Un Game of Thrones in salsa saudita (di Fabio Nicolucci)
Da anni è ormai in atto una dura "guerra di successione" al trono in Arabia Saudita. E’ di qualche giorno fa la decisione del re Salman (81 anni) di saltare la linea di successione (tracciata d’accordo con il precedente re, suo fratello Abdallah) e di nominare al posto del Principe ereditario Mohammed bin Nayaf (57 anni) direttamente il proprio figlio Mohammed bin Salman (31). Una sorta di "golpe bianco", soprattutto per la discontinuità generazionale.
Una scelta di certo non facile, vista la gestione familistica e diretta delle ricchezze di cui gode il Regno fondato da Ibn Saud nel 1932, e che spezza il patto del 2015 tra Abdallah e Salman con un decreto del Re che è – come tutto in Arabia Saudita – inappellabile. Non resta che attendere le reazioni del detronizzato e degli altri rami della numerosissima famiglia reale. Questa saga Game of Thrones in salsa saudita non è affare di poco conto, sia per la potenza economica e geopolitica del Regno, custode dei due luoghi più santi dell’Islam Mecca e Medina, cheper le ripercussioni regionali: quasi tutta l’instabilità, oggi, nel Levante e nel Golfo trova il proprio epicentro più forte proprio nella lotta in corso a Riyad.
Il sismografo politico segna una forte agitazione. Anzitutto, la guerra "per procura" contro l’Iran, attualmente in corso, che è il frutto di un’ansia saudita per la perdita relativa di centralità dei sunniti seguita allo sconvolgimento portato dall’intervento Usa in Iraq nel 2003. Un’ansia la cui intensità suscita di solito meraviglia tra gli analisti distratti o astratti, perché è vero che l’Iran ha acquisito un corridoio e una presa in Iraq che non aveva finché la locale maggioranza sciita veniva tenuta sotto il tallone del sunnita Saddam Hussein, ma ciò non mette certo più di tanto all’angolo il gigante del Golfo e i sunniti di cui si proclama campione. Se però a tale fattore esterno si somma la lotta interna per il potere, ecco che l’ansia può divenire incontrollabile. E non sarebbe la prima volta. Si pensi al l’intervento saudita in Bahrein, all’intervento nello Yemen, e da ultimo alla crisi diplomatica con il Qatar. Nel Bahrein, una piccola isola a maggioranza sciita davanti alle coste saudite del Golfo e accanto alla penisola del Qatar, l’Arabia Saudita è intervenuta con un corpo di spedizione nel marzo del 2011 dopo la richiesta di "fraterno aiuto" della dinastia sunnita degli Al Khalifa lì regnante, minacciata dai moti di piazza. Quattro anni dopo è invece proprio il neo principe ereditario Mohammed bin Salman, allora ministro della difesa, a congegnare l’intervento saudita nello scontro tra i ribelli huthi di estrazione sciita e il presidente yemenita Hadi, tematizzato come una guerra alla crescente influenza dell’Iran, che tradizionalmente sostiene gli Huthi. Una guerra feroce, troppo periferica per interessare il mondo –migliaia di morti, moltissimi bambini, un paese distrutto e ora anche un epidemia di colera dopo la carestia degli ultimi anni – ma centrale negli equilibri dei Saud per la lotta di potere allora in pieno svolgimento tra il rampante ministro della difesa saudita – che congegnava un intervento aereo - e il suo rivale, ora detronizzato, Mohammed bin Nayef, a capo del Ministero dell’Interno che puntava su di un intervento di terra, in modo da oscurare la stella del rivale in un pantano yemenita. Infine, la crisi con il Qatar. Dopo quella sullo Yemen, dove in palio erano i galloni di campione della lotta agli sciiti, questa è stata infatti congegnata per attribuire i galloni del campione dei sunniti. Di conseguenza colpendo con un embargo le finanze dell’altro competitore alla guida dei sunniti, facendo asse con il ricco Principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed, che vede il Qatar come fumo negli occhi.
Siamo ora alla stretta finale e tutte le cedole e le credenziali sono state messe all’incasso. C’è dunque da augurarsi che questa guerra di successione, questo Game of Thrones in salsa saudita, produca presto un equilibrio duraturo, e magari progressivo; in tal senso sarebbe auspicabile che agisse il Presidente Usa e l’occidente. Perché come ben sappiamo noi europei, se le guerre di successione non si risolvono presto, come fu nel XVIII secolo in Europa, ci può anche scappare una Rivoluzione. E non è detto, con il jihadismo così radicato nel wahhabismo, che alla fine prevalgano liberté, egalité, e fraternité.
(6 luglio 2017)