La teoria della “tassa piatta”. (di Paolo Zanotto)
La rivoluzione copernicana della fiscalità
Nella campagna elettorale in corso, alla fine del secondo decennio del XXI secolo, la flat tax è finalmente entrata a pieno titolo ‒ per la prima volta ‒ nel dibattito politico nostrano. L’idea in sé, tuttavia, rappresenta tutt’altro che una novità nel panorama economico-politico internazionale, essendo stata promossa, dibattuta, studiata e applicata in molteplici tempi e luoghi nel corso della Storia contemporanea. Cominciamo, innanzi tutto, col chiarire succintamente in cosa consista, a beneficio di coloro i quali abbiano ancora le idee confuse al riguardo.
Il termine inglese, come noto, significa letteralmente “tassa piatta” e corrisponde a un sistema fiscale strutturato su base proporzionale, che preveda cioè un’aliquota forfettaria percentualmente omogenea per ogni contribuente, anziché l’articolazione della pressione fiscale in fasce di reddito con percentuali di prelievo progressive. Generalmente tale sistema si riferisce alle imposte sul reddito familiare e, talvolta, anche a quelle sui profitti delle imprese che vengono così tassate con un’aliquota fissa e uniforme. L’idea originaria di una “imposta forfettaria sul reddito” (flat-rate income tax) risale agli inizi degli anni Sessanta e si deve al futuro premio Nobel per l’Economia Milton Friedman: «Tutto sommato, la struttura delle imposte sul reddito personale che mi sembra migliore è una tassa forfettaria sul reddito al di sopra di un’esenzione [...]. Un’aliquota forfettaria proporzionale comporterebbe pagamenti assoluti più elevati da parte di persone con redditi più elevati per i servizi pubblici, il che non è chiaramente inappropriato in base ai benefici conferiti. [...] La proposta di sostituire un’imposta forfettaria sul reddito al posto dell’attuale struttura tariffaria progressiva colpirà molti lettori come una proposta radicale. E così è in termini concettuali»[1].
A partire dagli anni Duemila, la flat tax ha conosciuto una notevole espansione ed è stata applicata in vari Paesi del mondo, in particolare nell’Europa dell’est. Molti Stati, come quelli dei Paesi baltici, hanno tratto numerosi benefici dalla sua adozione, riscontrando negli ultimi anni una crescita economica senza precedenti. A lungo osteggiata, in periodi di abbondanza, dalla pletora di studiosi post-keynesiani che hanno proliferato per decenni nelle economie più avanzate pontificando sui benefici dello “Stato sociale”, essa ha infine trovato fortuna nelle economie emergenti imponendosi così all’attenzione anche dei Paesi occidentali per valenza empirica, ovvero sull’onda dei clamorosi successi riscossi altrove. Dopo un ritorno di fiamma della teoria della “terra piatta”, dunque, che ultimamente pare acquisire sempre maggiori consensi nella Rete, il XXI secolo sta conoscendo anche un revival della teoria della “tassa piatta”: una vera e propria rivoluzione copernicana nel settore fiscale. Probabilmente perché, per reazione, dopo tutte le bolle speculative su cui si è retta l’economia negli ultimi decenni, di “palle” l’Occidente non ne può proprio più...
Ragionare sugli effetti che l’introduzione di una flat tax potrebbe realisticamente determinare nell’economia di un Paese non è certo esercizio ozioso. Per tale ragione, proveremo a formulare qualche considerazione in merito. Innanzi tutto, occorre partire dal piano ideale. Ovvero: è giusto il concetto in sé di flat tax? La Costituzione italiana, infatti, all’art. 53 prevede che il sistema tributario sia informato a criteri di progressività della tassazione rispetto alla capacità contributiva del cittadino. La progressività del regime fiscale, inoltre, poggia le proprie fondamenta su teorie connesse a una presunta “giustizia sociale”, le quali sostengono che chi più ha maggiormente debba dare a beneficio della collettività[2]. In simile ottica, la progressività del sistema garantirebbe l’instaurazione di un regime redistributivo in grado di drenare liquidità dall’alto verso il basso[3].
Ma risponde a verità una simile rappresentazione ideale? La moderna democrazia rappresentativa, in realtà, è sorta precisamente dall’esigenza di circoscrivere il potere di chi governa, non ultimo proprio quello di imporre tasse. È arcinoto lo slogan che innescò la rivoluzione delle Colonie americane contro la Corona inglese: “Nessuna tassazione senza rappresentanza” (No Taxation Without Representation)[4]. Laddove la potestà tributaria venga utilizzata alla stregua di un mero strumento volto a depredare alcuni cittadini in favore di altri, infatti, ponendosi in tal modo quale unico limite quello della voracità delle corporazioni sul cui consenso si fonda il potere, lì la democrazia si riduce a farsa del suo stesso concetto[5].
Nella propria opera intitolata Power & Market, l’economista statunitense Murray N. Rothbard descriveva la tassazione nei termini di un vero e proprio “furto”, paragonando di fatto lo Stato a un “ladro” istituzionalizzato[6]. Va da sé come tutto ciò abbia a che vedere con la trasmutazione per fagocitazione del “potere sociale” in “potere statale”, dove i mezzi politici conferiti dal monopolio della forza consentono l’indebita confisca dei mezzi economici, prodotti dalla pacifica interazione volontaria fra individui, da parte delle élites al potere[7].
Da tali concezioni occorre inevitabilmente partire se s’intende avere uno schietto atteggiamento liberale e libertario in politica economica. Tornando al tema centrale del presente articolo, dunque, resta da confrontarsi con l’eticità di un simile provvedimento, nonché con la sua compatibilità con i principi espressi nella nostra Carta costituzionale e i diritti da essa tutelati.
Il principale obiettivo di uno Stato realmente democratico dovrebbe coincidere con la salvaguardia della classe media in quanto ‒ come sosteneva Aristotele ‒ proprio su tale ceto si reggono le democrazie[8]. In quest’ottica una flat tax efficace andrebbe mirata all’alleggerimento del carico fiscale del ceto medio, il che implica che l’aliquota individuata dovrebbe essere particolarmente bassa giacché per tale classe sociale le percentuali normalmente previste nei sistemi di tassazione progressiva non sono particolarmente elevate e, dunque, individuare aliquote superiori al 20% non potrebbe giovare che alle classi più abbienti. Il che si rivelerebbe una manovra profondamente iniqua, oltre che poco proficua in termini pratici, in quanto lo Stato andrebbe a privarsi di una consistente parte del proprio gettito favorendo gli unici attori sociali che parrebbero non averne bisogno[9].
Una flat tax equa, pertanto, dovrebbe prevedere una percentuale massima del 20%. Occorre aggiungere, d’altra parte, che sembra eticamente ingiusto sottrarre oltre un quarto di ciò che un individuo guadagna senza il suo consenso personale. Specialmente se quel reddito non è mensilmente garantito, come nel caso dell’impiegato, ma è un frutto incerto e incostante legato unicamente al proprio lavoro privo di tutele e gravato da spese fisse, come nel caso dell’imprenditore o del libero professionista. Dall’applicazione di una flat tax contenuta sui redditi personali, peraltro, beneficerebbero indirettamente anche le imprese con dipendenti a carico, grazie alla conseguente riduzione del cuneo fiscale. Quanto detto c’induce a estendere il ragionamento alla cosiddetta tassazione indiretta. A tal proposito, conviene riflettere su come in un sistema quale quello italiano perfino un ipotetico evasore totale sia costretto a versare allo Stato quantomeno il 22% dei propri introiti sotto forma di IVA, per limitarsi ad essa. Percentuale che si va a sommare a quella assai cospicua delle imposte dirette per chi non le evada. Certamente, trattandosi di una imposta sui consumi, con simili provvedimenti oltre a deprimere l’economia di un Paese, si rischia di colpire indiscriminatamente i consumatori senza tener conto della loro capacità di acquisto. La tassazione indiretta, pertanto, andrebbe sensibilmente ridotta, azzerandola di fatto sui generi di prima necessità e limitandola a percentuali comprese fra il 3 e il 10% sui prodotti di largo consumo in genere, riservando aliquote più elevate esclusivamente ai cosiddetti beni di lusso (anche in questo caso, tuttavia, entro la quota massima del 20%)[10]. Le considerazioni fatte fin qui indurrebbero a individuare la giusta percentuale di una ipotetica flat tax nel 10%, che peraltro corrisponderebbe alla famosa “decima” già contemplata nelle Sacre Scritture[11].
Ed eccoci giunti, finalmente, al problema della progressività del sistema tributario prevista dalla nostra Costituzione. Tale disposizione costituzionale potrebbe essere rispettata prevedendo un’ampia no-tax area, che interessi i redditi più bassi, in grado di far calare conseguentemente l’aliquota reale sugli indigenti e sulla classe media. La proposta, d’altronde, andrebbe integrata con un’imposta negativa del 50% per i redditi inferiori a una determinata soglia (ad esempio i 13.000 euro annui)[12]. In tal modo si realizzerebbe la progressività per deduzione anziché per aliquote o scaglioni, che danneggiano il risparmio e gli investimenti. Inoltre, un’ulteriore percentuale di deducibilità potrebbe essere conservata prevedendone l’applicazione in base all’ampiezza del nucleo familiare. L’esigenza redistributiva, peraltro, potrebbe essere salvaguardata da un’efficiente gestione della spesa pubblica, in grado di ridurre drasticamente gli sprechi e lo sperpero di denaro pubblico in genere da parte della classe politica e della burocrazia: vera spina nel fianco di ogni sistema di welfare[13].
Per concludere, fra i maggiori pregi della flat tax occorre certamente menzionare la notevole semplificazione del sistema fiscale, il che sarebbe un vantaggio da non sottovalutare affatto, nonché un ulteriore risparmio in termini di tempo e soldi per il contribuente. I principali benefici si vedrebbero in primis sul piano economico, in quanto al tessuto produttivo giungerebbe una sana boccata di ossigeno per gli sgravi fiscali ottenuti e, senza dubbio, beneficerebbe anche degli accresciuti consumi familiari. Certamente, poi, si verificherebbe il fenomeno di parziale riemersione dell’economia sommersa, che aiuterebbe a scongiurare ulteriori tagli alla spesa pubblica al fine di colmare il buco di bilancio che potrebbe prodursi a seguito dell’introduzione di una flat tax particolarmente contenuta nel breve periodo, mentre nel lungo periodo si potrebbe comunque contare sulla realizzazione dei ben noti effetti positivi illustrati dalla Curva di Laffer. Per ultimo, ma non meno importante, tale sistema sarebbe in grado di premiare i redditi da lavoro rispetto alle rendite: il che sembra un provvedimento di equità fiscale con implicazioni dalla profonda valenza sociale se si tiene conto che le classi più ricche godono principalmente di redditi da capitale. Una possibile alternativa all’introduzione immediata della flat tax per scongiurare eventuali contraccolpi potrebbe consistere in una riduzione progressiva attraverso la graduale semplificazione del quadro passando prima attraverso un sistema a due aliquote (simile a quello adottato negli Stati Uniti durante gli anni Ottanta), con un’aliquota del 10 o del 15% per i redditi compresi fra i 13.000 e i 75.000 euro e una del 20 o del 25% per quelli oltre tale soglia. L’importante sarebbe, perlomeno, cominciare da qualche parte.
(1 marzo 2018)
[1] «All things considered, the personal income tax structure that seems to me best is a flat-rate tax on income above an exemption [...]. A proportional flat-rate-tax would involve higher absolute payments by persons with higher incomes for governmental services, which is not clearly inappropriate on grounds of benefits conferred. [...] The proposal to substitute a flat-rate income tax for the present graduated rate structure will strike many a reader as a radical proposal. And so it is in terms of concept»: Milton Friedman, Capitalism and Freedom, Chicago (IL), University of Chicago Press, 1962, pp. 174-176, trad. it. Capitalismo e libertà, introduzione di Antonio Martino, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1995 [1ͣ edizione: Firenze, Vallecchi editore, 1967], pp. 233-234 (ma traduzione mia).
[2] Considerazioni sempre valide sulla “solidarietà obbligatoria” e il rapporto fra diritto naturale e legge positiva si possono trovare nei pamphlet di Frédéric Bastiat, Propriété et Loi - Justice et Fraternité, Paris, Librairie de Guillaumin et Ce, 1848, trad. it. in Frédéric Bastiat - Gustave de Molinari, Contro lo statalismo, introduzione di Sergio Ricossa, cura e postfazione di Carlo Lottieri, Macerata, Liberilibri, 2004 [1ͣ edizione: 1994].
[3] Come il vero obiettivo dell’assistenzialismo, in realtà, non coincida con il benessere delle classi disagiate, bensì della casta politico-burocratica è ben spiegato da Bertrand de Jouvenel, The Ethics of Redistribution, University Park (IL), 1990 [1ͣ edizione: Cambridge (MA), Cambridge University Press, 1951], trad. it. L’etica della redistribuzione, introduzione di Antonio Martino, Macerata, Liberilibri, 1992.
[4] Tale slogan condensava il profondo malcontento delle Tredici Colonie nei confronti della Madrepatria poi sfociato nel Boston Tea Party, in quanto molti coloni ritenevano che, non essendo direttamente rappresentati nel lontano Parlamento britannico, tutte le leggi da esso approvate nei loro confronti ‒ come la tassa sulla melassa (Sugar Act) o l’atto con cui nel 1756 il parlamento britannico pretendeva un gettito dalle colonie americane comminando un’imposta di bollo su giornali e documenti legali e commerciali (Stamp Act) ‒ fossero illegali in base alla Carta dei diritti del 1689 e costituissero una negazione delle loro prerogative in quanto Inglesi. Jonathan Mayhew, il secondo pastore congregazionale della Chiesa occidentale, aveva utilizzato la frase in un sermone del 1750. Nel contesto della tassazione coloniale americana britannica, essa apparve per la prima volta nel titolo a pagina 89 sul “London Magazine”, in cui venne pubblicato il celebre “Discorso sulla Dichiarazione di Legge della Sovranità della Gran Bretagna sulle Colonie” (Speech on the Declaratory Bill of the Sovereignty of Great Britain over the Colonies) di Lord Camden.
[5] Cfr. Pascal Salin, L’arbitraire fiscal, Préface d’Alain Madelin, Paris-Genève, Éditions Slatkine, 1996 [1ͣ edizione: Paris, Éditions Robert Laffont, 1985], trad. it. La tirannia fiscale, introduzione di Antonio Martino, Macerata, Liberilibri, 1996.
[6] Cfr. Murray N. Rothbard, Power & Market: Government and the Economy, Fourth edition, Auburn (AL), The Ludwig von Mises Institute, 2006 [1ͣ edizione: Menlo Park (CA), Institute for Humane Studies, 1970]. Come si è avuto modo di osservare tempo addietro, «ci troviamo, evidentemente, in Rothbard, così come in tutti gli altri pensatori anarcocapitalisti, al cospetto di un deciso rifiuto del concetto moderno di sovranità intesa come razionalizzazione giuridica del potere politico, attraverso cui si trasforma la forza in potere legittimo, il potere di fatto in potere di diritto; o, meglio, vi è una ricusazione dell’utilizzo che, storicamente, se ne è fatto con lo scopo di legittimare soluzioni politico-istituzionali di tipo autoritario. Tale identificazione viene, infatti, a cadere nel momento in cui non si riconosca più il momento ‘deliberatorio’ della legalizzazione del monopolio della coercizione fisica attraverso l’adesione – tacita od esplicita – al contratto sociale, del quale si nega la validità giuridico-politica, oltreché la stessa esistenza concreta sul piano storico-empirico»: Paolo Zanotto, Il Movimento Libertario americano dagli anni Sessanta ad oggi: radici storico-dottrinali e discriminanti ideologico-politiche, Siena, Università degli Studi di Siena, 2001, p. 120.
[7] La costruzione statuale come chiave di ogni relazione parassitaria è descritta nel classico di Albert Jay Nock, Our Enemy, the State, New York, William Morrow & Company, 1935, trad. it. Il nostro Nemico, lo Stato, a cura di Luigi Marco Bassani, Macerata, Liberilibri, 1995.
[8] Cfr. Aristotele, Politica, Lib. Quarto, cap. XI, 1295b 25-27; Lib. Sesto, cap. VII e capp. XII-XIII.
[9] Nello specifico, il sistema italiano prevede aliquote che oscillano fra il 23 e il 27% per i redditi medio-bassi (ovvero quelli fino a 15.000 euro e quelli fino ai 28.000 euro annui).
[10] Per limitarsi solo a qualche esempio, le aliquote ordinarie per i beni di largo consumo in altri Paesi europei vanno dal 20% del Regno Unito, al 19% della Germania, fino al 7,7% della Confederazione Elvetica; a fronte delle quali negli stessi Paesi si hanno aliquote ridotte per i generi alimentari e altri beni di uso quotidiano che vanno dal 2,5% della Svizzera, alla totale assenza di tassazione in Germania e Regno Unito.
[11] Cfr. Levitico, 27:30-32; 2Cronache, 31:5.
[12] In tal caso si potrebbe accettare anche una flat tax con un’aliquota leggermente superiore al 10% (per esempio il 15%), in quanto detta percentuale verrebbe comunque conservata per approssimazione grazie al ridotto livello medio di tassazione scaturito spalmando gli effetti dell’aliquota negativa e della no-tax area sul reddito complessivo. In pratica: ipotizzando un reddito medio di circa 25.000 euro annui, si avrebbe una zona franca fino alla soglia dei 13.000 euro, superata la quale si avrebbe l’imposizione di un’aliquota unica al 15% sulla quota rimanente (12.000 euro); ciò determinerebbe un’imposta pari a 1.800 euro annui, che su un reddito dichiarato di 25.000 euro rappresentano appena il 7,2%. Lo stesso esempio calcolato su un reddito di 50.000 euro porterebbe a un’imposta di 5.550 euro, pari all’11,1% del reddito dichiarato. Su un reddito di 100.000 euro a una di 13.050, pari al 13,05%. Su uno di 200.000 euro a una da 28.050 euro, pari al 14,02%. Su uno di 500.000 euro a una da 73.050 euro, pari al 14,61%. Su uno di 1 milione di euro, infine, a una da 148.050 euro, pari al 14,80%, per fare solo qualche esempio.
[13] Cfr. Robert E. Hall - Alvin Rabushka, The Flat Tax, Stanford (CA), Hoover Institution Press, 2007.