Lo stato delle tasse e delle mance (di Michele Governatori)
Una volta ancora quest’anno, in preparazione alla Legge di Stabilità, è arrivato il voto parlamentare necessario per Costituzione (la quale prevede il principio dell’equilibrio di bilancio) a permettere un deficit dei conti pubblici.
Qual è la strategia politica sottesa, in questa scelta? Quella di uno Stato sempre più esteso nella sua influenza nell’economia, spacciata per lo più come stimolo alla “crescita”, ma che nel contempo si permette di restare inefficace nei settori che invece sicuramente gli attengono, e la cui deficienza altrettanto sicuramente ha effetti negativi sulla crescita, in primis istruzione, giustizia e garanzia di legalità, burocrazia.
L’Italia ha una pressione fiscale elevata, soprattutto sui redditi, ma anche un’elevatissima dimensione dei sussidi (trasferimenti o sconti fiscali senza una contropartita) alle categorie più disparate. Sussidi che nella maggior parte dei casi sono contraddittori tra loro (per esempio sostengono l’uso dei combustibili fossili nei trasporti e contemporaneamente quello di fonti rinnovabili d’energia). In altri casi i sussidi sono incomprensibili sul piano della redistribuzione, per esempio nel settore abitazioni le norme attribuiscono molte più risorse alla defiscalizzazione della proprietà della prima casa che ai canoni d’affitto per l’abitazione principale.
È lo specchio di uno Stato da un lato molto costoso per i cittadini, dall’altro molto arbitrario nel determinare condizioni di favore tra diverse categorie di persone e aziende, le quali rendono meno trasparente la concorrenza e il welfare.
La relativamente piccola dimensione di molte delle misure di sussidio prese singolarmente, ognuna delle quali ha però beneficiari pronti a protestare, probabilmente concorre alla difficoltà nell’aggredire questa forma di spesa.
I sussidi in forma di trasferimenti dallo stato centrale e dalle regioni alle aziende valevano oltre 41 miliardi nel 2011, secondo Giavazzi, Giarda e Flaccadoro. Quelli, sempre in forma di trasferimenti diretti, del solo stato centrale e del sistema di parafiscalità di bollette energetiche valevano, secondo il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM), 19 miliardi nel 2016.
Più complicato computare la spesa fiscale (che è generalmente considerabile sussidio in quanto priva di contropartita). Secondo il MATTM essa, escludendo gli enti locali e includendo la parafiscalità energetica, ammonta a 22 miliardi, di cui circa 16 sono da eliminare in quanto dannosi all’ambiente e contrari a impegni interni e internazionali del Governo. Il Ministero dell’Economia e della Finanza (MEF), nel suo primo rapporto sull’erosione fiscale, ne elude una quantificazione complessiva, ma fornisce un catalogo delle voci che la compongono. Il secondo rapporto, presente in allegato alla nota di aggiornamento del DEF 2018-2020, è a mio parere imbarazzante per assenza di proposte di riduzione, e in questo senso tradisce l’impegno del Governo a fare proposte per la riduzione della spesa fiscale, previsto nel Dlgs. 160/15 in attuazione alla Delega Fiscale del 2014.
Da dove si potrebbe cominciare a tagliare, allora, per poi poter tagliare le tasse e aiutare in modo non distorsivo l’economia competitiva?
Una prima classe di sussidi fortemente discriminatori e incoerenti con le politiche ambientali è quella che comprende gli sconti su accise a carburanti e combustibili fossili, soprattutto al trasporto commerciale e all’agricoltura, per circa 4 miliardi/anno (circa 2,4 escludendo gli sconti d’accisa al carburante per il trasporto aereo, anch’essi a mio parere censurabili, ma determinati anche da accordi internazionali).
Altri sussidi in forma di spesa fiscale di cui mi sembra difficile ravvisare un senso avvantaggiano la prima casa, per oltre 10 miliardi all’anno (in favore di persone fisiche e non d’imprese).
Anche la spesa fiscale per la “competitività” e per la riduzione del cuneo fiscale delle aziende è altissima (oltre 13 miliardi secondo il primo rapporto MEF) ed è ulteriormente salita di recente. Ma se è vero che il cuneo fiscale costituisce un elemento decisivo di competitività, credo che sia meno distorsivo e arbitrario affrontarlo con una riduzione generalizzata delle tasse anziché con misure di incentivo all’acquisto o ammortamento di determinati beni o mediante la defiscalizzazione solo temporanea e selettiva del lavoro.
In conclusione, mi chiedo se abbia senso mantenere aliquote fiscali generalmente molto alte associate a una pletora di esenzioni e sconti che perseguono le finalità più disparate, sovrapponendosi in modo poco trasparente (tanto che per tentare di far chiarezza è stata istituita una commissione dal MEF, prevista dal già citato Dlgs 160/15) e di sicuro in modo non organico agli strumenti di welfare.
Io credo di no, credo che lo Stato dovrebbe azzerare gran parte della spesa fiscale contestualmente a una riduzione delle aliquote standard di imposta e alla revisione del welfare che già è in corso.
Uno Stato con tasse ragionevoli e politiche redistributive chiare è meglio di uno Stato delle alte tasse e delle innumerevoli (e carissime) mance nascoste.
(25 ottobre 2017)