Qatar. La vera questione è il gas (di Fabio Nicolucci)
Nemmeno in tempi di fake news può risultare credibile il motivo addotto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein per una rottura con il Qatar talmente netta da sembrare quasi un blocco navale ed un embargo di guerra. E non tanto perché non sia credibile l’accusa al Qatar di “sostenere il terrorismo”, quanto perché – per quanto riguarda l’Isis e Al-Qa’ida e il jihadismo, mentre diversa è la questione della Fratellanza Mussulmana – questo sostegno non ha mai diviso le due parti. Anzi, molto spesso le ha unite. Dietro questa rottura si proietta dunque l’ombra di uno scontro tra Arabia Saudita e Qatar che non ha tanto i contorni del simbolo dell’Isis quanto quelli di un barile di petrolio – anzi, più precisamente, di gas naturale liquefatto (Lng) – e di una poltrona. Se si guarda infatti al Golfo attraverso la lente degli idrocarburi, la lite non è nè improvvisa nè inspiegabile, ma solo la conseguenza di settimane di tensione tra il Qatar e l’Arabia Saudita, con i suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), che avrebbe dovuto essere la “Nato del Golfo” ed è invece oggi percorso da una larga crepa. Tensioni non nuove che si sono acutizzate improvvisamente dal 3 aprile scorso, quando il Qatar ha dichiarato che avrebbe ripreso la produzione nel suo enorme giacimento di gas denominato “North Field”, interrompendo una moratoria nelle estrazioni che durava dal 2005 Il North Field, il più grande giacimento di gas naturale del mondo, è in comune con l’Iran. Il giacimento infatti si estende dal Qatar – penisola dell’Arabia, di cui è propaggine – sotto le acque del Golfo fino a toccare le coste iraniane. La moratoria del 2005 fu decisa dal Qatar per preservare le proprie riserve, in tempi di vacche grasse. Negli ultimi tempi però il Qatar ha speso molto – in attività di politica estera e di acquisizioni estere, di cui molte in Italia – e vede con crescente preoccupazione i movimenti dell’Iran che ha stretto nel novembre scorso un accordo con Total, ricominciando lo sfruttamento intensivo del giacimento. Il rischio è che, senza la tecnologia e il controllo qatariota, si danneggi l’intero prezioso e gigantesco giacimento, fonte di tutta la sua produzione di gas e di circa il 60% dei proventi dell’export del Quatar. Del resto, proprio questo comune sottosuolo costringe Qatar e Iran a rapporti civili e di reciproca convenienza. E ciò ci porta alla seconda questione, quella più politica della poltrona.
La poltrona è quella di leader del Ccg, e dunque del sunnismo arabo. La crisi attuale del medioriente di oggi assomiglia infatti politicamente ad una cipolla. Una guerra è dentro l’altra. Semplificando, dentro quella tra sunniti e sciiti che si combatte tra Iran e Arabia Saudita per procura nello Yemen e in Siria e nelle zone sunnite in Iraq, ve ne è un’altra. Quella tra sunniti, per la leadership di questa parte del campo. Questa battaglia si combatte tra Qatar e Arabia Saudita. Finora il Qatar aveva con successo adottato la tattica di Mohammed Alì, di pungere e danzare. Ospitava la base aerea Usa Al-Udeid – la maggiore della regione – e, allo stesso, tempo era vicino all’Iran. Che combatteva però sostenendo i ribelli di Ahrar As-Shams in Siria contro Assad e la repressione dei ribelli sciiti huti in Yemen. Era sostenitore della Fratellanza Mussulmana e di Hamas, e dunque avversario di Egitto e Arabia Saudita, ma con quest’ultima condivide il wahhabismo e pure il sostegno almeno iniziale alla sua emanazione jihadista di Al-Qa’ida e poi Isis.
Ma oggi la tattica del “pungere e danzare” non pare poter più funzionare. Trump, con il suo recente viaggio in Arabia Saudita, ha accantonato le diffidenze dell’amministrazione Obama verso il sunnismo radicale saudita. In questa ottica il primo problema è l’Iran e non più il jihadismo. Un’occasione d’oro per il regno di Ibn Saud, che ha visto una insperata occasione per tentare di buttare fuori strada l’ardito sfidante alla leadership sunnita. Un po’ meno per noi occidentali, che vediamo derubricata a preoccupazione secondaria la lotta all’Isis e la ricerca di un equilibrio politico tra sciiti e sunniti che ne costituisce il necessario complemento.
(12 giugno 2017)