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Il caso paradigmatico dell’Arno: i benefici del fare e i costi del non fare nel caso di fondamentali opere pubbliche lungo il corso del fiume che bagna Firenze (di Alessandro Mazzei)

Il nostro Paese ha subìto, negli ultimi decenni, un diffuso, costante ed inesorabile rallentamento nella costruzione di opere infrastrutturali, in quasi tutti i settori. Pensiamo ai ritardi nell’ammodernamento di alcune infrastrutture viarie al centro e al sud Italia; vediamo gli ostacoli e i rallentamenti di opere fondamentali per l’approvvigionamento e la distribuzione energetica. Anche nel settore del servizio idrico integrato scontiamo una grave carenza di investimenti, spesso dovuta alla mancanza di coraggio di intere generazioni di politici ed amministratori locali, privi della volontà di utilizzare la leva tariffaria per finanziare il fabbisogno di capitali necessario agli ingenti investimenti per nuove opere e per la manutenzione straordinaria dei beni esistenti. In Toscana, stiamo relativamente meglio che in altre regioni della nostra penisola, grazie alle scelte coraggiose, anche se talvolta impopolari, degli amministratori degli ultimi venti anni, che hanno accettatto di far crescere le tariffe - che sono attualmente le più alte d’Italia - pur di realizzare opere fondamentali per l’approvvigionamento idrico e per la depurazione delle acque reflue. Eppure, anche in questa regione non tutte le scelte sono state così lungimiranti, almeno fino a qualche anno fa. In tema di difesa dal rischio idraulico della piana fiorentina, a partire dalla tragica alluvione del ‘66, poco o nulla è stato fatto per scongiurare un’eventuale ripetizione di quegli eventi, che oggi sarebbero ancora più devastanti e dirompenti, rispetto a cinquant’anni fa, soprattutto in termini economici.

 

Gli interventi fatti e soprattutto quelli non fatti sul corso del fiume Arno rendono questa vicenda in qualche modo paradigmatica rispetto al tema delle opere pubbliche del nostro Paese: l’Arno infatti oggi è al tempo stesso croce e delizia per la città di Firenze. Delizia, perchè rappresenta la principale fonte di acqua per uso potabile per circa 6-700.000 abitanti dell’area fiorentina; croce, perchè costituisce la più rilevante fonte di rischio di alluvione per almeno la metà di quella stessa popolazione.

Le opere avviate nel corso degli anni Ottanta e portate a compimento nel decennio successivo hanno consentito di realizzare lungo la Sieve e lungo l’Arno, alle porte di Firenze, due infrastrutture fondamentali per l’approvvigionamento idrico dell’intera piana fiorentina: la diga di Bilancino e l’impianto di potabilizzazione dell’Anconella. La prima garantisce una fondamentale riserva idrica di circa 69 milioni di metri cubi che, ad esempio, quest’anno ha consentito di non avere alcun problema di emergenza idrica nella Toscana centrale (in particolare nelle province di Firenze, Prato e Pistoia), pur essendosi registrato l’anno più siccitoso del secolo e il maggior deficit di pioggia (- 60% rispetto all’anno precedente) degli ultimi decenni. La seconda consente di potabilizzare fino a 4 metri cubi al secondo, allo scopo di distribuire l’acqua per uso potabile dalle zone del Chianti, a sud, fino alla città di Pistoia, a nord. L’impianto dell’Anconella rappresenta uno degli impianti più all’avanguardia d’Europa e consente (insieme all’altro impianto di Mantignano) di dare da bere ad oltre 600.000 abitanti e agli enormi flussi turistici che investono quotidianamente la Toscana centrale.

A fronte di questi esempi di coraggio e lungimiranza degli amministratori pubblici dei decenni passati, proprio con riferimento all’Arno e in riferimento al rischio idraulico, ci sono alcuni progetti fermi da troppo tempo o che sono stati avviati solo pochi mesi fa. Ci riferiamo, per esempio, ad alcune opere che poco dopo l’alluvione del 1966 furono indicate come necessarie per evitare nuove tragedie come quella di cinquanta anni fa. Se verso la costa l’opera dello Scolmatore ha messo in sicurezza parte della città di Pisa e dei comuni a monte della stessa, ci sono molte zone del Valdarno superiore e la stessa città di Firenze, con molti Comuni della piana fiorentina, che ancora oggi sono esposte a seri rischi alluvionali.

L’innalzamento delle dighe di Levane e La Penna, situate tra Arezzo e Firenze, garantirebbe l’aumento della capacità di invaso di queste dighe e la possibilità di trattenere più acqua in caso di forti precipitazioni; la realizzazione di quattro grandi casse di espansione nelle zone di Incisa e Figline permetterebbe di dare sfogo alle piene del fiume, senza che queste possano costituire un serio rischio per le aree abitate a valle. Queste opere oggi risultano progettate e, in molti casi, avviate ed in fase di realizzazione, ma la Toscana sconta un ritardo enorme, messo recentemente in luce anche dalla International Technical Scientific Committee (ITSC), istituita in occasione del cinquantennale della grande alluvione del ‘66. Nel nostro Paese, troppe volte ci si culla nella considerazione che “non è più accaduto, non accadrà di nuovo”, rifugiandosi nella comodità del non fare e del non prendere decisioni importanti, spesso per compiacere l’immancabile “Comitato del No” e la minoranza rumorosa, dimenticandosi dei diritti e delle aspettattive della maggioranza silenziosa e, soprattutto, delle future generazioni. Gli ultimi anni, grazie ai fondi stanziati dal Governo e alla capacità progettuale e realizzativa messa in campo dalla Regione, sembra che il processo si sia invertito e che il fiume Arno possa diventare solo un’enorme risorsa per il suo territorio: non più minaccia ma fonte di ricchezza e di benessere per la città di Firenze ed i suoi abitanti.

 (3 gennaio 2018)

*Alessandro Mazzei è Direttore Generale dell’Autorità Idrica Toscana.

 

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