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Nel merito della riforma costituzionale. Intervista alla Prof.ssa Lorenza Violini[*] (di Luca Bertonazzi e Simone Lucattini)

Professoressa Violini, ritiene, come da molte parti si dice, che il dibattito sui contenuti della riforma costituzionale sia eclissato da valutazioni di politica nazionale (plebiscito sul governo) ed europea (instabilità che deriverebbe dalla vittoria del “No”)? In altri termini, si sta parlando troppo poco del merito della riforma?

Il dibattito in corso soffre – come è inevitabile – delle contingenze politiche ed economiche in cui versa il Paese, sia interne sia derivanti dalla nostra appartenenza a livelli di governo sovranazionali e internazionali. Come ha detto il Presidente Mattarella rispondendo alle dichiarazione di un diplomatico USA, il popolo italiano è sovrano e come tale deciderà sul referendum; e tuttavia, siamo dento un contesto che ci osserva, ed è giusto che sia così. Quanto al merito, credo che esso sia difficile da mettere a fuoco per il modo con cui opposti schieramenti si stanno muovendo; in molti casi infatti – e lo dico per esperienza diretta – quando si discute tra opposte visioni si tende a demonizzare l’avversario senza mettere in evidenza la problematicità dei temi che stiamo affrontando. Se non prevale la consapevolezza che si stanno affrontando temi complessi e che la linea tra il sì e il no non è netta ma comporta scelte di valore e sentimenti perciò stesso degni di rispetto non sarà facile che questa campagna referendaria sia, ultimamente, costruttiva e metta il Paese nella condizioni migliori per affrontare il difficile futuro che ci aspetta.

Secondo Lei, i due grandi temi – bicameralismo e regioni – avrebbero dovuto essere oggetto di distinte pronunce da parte del corpo elettorale, in modo da evitare che i cittadini siano così chiamati a pronunciarsi con un unico “Si” o con un unico “No” su tutta la riforma?

Dopo molta riflessione sono giunta alla conclusione che, allo stato dell’arte, disgiungere i due temi sia molto difficile e, nel merito, inopportuno. Formalmente, avendo seriamente provato con alcuni colleghi a disegnare referendum diversi rispetto al disegno di legge approvato dal Parlamento abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza dell’estrema difficoltà (per non dire dell’impossibilità) dell’operazione di splitting. Nel merito, il disegno globale è per sua natura unico: si ristruttura il Senato per dare alle Regioni una voce a livello nazionale e nel contempo si ripensa al riparto di competenze legislative tra i due livelli di governo. In tal modo è la produzione legislativa (sostanziale e procedurale) nel suo insieme che viene innovata. E, ancora, penso che i due problemi sia quelli più urgenti da affrontare e che occorre un affronto unitario, anche per accelerare il processo di innovazione.

Molte critiche, anche autorevoli, mosse alla riforma riguardano la riduzione del potere legislativo delle regioni. Quale la sua opinione al riguardo? La riforma, se approvata, segnerà davvero una crisi del regionalismo italiano?

La valutazione della bontà o meno delle scelte compiute dalla riforma dipende molto da analoga valutazione dello stato dell’arte del nostro regionalismo. Come stanno dunque le cose rispetto all’attuale Titolo V? Mi sembra che nessuno dubiti della problematicità dello stesso per molti motivi ma soprattutto per il fatto che esso non risponde più alla realtà dei rapporti tra produzione legislativa statale e produzione legislativa regionale. Oggi, anche e soprattutto a seguito della riscrittura operata dalla giurisprudenza costituzionale del riparto di competenze, soprattutto per quanto riguarda le competenze concorrenti (ma anche a seguito dell’ampliamento delle cd. competenze trasversali – elencate tra quelle esclusive dello Stato ma profondamente incidenti sulle competenze concorrenti ed esclusive delle Regioni) non vi è praticamente

più nulla che corrisponda alla lettera della Costituzione, così come formulata nell’art. 117. Questo comporta un giudizio e sulla scrittura del testo (in molti casi problematica) e sui correttivi giurisprudenziali (spesso orientati a favorire la competenza statale). Sarebbe profondamente scorretto sul piano della trasparenze e quindi della responsabilità democratica lasciare le cose come stanno.

Il nuovo testo compie due scelte entrambe molto opportune: da un lato tenta una operazione di mediazione rispetto alla giurisprudenza costituzionale, assecondandola dove necessario ma – e questo mi pare l’operazione più pregevole – prefigura un nuovo modello di riparto che superi la logica della “concorrenza” secondo cui allo Stato spetta definire i principi e alle Regioni, in subordine di regolamentare i dettagli della materia. Creando una sorta di parificazione tra i due livelli di governo, stabilisce infatti che, nelle materie del welfare state, allo Stato spetti in esclusiva legiferare sulle disposizioni generali e comuni e alle Regioni fare la stessa operazione rispetto alla programmazione e organizzazione dei servizi stessi. Possiamo chiederci se sia più rispettoso dell’autonomia regionale avere competenza esclusiva su questo aspetto della produzione legislativa o se sia meglio conservare alla stessa la legislazione sui dettagli ma, indipendentemente dalla risposta, mi pare evidente che qui non siamo in presenza di semplice centralizzazione bensì di un tentativo di superamento dell’esistente verso una nuova logica. Essa andrà certamente “sperimentata” sul campo e, tuttavia, si tratta a mio parere di un tentativo da non demonizzare a priori. La paura del cambiamento non sembra essere, in questo caso, la miglior consigliera, anche e soprattutto per lo stato attuale delle cose. Che io valuto molto negativo e confondente.

Una delle principali ragioni del “Si” risiede nel bisogno di snellire e velocizzare il funzionamento del Parlamento cui la riforma darebbe finalmente voce. Non vi è però il rischio che la differenziazione tra i procedimenti legislativi prevista dalla riforma (un tempo di tre tipi; passata la riforma, salirebbero a otto) dia luogo ad incertezze e conflitti dinanzi alla Corte costituzionale, vanificando i buoni propositi dei riformatori?

Come è noto, le riforme costituzionali corrono tutte il rischio di essere applicate male. E, tuttavia, a chi dice che si tratta di 8 procedimenti si può ribattere che, in verità, i procedimenti possono essere considerati 2: quello bicamerale e quello in cui il Senato interviene con un parere il quale, in casi tipizzati (es. clausola di supremazia) ha un peso differente e, per essere disatteso, richiede maggioranze specifiche. Anche oggi, del resto, alcuni procedimenti legislativi sono in parte differenziati per maggioranze richieste (es. amnistia e indulto) o per la necessaria presenza di accordi (ex art. 7 Cost.). La prassi dirà se le due Camere, tramite i loro Presidenti, saranno in grado di gestire l’eventuale conflitto – magari con il supporto di una Giunta per il Regolamento da crearsi tramite i regolamenti parlamentari – o si dovrà ricorrere alla Corte Costituzionale. Resta credo non negabile il fatto che, nell’insieme, i processi di produzione legislativa dovrebbero essere snelliti con la introduzione della procedura monocamerale.

Si dibatte, tra gli studiosi e le forze politiche, del combinato effetto della riforma e della vigente legge elettorale, l’Italicum, che, peraltro, a breve verrà sottoposta al vaglio della Corte costituzionale. I più critici parlano di voglia di “premierato forte” e di una legge elettorale inadeguata a garantire la rappresentanza. Cosa ne pensa?  

In linea di principio va detto che la riforma costituzionale non interviene a modificare i rapporti tra Presidente del Consiglio, Parlamento e Presidente della Repubblica, come invece aveva tentato di fare la riforma – poi bocciata dal referendum – del 2005, la quale introduceva espressis verbis il c.d. premierato forte. Anche la Commissione Letta aveva prefigurato il rafforzamento dei poteri costituzionalmente attribuiti al premier definendo la nuova forma di governo governo parlamentare del presidente del consiglio. La presente riforma, invece, lascia intatto il Titolo Terzo della Seconda Parte e mantiene inalterate le scelte, pur problematiche, della Costituzione del 48.

Il sistema elettorale, se passerà il vaglio della Corte Corte e se non verrà modificato, come chiedono insistentemente alcune parti politiche, prevede un premio di maggioranza non sproporzionato se confrontato con le indicazione emerse dalla nota sent. 1/2014, la quale ha invece dichiarato incostituzionale il precedente sistema. Ciò posto e rebus sic stantibus, la lista che avrà la maggioranza relativa potrà disporre di 340 voti, cioè 24 in più della maggioranza assoluta e avrà quindi un margine non indifferente per garantire al governo la stabilità. Avrà poi qualche strumento per attuare in sede parlamentare l’indirizzo politico (mi riferisco al cd. “voto a data certa”) controbilanciato da limiti forti ed espressi all’uso del decreto legge.

Ora, ci si può chiedere se, in futuro, l’esecutivo stabilizzato dal premio di maggioranza possa anche influire in modo pesante e unilaterale sull’elezione degli organi di garanzia quando questi sono nominati dal parlamento in seduta comune, ora composto da 615 deputati e circa 100 senatori. La questione è dibattuta.

In proposito si può dire che, quanto alla Corte Costituzionale, il problema non si pone visto che in futuro e se passerà la riforma, 3 saranno eletti dalla Camera e 2 dal Senato. Per gli altri casi, dovrebbe valere il principio secondo cui le maggioranze richieste non dovrebbero praticamente mai essere raggiunte con i voti della sola maggioranza di governo; ad esempio, il Presidente della Repubblica, che dal quarto/settimo scrutinio può essere eletto dalla maggioranza dei 3/5 rispettivamente degli aventi diritto e poi dei presenti, per non richiedere un consenso almeno in parte bipartisan dovrebbe avere oltre i 340 deputati di maggioranza anche la totalità dei Senatori, che a loro volta sono eletti dai consigli regionale nel rispetto delle minoranze (circostanza che quindi è impossibile da realizzarsi).

Come valuta la proposta, recentemente avanzata, di dare vita, nella prossima legislatura, ad una Assemblea costituente per riformare “tutti assieme” la Costituzione? Un modo per rinviare ancora, “in eterno”, ogni intervento sulla carta costituzionale o l’occasione per una riforma più meditata e condivisa?  

A questa domanda mi riservo di rispondere una volta conosciuto il risultato del referendum. Per ora spero in cuor mio che vinca il si proprio per non incorrere nel rischio di dover ricominciare da capo. A mio parere questa riforma, nell’insieme, va bene e sono convinta che sia assai difficile in futuro, data la presente contingenza politica che vede una forte presenza di partiti antisistema, giungere a scelte più meditate e condivise. Ma, se vincesse il no, ovviamente si dovrebbe lavorare per non perdere del tutto il percorso fatto e i risultati ottenuti. Se posso fare un paragone, anche il Trattato Costituzionale Europeo, che fu bocciato dai cittadini francesi e olandesi, è stato poi sostanzialmente riproposto nell’ambito del Trattato di Lisbona; quindi, la speranza di far meglio, anche dopo clamorose sconfitte, va sempre tenuta viva.

                                                                                                                  (12 ottobre 2016)

 


[*] Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano.

 

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