Convegno “Merito e crescita”, Università Luiss Guido Carli, Roma 9 giugno 2016
raffaello lupi
Ordinario di diritto tributario nell’Università di Roma “Tor Vergata”
Valutazione del merito e organizzazioni istituzionali
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Sommario: 1. Dalle organizzazioni aziendali a quelle istituzionali: affinità e differenze nella valutazione del merito.- 2 Organizzazione istituzionale gerarchico-militare e merito come “cooptazione”.- 3. Crisi del modello gerarchico militare e insufficienze del meccanico di rinvio a parametri aziendalistici.- 4. Valutazione del merito nelle organizzazioni istituzionali e ingerenze politico-sindacali.
1. Dalle organizzazioni aziendali a quelle istituzionali: affinità e differenze nella valutazione del merito.
Nelle società industriali, cioè caratterizzate da produzioni tecnologiche di serie[1], e dove quindi si attribuisce molta importanza al “mercato” è invece fondamentale, come rileva anche Police nel suo intervento, un intervento delle “organizzazioni istituzionali”. Potrei dire delle “istituzioni”, ma spesso, quando si usa questo termine, si pensa a istituzioni “politiche”, come il Presidente della repubblica, il Parlamento, il Governo; la società industriale si caratterizza per istituzioni giuridiche, cioè organizzazioni pluripersonali preposte a funzioni pubbliche in materia sanitaria, ambientale, previdenziale, di istruzione, ricerca, beni culturali etc.; queste nuove organizzazioni istituzionali si aggiungono alle precedenti classiche istituzioni dello stato liberale, preposte alla sicurezza, alla difesa, alla giustizia, alla determinazione dei tributi, all’amministrazione del patrimonio[2]. Basta riflettere un attimo per capire che l’efficiente funzionamento delle organizzazioni istituzionali è una precondizione per la prosperità delle aziende.
Vediamo cosa unisce queste due forme organizzative. Sia le organizzazioni aziendali, sia quelle istituzionali sono gruppi pluripersonali, nuovi corpi sociali intermedi che si affiancano a quelli territoriali, religiosi e familiari del passato, anche svuotandoli e rimpiazzandoli.
Nelle organizzazioni aziendali un parametro di merito “di mercato” è il fatturato, cioè l’insieme delle vendite, sottoposto a un variabile, ma in genere elevato, controllo dei clienti. Il mercato si presta a rapporti diretti tra fornitore e cliente, tra chi paga e chi riceve una prestazione. Il potere di controllo del cliente sull’organizzazione aziendale si riflette all’interno della medesima, e le vendite sono un parametro per valutare il successo dell’azienda e quindi il potere contrattuale dei dirigenti. Non è una valutazione facile, prestandosi a parametri prospettici, in termini non solo e non tanto di profitto[3], ma di creazione di valore[4], penetrazione in nuovi mercati, sviluppo di nuovi prodotti, confronto con le prestazioni della concorrenza, ed altri profili spesso variamente controvertibili. Tuttavia si tratta di parametri valutativi molto più riscontrabili e oggettivi rispetto a quelli configurabili per le organizzazioni istituzionali, dove non esistono clienti. Le istituzioni non si rivolgono infatti al mercato, non vendono prodotti fungibili e sostituibili, non hanno fatturati o giri d’affari che possono dare una idea del grado di apprezzamento da parte dei clienti[5]. Questa difficoltà di valutare le istituzioni è confermata dalla loro mancanza di autosufficienza, in quanto basate sui trasferimenti finanziari di terzi, provenienti oggi soprattutto dai contribuenti. Chi sopporta i costi delle istituzioni (contribuenti) è quindi diverso da chi usufruisce della loro attività (utenti) in un classico esempio di intermediazione sociale. Che spesso è necessaria, in quanto riguarda beni indivisibili, come la sicurezza, la difesa, la viabilità etc., ma è tendenzialmente meno efficiente, in quanto sprovvista del controllo della clientela.
La valutazione di una istituzione e quindi della qualità della sua governance passa solo in parte attraverso la soddisfazione dell’utente, la cui opinione è rilevante nella misura in cui riesce a influenzare l’opinione pubblica in generale, che è l’interlocutore di riferimento delle organizzazioni istituzionali. Per queste ultime sono quindi fondamentali le esigenze di immagine pubblica, come conferma la comprensibile tendenza a valutare più attentamente le singole pratiche che “fanno notizia”. Le istituzioni sono attente a questa forma di “controllo sociale d’insieme”, da non intendersi come formalistica analisi di specifici organi ispettivi guridici, ma come immagine reputazionale di sintesi dell’organizzazione istituzionale presso la pubblica opinione e la politica. Quest'ultima subisce le tendenze di opinione intrecciate nella società, e solo in misura modesta può indirizzarle, soprattutto in un sistema politico caratterizzato da libertà di pensiero e di opinione. E’ un circuito di reputazione e di valutazione molto più complesso di quello descritto sopra per le aziende, e quindi per il mercato; questa complessità prelude a una vischiosità notevole, a margini di manovra relazionali nella valutazione del merito, spesso connessi a inefficienze e sprechi. Questi ultimi sono uno dei motivi per cui è in auge l’adozione di “parametri di mercato”, spesso evocati con atteggiamenti fideistici e meccanicismi giustamente criticati dagli altri relatori di questo convegno. L’efficienza esterna è anche pregiudicata da un opposto controllo spontaneistico interno alle organizzazioni istituzionali, svolto dai colleghi, dai superiori e persino dai sottoposti. Il rischio di critiche interne agli stessi uffici è elevato, con diffidenza reciproca, autoprotezione, deresponsabilizzazione, produttive di inefficienze che ancora una volta fanno guardare al “mercato”, ai modelli aziendali. Che però non possono essere meccanicamente trasposti sulle organizzazioni istituzionali per le ragioni indicate ai prossimi paragrafi. L’unico punto in comune tra organizzazioni aziendali e organizzazioni istituzionali è la pluripersonalità, il coordinamento, l’interazione e il controllo reciproco tra i numerosi individui operanti all’interno dell’organizzazione. Vedremo ai prossimi paragrafi i modelli attorno ai quali disegnare le necessarie gerarchie.
2. Organizzazione istituzionale gerarchico-militare e merito come “cooptazione”.
Per quanto oggi abbiamo sotto gli occhi in Italia, il criterio per elaborare le gerarchie all’interno delle organizzazioni aziendali ha una matrice essenzialmente padronale. Le aziende italiane nascono, nella assoluta prevalenza, dall’allargamento di attività inizialmente svolte in forma individuale da un intelligente ed estroso fondatore, poi trasmesse per canali familiari o comunque relazionali[6].
Dall’altra parte, le organizzazioni istituzionali hanno seguito un modello gerarchico militare, ispirato in primo luogo alle funzioni belliche e di sicurezza, che in ultima analisi rendeva conto alla politica. A questo criterio gerarchico contribuiva il carattere militare della società agricolo artigianale, dove la fonte della ricchezza era rappresentata dalla terra; il suo possesso dipendeva dalla forza militare, facente capo alla politica, secondo un circuito reso bene dal motto mussoliniano secondo cui “è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”. La politica, attraverso la forza, dava la sicurezza e attraverso il diritto giurisdizionale dava l’ordine ai rapporti economici, come nei quadri dei Lorenzetti sul buongoverno nel palazzo pubblico di Siena; anche il concetto di pubblico ufficiale è per molti versi una reinterpretazione del comandante militare ed i più anziani ricorderanno l'epoca dei bigliettai, postini e persino netturbini in divisa , col territorio disseminato da “uffici d'Igiene”, ufficiali sanitari, uffici catastali, “case cantoniere”, “motorizzazioni civili” e “genio civile”, orfanotrofi, manicomi, riformatori, colonie penali, uffici Demaniali, prefetture e “intendenze di finanza”. Questo modello militare aveva i suoi lati oscuri in termini di autoritarismo, di margini eccessivi per abusi di potere, prepotenze, prevaricazioni, sia interne alle organizzazioni istituzionali, verso i sottoposti[7], sia verso gli utenti. Nella redazione delle “note caratteristiche” dei dipendenti si esplicavano grandi margini di pressione dei dirigenti, senza adeguati contropoteri in capo al personale e in capo agli utenti.
Il modello militare ha perso prestigio sia per le tragiche vicende delle due guerre mondiali, sia per l'opacità della sua gestione, in termini di controllo sociale, democrazia e trasparenza; le tendenze socioculturali degli anni 60/70 del novecento, nel loro generico e forse eccessivo rifiuto dell'autoritarismo, e persino dell'autorità[8], si sono saldate con idee di liberalizzazione economica perseguite in sede europea. Ciò ha portato, negli anni ottanta del secolo scorso, al consolidamento di correnti di pensiero che vedevano nel mercato e nell’approccio aziendalistico parametri di efficienza e di valutazione molto più immediati. Si sono così diffuse le privatizzazioni da un lato e un processo di progressiva “aziendalizzazione” delle istituzioni dall’altro. All'idea di “democratizzare le organizzazioni” e di renderle più efficienti, non è però corrisposta una riflessione, nella formazione sociale, sul concetto stesso di “organizzazione pluripersonale”. Il modello aziendale è stato quindi calato su settori di confine tra “pubblico” e “privato” come trasporti, ambiente, comunicazioni, reti idrico-energetiche, etc.[9] , che adottarono nella forma[10] un modello organizzativo aziendale.
Non sembra tuttavia che il modello aziendale nelle organizzazioni istituzionali abbia portato vantaggi rispetto al passato. Non è stato infatti possibile ricostruire all’interno delle organizzazioni istituzionali quell’insieme di fattori motivazionali tipici dell’azienda, derivanti dallo stimolo del mercato, che da una parte mancava oppure era variamente condizionato da assetti oggettivamente monopolistici. Forzare in un modello aziendale organizzazioni operanti fuori mercato ha recepito alcune negatività delle aziende, come l’alienazione, la disaffezione, la freddezza e l'opportunismo[11], unite a persistenti negatività del modello gerarchico-militare, come la carenza di pensiero critico rispetto “ai regolamenti”, il compiacimento del “potere”, la certezza della remunerazione tipica del “posto fisso”[12]. L'intreccio dei due modelli, anche per via della scarsa formazione sociale italiana, non ha comportato apprezzabili miglioramenti sul piano dell’efficienza e dell’efficacia delle organizzazioni istituzionali italiane, che sono il vero “handicap” del sistema paese rispetto ai suoi competitors esteri.
3. Crisi del modello gerarchico militare e insufficienze del meccanico di rinvio a parametri aziendalistici.
L’adozione del modello aziendale nell’apparato pubblico è stata effettuata insomma senza un’idea di organizzazione, aziendale, prima ancora che istituzionale. Le aziende, organizzazioni pluripersonali più semplici, sono state viste dalla nostra pubblica opinione non come “corpi sociali intermedi”, ma come operatori economici individuali, solo di dimensioni maggiori. L’azienda padronale ha tracimato sulla politica, che si è sentita, rispetto alle organizzazioni istituzionali, nella posizione del socio di riferimento di aziende private. Con la privatizzazione sono aumentati in altri termini i margini di manovra della politica rispetto a quelli esistenti ai tempi degli alti burocrati del modello gerarchico militare; questi ultimi erano ancorati all’organizzazione istituzionale di appartenenza, mentre oggi un’idea fuorviante di “managerialità” consente spostamenti da un settore all’altro, come conferma l’idea del “ruolo unico” dei dirigenti pubblici. Il dirigente, infatti, nella tradizione militare dello stato liberale, doveva comunque provenire dalla struttura e non essere genericamente "un manager" proiettato dall’esterno, il che riduceva le intromissioni della politica sulle organizzazioni istituzionali. In realtà anche nell’ambito aziendale l’idea della “managerialità” è molto meno intercambiabile da settore a settore di quanto vogliano far credere tante leggende metropolitane, culminate in programmi come “the apprentice”, condotto da Briatore su Sky. L’azienda è infatti un corpo sociale intermedio basato sulle prestazioni rese ai clienti, che devono essere approfonditamente conosciute, e non sono intercambiabili. Spostare un manager da un settore all’altro comporta la vischiosità delle categorie mentali della sua esperienza professionale precedente, come quando si dovesse spostare un manager della grande distribuzione nella cantieristica navale. Molto del successo delle aziende giapponesi, ad esempio, è dovuto proprio al reclutamento dell’alta dirigenza tra i manager del settore di competenza, siano essi l’auto, i computers o la cantieristica. E’ fuori discussione che, essendo l’azienda un corpo sociale, il dirigente debba avere anche attitudini al lavoro di gruppo, capacità comunicative, organizzative e motivazionali adeguate, rivolte però alla produzione delle merci o dei servizi cui è diretta l’attività dell’impresa. Quest’ultima, per quanto siano validi il direttore amministrativo o il direttore commerciale, comunica infatti col mercato attraverso i propri prodotti o servizi. Così come dovrebbe fare l’organizzazione istituzionale, che comunica con l’opinione pubblica attraverso la funzione svolta, sia essa quella sanitaria, didattica, ambientale etc.[13]. È quindi sulla specifica funzione che si valuta il merito del manager pubblico, in controtendenza rispetto alle idee di “ruolo unico della dirigenza”, di cui diremo al prossimo paragrafo. La posizione del manager pubblico è ancora più complicata di quello privato, in quanto non solo deve capire la specifica funzione svolta dalla sua organizzazione, ma anche interagire col giudizio della pubblica opinione, fronteggiare il sensazionalismo con cui vengono riferite le relative prestazioni nel pubblico dibattito.
4. Valutazione del merito nelle organizzazioni istituzionali e ingerenze politico-sindacali.
Appare quindi illusoria l’idea del manager pubblico trasferibile con disinvoltura dalla sanità, all’istruzione, all’ambiente, ai beni culturali, ai trasporti e via enumerando. Per questo l’idea del ruolo unico del manager pubblico, riemersa con la riforma Madia, è semplicistica, così come è semplicistica l’intercambiabilità dei manager nelle aziende private. Quest’ultima non si basa tanto su una fantomatica capacità di cambiare le proprie conoscenze di settore, quanto sull’oggettivo bisogno del capitalismo familiare di seconda o terza generazione, di alter ego di fiducia cui delegare la funzione gestionale. Le qualità umane, relazionali, del manager privato verso la proprietà aziendale si ripropongono nel rapporto tra i dirigenti delle organizzazioni istituzionali e i loro referenti politici. Un tempo, quando esisteva un organico assetto dell’”industria pubblica”, si parlava dei dirigenti “di area”, democristiana, socialista, socialdemocratica, per non dire di corrente interna a questi vari partiti. Oggi per molti versi cambia la forma, ma resta la sostanza di questo rapporto fiduciario, spostato sulle organizzazioni istituzionali. Di fronte all’incapacità degli studiosi delle scienze sociali di analizzare nel pubblico dibattito le organizzazioni istituzionali, la politica si prende i suoi spazi, imitando il rapporto di fiducia che, nel nostro capitalismo familiare, si crea tra proprietà aziendale e relativa dirigenza. Completo la mia relazione accennando alla passiva trasposizione , nel modello aziendale, delle organizzazioni istituzionali, del ruolo del sindacato, estraneo alla tradizione gerarchico-militare. E’ stata così spostata sulla pubblica amministrazione una mentalità sindacale che si era sviluppata dove occorreva controbilanciare la pressione della proprietà aziendale. Senza contrappesi, i sindacati dei dipendenti pubblici sono quindi diventati spesso a loro volta un potere, con cui spesso i vertici delle istituzioni, o delle aziende pubbliche, instaurano -per quieto vivere- rapporti "consociativi" . Ne ha risentito il potere dirigenziale di valutazione del merito, indispensabile per la cooptazione dei capaci e meritevoli nel modello gerarchico-militare; rappresentanze sindacali oggettivamente tese a massimizzare il proprio seguito tra i lavoratori sono infatti meno sensibili alle esigenze degli utenti e della società in generale. Eppure si sarebbe potuto adattare alle organizzazioni istituzionali il ruolo dei sindacati nelle organizzazioni aziendali. Così come nell’azienda il sindacato avrebbe dovuto essere un contrappeso rispetto al potere padronale, nelle organizzazioni istituzionali avrebbe dovuto valutare abusi del potere dirigenziale. Ma per questo sarebbe stato necessario il supporto e il controllo sociale di una pubblica opinione, ancor oggi priva di un adeguato retroterra sulle forme organizzative di cui abbiamo finora parlato.
[1] Sul modo in cui personalizzo e reinterpreto concetti di senso comune, come “società industriale” e “produzione tecnologica di serie” rinvio ad alcuni miei testi come Manuale giuridico di scienza delle finanze, Dike editore, 2012 e Compendio di scienza delle finanze, Dike editore 2013, entrambi in rete in open access con link dal mio sito personale www.raffaellolupi.com.
[2] Sulla necessità di riposizionare il diritto rispetto alla funzione giurisdizionale, ampliandone l’orizzonte anche come strumento per capire la funzione giurisdizionale, Lupi, diritto amministrativo dei tributi, in open access su
[3] Secondo un luogo comune che trasla l’importanza del profitto, necessario alla sopravvivenza degli operatori economici individuali, sulle organizzazioni aziendali pluripersonali, viste in modo grossolanamente antropomorfico.
[4] E’ il concetto di “valore aggiunto economico” dato dalla somma di salari e interessi, oltre che profitti. L’incapacità di comprendere l’imposta “IRAP” relativa appunto al valore aggiunto economico, la dice lunga sulla formazione sociale italiana.
[5] La c.d. “customer satisfaction”.
[6] A parte le forme, insomma, il corpo sociale costituito dall’azienda è oggettivamente “non democratico”.
[7] Persino in tempo di guerra il modello militare ha talvolta innescato e coperto, con le sue opacità, abusi nocivi all'interesse militare della nazione. La retorica militarista coprì a lungo i compiacimenti autoritari di alcuni ufficiali, e le ottuse vessazioni sulla truppa, durante la prima guerra mondiale, che contribuirono all’inefficienza delle operazioni.
[8] Mi riferisco alla contestazione giovanile e agli attacchi al concetto stesso di autorità, oltre che all’autoritarismo. Il collegamento di questa cultura con lo spontaneismo italiano , descritto al paragrafo 1.6, ha creato esagerazioni per molti versi nocive alle istituzioni italiane, e che esprime ironicamente la canzone di Giorgio Gaber “Libertà obbligatoria”, detta anche “si può” facilmente reperibile su youtube.
[9] Erano attività in cui poteva operare il finanziamento a carico dell’utente, teorizzato col principio del beneficio, simulando cioè un rapporto contrattuale.
[10] Perché la sostanza degli interventi gestionali e delle nomine, non essendoci né vendite né “clientela” dipendeva in buona misura dalla politica, come vedremo tra un attimo nel testo.
[11] Tutte caratteristiche tipiche della routine dell'azienda privata.
[12] Anche questa mentalità non deriva tanto da una genetica e imprecisata pigrizia italica, ma è un retaggio del modello militare, dove la prestazione dei combattenti è meramente potenziale, il che genera l'idea che lo stipendio spetti di diritto, e che il lavoro in più debba essere pagato.
[13] Così come un tempo un buon generale sapeva trascinare gli uomini in battaglia “fino all’estremo sacrificio”, oggi l’ottimo manager pubblico sa suscitare nei collaboratori il senso della funzione, sia essa sanitaria, didattica, ambientale, tributaria e via enumerando.