenze. Basti sottolineare come, nonostante questo chiudersi del sistema rispetto a fattori (e quindi valutazioni) estranei all’apparato pubblico, la certezza del diritto è lontana dall’essere raggiunta: conquistano la scena, cioè, le problematiche che, anche nei moderni ordinamenti basati sulla legge, ne ostacolano la piena realizzazione, ossia la proliferazione delle norme e il relativo mancato coordinamento, così come le imperfette modalità della loro successione.
Proprio in relazione a queste difficoltà oggettive che attualmente resistono alla piena attuazione di un diritto armonico e indiscusso, e in considerazione della proponibilità e dell’attendibile efficienza di sistemi non imperniati su di esso (per cui soccorre la testimonianza romana), è opportuno chiedersi quale modello di certezza sia oggi praticabile e auspicabile. In altri termini, pur riconoscendone il carattere virtuoso, de iure condito e ancor più de iure condendo, serve – a mio parere – rifuggire le generalizzazioni radicali che, alla fine, scarsa presa hanno sulla realtà concreta. Credo che si possa partire dalla ricordata assimilazione tra “diritto” e “legge”, ormai troppo facilmente data per scontata: essa va invece problematizzata, poiché alla composizione del diritto concorrono ormai forze e forme non riconducibili all’attività del legislatore, alcune delle quali sulla base di riconosciuti poteri normativi, altre in via fattuale attraverso la pratica applicativa.
E inoltre, tale assimilazione rischia di creare un’inammissibile confusione tra due concetti che vanno invece riaffermati come distinti, ossia “certezza” e “legalità”, intendendosi con essa la vigenza materiale della legge e il suo effettivo rispetto da parte dei destinatari. Perché un conto è conoscere la regola, ma un altro è poi accettare di rispettarla; “si tocca qui il limite della certezza del diritto: non garantisce che il diritto venga applicato”33. Ne consegue, quindi, che la certezza è piuttosto in funzione della legalità, laddove si ammetta che un codice di comportamento più chiaro induca una maggiore osservanza dei propri precetti. Se però identifichiamo la legge con il diritto nel suo complesso, allora, dovremmo pensare che essa sia in grado di imporsi con le sue caratteristiche di astrattezza e generalità: e ciò non sempre accade o può accadere. La legge si mostra oggi insufficiente a rivestire quella posizione di esclusività che un sistema perfettamente legalista richiederebbe. Ma, soprattutto, essa si presenta come inadeguata a rispondere a tutti i quesiti di una società dinamica, in cui il novero delle questioni sottoposte al potere politico è in continua espansione: e lì, appunto, intervengono mezzi di chiarificazione e di integrazione che permettono alla legge di adempiere i propri compiti originari.
“Se si vuole ancora parlare di ‘legalità’, dobbiamo renderci conto che si fa riferimento a un involucro che non è certamente vuoto, ma che, altrettanto certamente, è ricolmo dei riferimenti più diversificati, così come si sono diversificate le espressioni attuali della normatività”. Queste parole di Grossi mi paiono sintetizzare perfettamente il punto in esame34. Alla fine, neppure la legalità rimane fine a se stessa, ma è indirizzata alla giustizia, nell’ambito di un percorso teleologico di senso ascendente. Tale aspetto, già evidenziato da Carnelutti35, potrebbe anche non sfociare nella serrata antitesi che egli evidenziava tra legalità e giustizia: al conseguimento di quest’ultima, infatti, partecipano ormai altre e diverse componenti che, proprio temperando l’impersonale e inflessibile dettato legislativo, consentono la migliore attuazione delle aspettative del singolo. Se, dunque, la certezza spinge verso la legalità, e la legalità non ha che come obiettivo la giustizia concreta, non vi può essere conflitto tra la prima e l’ultima; semmai vi si scorge un rapporto, per quanto indiretto, di causalità.
Poiché per accedere a questa conclusione è necessario assumere una nozione molto elastica di certezza, che sicuramente non è quella che si esaurisce nel richiamo alla legge statale, occorre piuttosto pensare alla sua dimensione applicativa: è come nei fatti il soggetto percepisce la prescrizione a dare la reale misura del nostro valore (e, viceversa, pure l’incertezza trova la sua esplicazione nella prassi applicativa e non nella norma idealmente posta). Esiste, in altre parole, una certezza capace di realizzarsi anche nell’alveo di un sistema instabile, purché essa sia ancorata alla tutela delle esigenze dei consociati. Lo suggerisce, mutatis mutandis, la retrospettiva sul diritto romano: esso, se valutato secondo le categorie della modernità di tradizione continentale, non potrebbe che apparire deficitario sotto il profilo della oggettiva sicurezza; e tuttavia, abbiamo osservato come potesse perfettamente funzionare su una base improntata alla prevalenza dei fattori dottrinale e giurisdizionale, consentendo un adeguato livello di tutela ai cittadini. 
In quest’ottica, si può senz’altro superare l’idea di Frank sul carattere meramente “mitologico” del nostro principio36, nonché gli scetticismi di Kelsen37. Né, del resto, sarebbe lecito aggrapparsi alle consolatorie riflessioni di Lopez de Oñate, laddove – lo si è ripetuto – quel tipo di certezza non è più proponibile; e anzi, il decorso storico ci ha dimostrato come alla contrapposizione tra totalitarismi e democrazie non corrisponda automaticamente il salto dall’arbitrio alla chiarezza e prevedibilità (quella separazione “manichea” lamentata da Grossi)38: a tal fine andrebbe, magari, approfondito il legame tra certezza e legittimazione di un dato ordine39. Ciò che invece ha mostrato è che l’incertezza fa ineluttabilmente parte delle esperienze giuridiche moderne, cosicché è forse più proficuo attrezzarsi per gestirla40, invece che inseguire un’utopia trascendente a cui il nostro contesto sociale e politico non lascia spazio operativo. L’antitesi qui delineata, allora, si rivela nella sostanza un “falso problema”, poiché posto in maniera scorretta o, più precisamente, anacronistica.
Nuove vie per giungere alla certezza, quindi; essa rimane un “bene” da perseguire, ma sembra che siano cambiati gli strumenti. Le nuove frontiere dell’azione giuridica ci impongono di ripensare i mezzi cui si è attinto nel passato e, allo stesso tempo, guardare con più fiducia ad altri che sinora si sono marginalizzati: in primis, la funzione della giurisprudenza (in senso moderno) come veicolo di continua verifica della validità del precetto legale tramite la sua sagomatura sul caso di specie; e poi, il compito della scienza giuridica, che deve – come da più parti prospettato41 – “tornare al diritto” per porlo al centro della scena, in una visione complessiva dell’ordinamento e delle sue componenti. L’attuazione della ricetta non è semplice, ma il dato di fondo sta in questo, che non solo chi cala la norma dall’alto può e deve contribuire alla certezza del diritto vigente, bensì anche tutti coloro che – avendone i requisiti – possono su di essa intervenire: d’altronde, restituire dignità allo studio e all’applicazione del ius non è altro che una lampante manifestazione di quel “merito”, che questa rivista intende propugnare.
Sul versante pratico, quali le urgenze, quali le direttive? Nulla che non sia già stato enucleato dalla dottrina degli ultimi decenni: la necessità di una legislazione più essenziale, redatta con più attenzione, con ben definiti limiti temporali, netta nelle posizioni e non necessariamente preliminare ad atti integrativi del potere esecutivo. E per l’attività giudiziaria: un sistema così descritto necessita una guida vigorosa da parte della giurisprudenza di legittimità, nonché una stabilizzazione degli orientamenti, la cui rimessa in discussione non sia a priori esclusa, ma sia legata a specifici presupposti. La giustizia del caso concreto non può diventare ondeggiamento al vento delle ispirazioni politiche. E ancora, non dovrebbe in essa mancare mai un’attenta considerazione di aspetti equitativi; e infine, serve garanzia di tempistiche più concentrate, e più prevedibili (per quanto questi siano problemi di tipo strutturale). E naturalmente, a tutto questo va aggiunta ogni singola difficoltà che nei diversi ambiti del diritto rispettivamente si incontra, e che non è possibile qui descrivere nel dettaglio. Ma, forse, proprio questa dev’essere la funzione di una riflessione storica: fornire i presupposti e i contesti per le discussioni che possono e devono aprirsi con riferimento ai più vari settori del nostro ordinamento: a esse, dunque, è opportuno lasciare spazio.

[1] Sulla possibilità di qualificare la certezza come “principio” o come “valore”, si veda G. GOMETZ, La certezza giuridica come prevedibilità, Torino 2005, pp. 43 ss. Lo nega espressamente S. COTTA, Certezza di essere nel diritto, in La certezza del diritto. Un valore da ritrovare (Firenze 2-3 ottobre 1992), Milano 1993, pp. 77 ss.

[2] Per apprezzare la pluralità di accenti con cui può, nel nostro ordinamento, venir declinata la certezza giuridica basti scorrere gli atti del convegno interdisciplinare dedicato a La certezza del diritto, citati alla nota precedente.

[3] Segnala tale versante di problematicità A. PIZZORUSSO, sv. Certezza II. Profili applicativi, in Enc. Giur., VI, Roma 1988, pp. 1 s.

[4] Ovviamente il richiamo è a F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, Roma 1942, poi ripetutamente ripubblicato; in particolare, nell’edizione del 1968 (a cura di G. Astuti) si dà conto di alcuni dei saggi che vi fecero seguito, quali quelli (di notevole rilievo) di P. Calamandrei e F. Carnelutti.

[5] Per un resoconto storico, qui improponibile, si veda almeno M. CORSALE, sv. Certezza del diritto I. Profili teorici, in Enc. Giur., VI, Roma 1988, pp. 2 ss.

[6] Così già A. DE NITTO, A proposito di certezza, in A. Bixio – G. Crifò (a cura di), Il giurista e il diritto. Studi per Federico Spantigati, Milano 2010, p. 235.

[7] Per un inquadramento teorico, qui semplicemente sintetizzato, rinvio a L. GIANFORMAGGIO, sv. Certezza del diritto, in Dig. Disc. Priv. – sez. Civ., II, Torino 1988, pp. 274 ss. Cfr. anche la sintesi delle “manifestazioni della certezza” operata da M. CORSALE, La certezza del diritto dell’economia, in Il diritto dell’economia, 1956, pp. 1203 ss.

[8] Lo intuiva già G. LONGO, sv. Certezza del diritto, in Nov. Dig. It., III, Torino 1958, p. 125.

[9] Su questa congiunzione ideale tra legalismo e certezza, anche in chiave storica con riferimento alla nascita dello Stato moderno, si veda M. CORSALE, sv. Certezza del diritto I, cit., pp. 2 s.

[10] Sono parole tratte da P. GROSSI, Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto, in Id., Ritorno al diritto, Roma-Bari 2015, p. 56.

[11] Come le definiva F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, cit., p. 67.

[12] È del 1979 la prima edizione de L’età della decodificazione, poi riedito nel 1998, di cui in particolare cfr. pp. 94 ss.

[13] Su tutto questo, in sintesi, C. FARALLI, Il «diritto alla certezza» nell’età della decodificazione, in Scritti giuridici in onore di Sebastiano Cassarino, I, Padova 2001, pp. 623 ss. (ma cfr. già M. CORSALE, Certezza del diritto e crisi di legittimità, Milano 19792, pp. 1 ss., 221 ss.).

[14] Si veda, soprattutto, G. ALPA, La certezza del diritto nell’età dell’incertezza, Napoli 2006, pp. 7 ss.

[15] Per tutti, rinvio a S. COTTA, Certezza, cit., spec. pp. 82 ss.

[16]Lo rilevava, tra gli altri, già A. CHIAVELLI, Evoluzione della società democratica e certezza del diritto, in Evoluzione democratica e certezza del diritto, Roma 1970, spec. pp. 36 ss.

[17] Una vera e propria antitesi era ravvisata da F. CARNELUTTI, La certezza del diritto, in Riv. dir. civ., 20, 1943, pp. 81 ss. (ora in F. Lopez de Oñate, La certezza del diritto, cit., pp. 193 ss.), e poi anche ID., Nuove riflessioni intorno alla certezza del diritto, in Riv. dir. proc., 5, 1950, pp. 115 ss.

[18] Per la teorizzazione di tali categorie, si veda R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino 19925, pp. 43 ss.

[19] Cfr. D. MANTOVANI, Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi, in J.L. Ferrary (a cura di), Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana, Pavia 2012, pp. 707 ss.

[20] In particolare, mi riferisco agli esiti di un convegno tenutosi a Pavia nell’aprile 1985, confluiti nel volume, a cura di M. Sargenti e G. Luraschi, La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana, Padova 1987. Più di recente, si vedano gli studi di A. BURDESE, La certezza del diritto nell’esperienza di Roma antica, in Id., Miscellanea romanistica, Madrid 1994, pp. 1 ss.; C.A. CANNATA, Iura condere. Il problema della certezza del diritto fra tradizione giurisprudenziale e auctoritas principis, in F. Milazzo (a cura di), Ius controversum e auctoritas principis. Giuristi principe e diritto nel primo Impero (Atti del Convegno internazionale di diritto romano e del IV Premio romanistico «G. Boulvert» – Copanello 11-13 giugno 1998), Napoli 2003, pp. 27 ss.; F.M. DE ROBERTIS, La certezza del diritto negli ordinamenti giuridici di tradizione romanistica: dalla constatata organica irrealizzabilità il recupero del momento equitativo?, in À l’Europe du troisième millénaire. Mélanges Giuseppe Gandolfi, II, Milano 2004, pp. 129 ss.; P. CeramiIl ‘ius controversum’ nello sguardo dei moderni, in V. Marotta – E. Stolfi (a cura di), Ius controversum e processo fra tarda repubblica ed età dei Severi (Atti del Convegno – Firenze 21-23 ottobre 2010), Roma 2012, pp. 387 ss. Interessanti nella nostra direzione anche le numerose relazioni tenute al Convegno della Società italiana di Storia del Diritto su “La certezza del diritto nell’esperienza storica e attuale” (Modena 2-4 dicembre 2010), non ancora pubblicate in atti, ma visibili sul sito http://tv.unimore.it/index.php/archivio/video-societa/786-la-certezza-del-diritto-nell-esperienza-storica-attuale.

[21] Su questo versante, cfr. F. SCHULZ, I principii del diritto romano, trad. it. Firenze 1995, pp. 207 ss.

[22] Esso ha, pertanto costituito oggetto di numerosi studi romanistici, tra i quali mi limito a ricordare ancora la recente collazione di scritti, a cura di V. Marotta ed E. Stolfi, Ius controversum, cit., con approfondimento dei molteplici profili del tema.

[23] La traduzione è mia, ed intesa solo a rendere il senso del brano dell’Enchiridion pomponiano riferito in D. 1.2.2.13: “constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit cottidie in melius produci”.

[24] Sono le efficaci parole di P. CERAMI, Il ‘ius controversum’, cit., pp. 395 ss.

[25] Sono gli aggettivi felicemente usati da D. NÖRR, Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974, p. 16.

[26] Su questa definizione molto è stato scritto: si veda da ultimo almeno F. GALLO, Celso e Kelsen. Per la rifondazione della scienza giuridica, Torino 2010, pp. 26 ss.

[27] Per tale caratteristica dell’ordinamento romano si veda, ex plurimis, D. MANTOVANI, Il diritto da Augusto al Theodosianus, in E. Gabba – D. Foraboschi – D. Mantovani – E. Lo Cascio – L. Troiani (a cura di), Introduzione alla storia di Roma, Milano 1999, pp. 465 s.

[28] N. BOBBIO, Diritto e scienze sociali, in Id., Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Roma-Bari 2007, p. 36.

[29] Sono parole di M. TALAMANCAIl «Corpus Iuris» giustinianeo fra il diritto romano e il diritto vigente, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, Padova 1995, p. 778.

[30] Credo di potermi limitare al rinvio ad A. GAMBARO – R. SACCO, Sistemi Giuridici Comparati, Torino 20083, pp. 47 ss. (spec. 97 ss.), per la ricostruzione in prospettiva storica dell’ordinamento anglosassone e per una visuale sulla sua struttura contemporanea (nella quale – deve comunque osservarsi – va pian piano riducendosi lo spazio consentito al formante “giudiziario”).

[31] Così, per tutti, G. RADBRUCH, Lo spirito del diritto inglese, trad. it. Milano 1962, spec. pp. 39 ss.

[32] Su tutto ciò, cfr. D. MANTOVANI, Il diritto, cit., pp. 505 ss.

[33] Così S. COTTA, Certezza, cit., p. 85.

[34] P. GROSSI, Sulla odierna ‘incertezza’, cit., p. 93.

[35] Cfr. F. CARNELUTTI, Nuove riflessioni, cit., pp. 118 ss.

[36] Cfr. J. FRANK, Law and the Modern Mind, New York 19496, pp. 3 ss., con posizioni già criticate da N. BOBBIO, La certezza del diritto è un mito?, in Riv. int. fil. dir., 28, 1951, pp. 146 ss.

[37] Cfr. H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, trad. it. Torino 1952, p. 99.

[38] Cfr. P. GROSSI, Sulla odierna ‘incertezza’, cit., pp. 59 s.

[39] Su cui si veda, soprattutto, M. CORSALE, Certezza del diritto, cit., pp. 1 ss., e ID., Certezza del diritto e legittimazione, in R. Treves (a cura di),  Diritto e legittimazione, Milano 1985, pp. 155 ss.

[40] Così A. DE NITTO, A proposito di certezza, cit., p. 251.

[41] In particolare, penso a quei giuristi che, insieme a F. Spantigati, hanno firmato il Manifesto collocato in incipit a Ritorno al diritto. I valori della convivenza, 1, 2005, pp. 15 s.

  (27 novembre 2015)

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