Dialogo su eccellenza e impatto scientifico (di Michele Ciavarella)
Raccogliendo l’invito di Simone Lucattini a dare vita ad un dialogo su eccellenza e impatto scientifico con i 100 ingegneri italiani più citati al mondo ho contattato alcuni dei colleghi compresi nell’elenco stilato da Via-Academy e posto loro alcune domande ispirate dalla mia esperienza di ricercatore, almeno in parte in comune alla loro (immagino). Domande e risposte che, spero, possano risultare utili soprattutto per i giovani che si avvicinano al, sempre e comunque, affascinante mondo della ricerca scientifica.
- Questione merito/meritocrazia nell’università italiana. Tema usato e abusato? A parte i possibili confronti con altri sistemi universitari, si assiste ad un miglioramento della situazione complessiva o ad una ulteriore involuzione? E ancora, la gerarchia dei ruoli universitari va scomparendo, o crea piuttosto distorsioni?
Innocenzo Pinto: Se ne è parlato molto; non necessariamente abbastanza. La "gerarchia" accademica non dovrebbe derivare dal ruolo; è il ruolo che dovrebbe derivare da carisma e talento. E’ sconfortante constatare che gli accademici "anziani" applicano sovente criteri piu’ meritocratici dei "giovani", spesso prigionieri di logiche di appartenenza e/o convenienza che di accademico (nel senso nobile) non hanno nulla. Io penso che il sistema delle regole debba servire a scoraggiare gli istinti peggiori delle persone. Non mi sembra che le regole attuali nell’Università italiana funzionino in questo senso, anche perchè spesso sono fatte a proprio uso e consumo proprio da coloro che andrebbero tenuti a bada. Dispiace, d’altro canto, che l’Universita’ italiana sia diventata, non senza ragione, un bersaglio mediatico, facendo di ogni erba un fascio. Dopotutto, non è peggio di altre istituzioni (magistratura e politica, ad esempio) cui competono funzioni non meno "alte"…
Renzo Rosso: Sul merito ho una visione critica, più vicina al pensiero di Michael Young (The Rise of the Meritocracy, 1958) che al darwinismo neoliberista. Nella mia lunga esperienza (classe 1950) ho potuto osservare che in Italia il merito, con l’ausilio di un foglio excel opportunamente programmato, può divenire lo strumento per annientare i nemici e aiutare gli amici; e lo ho verificato a ogni livello, dal mio ateneo alle istituzioni romane.
Giacomo Cao: Domande complesse. Provo a rispondere. Di meritocrazia non si parla mai abbastanza. In ambito universitario credo il punto sia legato alle scelte dei nuovi ingressi. Si pensa che il percorso debba essere legato al concorso di un tempo o all’abilitazione attuale. Ho compiuto una esperienza americana che ho trovato interessante sotto vari punti di vista. Sarebbe utile che copiassimo per quanto ci è possibile. Dovremo scegliere i nuovi ingressi su base meritocratica in relazione sia alle esigenze didattiche condivise nel contesto dipartimentale e di Ateneo sia a quelle scientifiche con riferimento alle diverse tematiche di ricerca che si intende far crescere o sulle quali si preferisce investire a livello dipartimentale, senza cercare di "piazzare" in università "cloni scientifici", ovvero colleghi nati nei nostri gruppi di ricerca. Basterebbe impedire, anche per legge, che coloro che hanno acquisito il dottorato di ricerca in una certa università non possano andare a insegnare in quella università per almeno 15 anni dalla data di conseguimento del titolo di dottorato. Le cose comunque stanno per certi versi migliorando, soprattutto nei settori bibliometrici, in quanto oltre all’abilitazione c’e’ una sempre crescente attenzione alla produttività scientifica che però, per le ragioni connesse al gruppo di ricerca accennate in precedenza, è spesso riconducibile appunto al gruppo e con difficoltà si riesce ad individuare il contributo del nuovo ingresso.
Non sarei completamente d’accordo sul fatto che la gerarchia italiana dei ruoli vada scomparendo. L’introduzione delle soglie per l’abilitazione ha reso meno forte il ruolo dei docenti di prima fascia che compongono le commissioni di abilitazione ma la gerarchia si ripropone nelle scelte dei diversi Atenei e Dipartimenti. Le nuove assunzioni si limitano nella stragrande maggioranza dei casi a giovani, per altro non sempre anagraficamente tali, nati e cresciuti nella stessa università che bandisce il posto. Non si chiede il percorso di ricerca che il nuovo collega intende intraprendere, che dovrebbe come detto essere funzionale alle scelte dipartimentali, né si cerca di trovare risorse finanziare da destinare ai colleghi appena entrati per consentire che possano rendersi subito autonomi. Naturalmente gli investimenti in ricerca nel sistema paese non aiutano e quindi occorre rivolgere un grande plauso ai ricercatori italiani che nonostante tutto si fanno valere nei confronti di colleghi stranieri che operano in sistemi universitari dove quando va male si investe in ricerca il 2.5 % del PIL.
Filippo Berto: Io penso che il sistema italiano abbia il problema fondamentale che non vi è un filtro vero in entrata. Questo ha creato negli anni un sistema con molti ricercatori per i quali lo scorrimento di carriera è diventato difficile se non impossibile. Molto spesso si confondono il merito e il fatto di essere servizievoli o utili al sistema per attività di routine che nulla hanno a vedere con l attività scientifica. Si è creato dunque un sistema difficile da gestire e in cui le regole e i parametri per la progressione di carriera dipendono localmente dalla decisione del dipartimento o del decano di un determinato settore. Si arriva in posizioni rilevanti quando si è troppo vecchi e le energie sono pressochè pari a zero. Questo crea un circolo vizioso negativo che spinge studenti eccellenti a non rimanere nel mondo accademico. Ci sono persone di livello che rimangono bloccate in posizioni mediocri e persone mediocri in sede diverse che proseguono la loro carriera senza intoppi.
Andre Remuzzi: Non sono molto esperto del mondo universitario, la mia esperienza non mi permette generalizzazioni. Penso però che il merito a livello scientifico non sia stato storicamente un criterio di valutazione. Solo negli ultimi vent’anni le cose stanno cambiando e penso che in un sistema che era quasi pietrificato sia difficile attuare un cambiamento. Comunque le cose stanno cambiando e, anche se con errori e imperfezioni, sono fiducioso che il sistema verrà migliorato in futuro. E’ vero che il limite attuale è il fatto che la maggior parte dei ruoli è stata ricoperta in passato con criteri che non hanno preso in considerazione il merito scientifico e ora queste persone fanno resistenza al cambiamento. Il problema cruciale però è quello che riguarda i giovani. Non è tanto il criterio meritocratico che ostacola l’emergere dei giovani, quanto la mancanza di turnover.
- È chiaro che oggi conta molto l’impatto scientifico, persino in Italia, e si discute molto su come questo vada misurato: c’è una grande letteratura sul tema, sia sugli usi che su abusi. Come tutti gli scienziati, immagino anche Tu creda che un dato sperimentale sia meglio di niente! Quindi per es. l’H-index, come punto di partenza, qualcosa può significare. Siccome fai parte della lista dei 100 ingegneri italiani più citati al mondo, non credo sarai del tutto contrario al valore di H-index di prima approssimazione, ma oltre ad H-index, come é possibile quantificare merito e demerito?
Innocenzo Pinto: L’impatto di un lavoro (e/o di uno studioso) su una certa disciplina andrebbe misurato dal "consenso/riconoscimento" della Comunità Scientifica competente in materia. L’H-index e’ un surrogato algoritmico (e dunque presuntivamente esente dai vizi che limitano l’obiettività di giudizio delle comunità umane), ed è sicuramente meglio di nulla. Definire un indicatore che non si presti a critiche e sia sufficientemente robusto, però, non è facile. In questo senso, l’H-index è certamente migliorabile. Personalmente trovo che oggi si pubblichi troppo e che la percentuale di lavori significativi (quelli che sopravvivono, diciamo, a trent’anni dalla data di pubblicazione) sia drammaticamente bassa, H-index a parte. Leo Felsen (che venero come uno dei Maestri che ho avuto il privilegio di conoscere) distingueva tra "questions looking for answers" e "answers looking for questions". I lavori che mi capita di leggere ricadono sempre piu’ spesso nella seconda categoria.
Renzo Rosso: Non credo che spingerci a vivere in un format televisivo, dal Grande Fratello a X-factor, sia il massimo della vita. Le graduatorie sono importanti e l’indice di Hirsch funziona benissimo, basta e avanza. Come scrisse un grande amico, Piero Villaggio, la riforma Berlinguer (e le successive, aggiungo) non hanno fatto altro che esaltare i burocrati astuti (che tra noi sono numerosi) a scapito dei ricercatori appassionati ma disaccorti. La deriva aziendalista dell’università manageriale sta distruggendo in tutto il mondo l’università che si era configurata per quasi un millennio. L’attacco alla tenure-track che in tutto il mondo sta portando alla precarizzazione delle posizioni accademiche sta modificando il nostro ruolo secolare di indipendenza e libertà di pensiero, asservendolo alla politica (e in qualche posto anche alla religione).
Il vero limite italiano, del tutto allucinante e incomprensibile ai colleghi stranieri, è la completa eliminazione della mobilità dei docenti, che dalla laurea alla pensione non si muovono dallo stesso ateneo. Anche la quota 20% può essere declinata in modo sbagliato, ad esempio chiamando, in nome dell’internazionalizzazione, un oscuro studioso straniero, e non magari il più bravo italiano che ha passato la ASN e non fa parte dell’ ateneo.
In un paese decente vale il criterio della competenza, mentre il merito dovrebbe essere una valenza riconosciuta senza dover ricorrere a ‘misure’ sofisticate e al dio excel.
Giacomo Cao: L’H-index è un buon parametro globale di immediato impatto. Trovo però che certi metodi per incrementare tale parametro non siano accettabili. Non mi pare onesto scrivere su riviste di cui si è "editor", "associate editor" o componente del "advisory board". Purtroppo succede più spesso di quanto si creda. Non credo sia giusto costruire ad hoc riviste, che ormai pullulano, che vengano controllate con il solo scopo di incrementare il più possibile le citazioni di chi ci scrive. Paesi con popolazioni estremamente numerose se confrontate ad altri possono "governare" questo parametro a piacimento con la possibilità di stravolgere le classifiche internazionali basate sull’H-index. Certamente quest’ultimo non è l’unico a quantificare merito e demerito. La capacità di attrarre finanziamenti, le competenze didattiche in relazione sia alla padronanza dell’argomento sia all’efficacia connessa con il trasferimento di conoscenza, il fattore umano sono sicuramente altri elementi da prendere in considerazione nella valutazione.
Filippo Berto: Io sono favorevole ai parametri quantitativi. Penso che H index numero di citazioni e numero di papers siano parametri utili. Penso che dando una scorsa alle mediane richieste per la ASN si abbia subito un'idea chiara della situazione italiana. Ovviamente questi parametri non sono tutto ma penso che il livello della decenza dovrebbe essere almeno rispettato.
Andrea Remuzzi: Secondo me il valore dell’H-index è stato quello di permettere una quantificazione della produzione scientifica. L’H-index ha sicuramente dei limiti, e potrebbe essere migliorato. Quello però che è necessario tener presente è che la produzione scientifica dipende in modo cruciale dal meccanismo di peer review su cui si basano i giornali internazionali. Molti lavori sono accettati o rifiutati in base a commenti di Reviewers che dovrebbero essere coscienti del loro ruolo fondamentale. Quello che vedo io direttamente come editor-in-chief di un giornale scientifico è che a volte queste valutazioni sono fatte in modo superficiale e non sempre dettate dalla valutazione degli aspetti scientifici.
- Quanto è importante la capacità didattica? O bisognerebbe separare carriere per coloro che si dedicano alla ricerca e coloro che si dedicano alla didattica? E come premiarla? In Italia c’è un sistema efficiente in proposito?
Innocenzo Pinto: La capacità didattica separata dalla ricerca è sterile. La ricerca senza didattica può essere una parentesi di carriera di uno studioso, ma insegnare è un catalizzatore di idee formidabile, e dunque perchè privarsene? Personalmente nulla mi ha aiutato di più a capire le cose quanto cercare di spiegarle agli altri. Più in generale, dai miei molti studenti ho imparato un sacco di cose. Forse la capacità didattica andrebbe premiata guardando la produttività scientifica degli allievi.
Renzo Rosso: Non sempre un bravo ricercatore è un grande didatta, ma non è vero che il contrario sia la regola. Con l’età, in genere si migliora come didatti e il bilanciamento della propria attività tra scientifica e didattica dà sempre maggioro peso alla seconda, assieme alla divulgazione (che in Italia è del tutto reietta). Sono perplesso sui "bravi didatti" che sono modesti studiosi, perché costoro presentano spesso la materia come un cumulo di certezze, quando invece sono a bunch of lies, come diceva un mio amico che insegnava a Princeton.
La valutazione della didattica (che introdussi per primo quando con l’ingegneria ambientale a Milano nel 1989) ha una funzione soprattutto per il docente stesso, se è una persona onesta e appassionata del proprio lavoro. Se il docente è un disonesto o un furbetto, non c’è bastone o carota che tenga. Bisogna lavorare sulle nuove generazioni al motto "onestà", soprattutto intellettuale.
Giacomo Cao: In università si dovrebbe consentire l’ingresso solo se si è capaci di svolgere proficuamente entrambe le funzioni che dovrebbero essere valutate con grande attenzione all’atto dell’assunzione di nuovo personale. I percorsi dei cosiddetti ricercatori di tipo A e B consentirebbero queste valutazioni che purtroppo non vengono sempre prese in considerazione con la dovuta attenzione.
L’attività didattica si potrebbe premiare istituendo specifiche classifiche annuali che determinino ritorni di carattere finanziario per i docenti che raggiungono i primi posti. La difficoltà sta nell’identificare i valutatori che in altri paesi sono gli studenti.
Filippo Berto: Io penso che la capacità didattica sia importante ma il carico didattico dovrebbe essere meno gravoso per i meritevoli che dovrebbero insegnare alla magistrale corsi avanzati e legati alla loro attività come avviene in molti stati.
Andrea Remuzzi: Non consiglierei di separare la ricerca dalla didattica. L’attività didattica arricchisce la ricerca e viceversa. Chi si dedica alla ricerca può svolgere attività didattica nei settori in evoluzione in modo completamente diverso da chi ha solo compiti didattici.
- Allargando forse il panorama, che definizione daresti di innovazione?
Innocenzo Pinto: La capacità di cambiare il modo di pensare, la prospettiva. Non in astratto, ma in concreto ovvero, con riferimento a problemi specifici. In seconda battuta, la capacità di cambiare "il mondo" attorno a noi. Ma questa seconda capacità non è, per me, necessariamente "valore" : se penso ai social network, mi sembra che la gente facesse un uso migliore del suo tempo quando non c’erano.
Renzo Rosso: Il frutto dell’anti-conformismo, che la moderna università a trazione aziendale sta soffocando a favore di una ricerca spesso inutile e qualche volta dannosa.
Giacomo Cao: Con riferimento a quella tecnologica, direi che innovare è sinonimo di introdurre nuovi prodotti e servizi, come pure nuovi metodi per produrli e renderli disponibili agli utilizzatori, purchè gli stessi trovino accettazione e riscontri sul mercato che ne sanciscano il successo commerciale.
Filippo Berto: Innovare significa cambiare metodo e punto di vista. Osservare problemi anche già trattati con occhi diversi. Ci sono molti problemi che consideriamo risolti ma che sono stati affrontati o di cui abbiamo solo soluzioni approssimative e non soddisfacenti.
Andrea Remuzzi: La tematica dell’innovazione è molto ampia. La parte di innovazione che può scaturire dalla ricerca scientifica è sicuramente di importanza cruciale per un paese che dovrebbe puntare sull’innovazione. Purtroppo in Italia le risorse per la ricerca scientifica sono state ridotte a un livello preoccupante e di conseguenza non ha nemmeno senso sperare che dalla ricerca italiana possano scaturire spunti di innovazione consistenti. Quello che viene prodotto è come al solito frutto della creatività e della volontà dei ricercatori italiani che nonostante le difficoltà del sistema non desistono nel loro lavoro.
- Quali sono le tematiche che consideri più importanti per i prossimi 10 o 15 anni?
Innocenzo Pinto: Domanda molto difficile. Sarei tentato di dire: tutte quelle in cui si fa BUONA ricerca. Poi, se proprio vuoi mettermi alle strette, trovo che le neuroscienze pongano le domande più affascinanti. Ma nel rispondere a questa domanda, la mia scelta e’ guidata dalla mia generale ignoranza, come forse dev’essere. Se fossi giovane avrei solo l’imbarazzo della scelta nel decidere cosa studiare!
Renzo Rosso: Dal mio punto di vista disciplinare, le scienze dell’acqua hanno una certa importanza, sia per i numerosi aspetti teorici ancora da chiarire, sia per l’impatto sulla vita di un pianeta da 9 miliardi di persone, due terzi dei quali rinchiusi in enormi megalopoli.
Giacomo Cao: Nanotecnologie, esplorazione robotica dello spazio e medicina rigenerativa.
Filippo Berto: Studio di materiali che permettano risparmio energetico e sprechi durante la fabbricazione garantendo la resistenza necessaria. La nuova normativa 1090 ci metterà di fronte a scelte difficili e di fatto eliminerà il confine fra ingegneria civile e ingegneria meccanica.
Andrea Remuzzi: Faccio fatica a identificare le tematiche importanti per il futuro. Posso solo evidenziare le mie impressioni che derivano dall’osservazione dei settori di cui mi interesso. Per questo penso a tre temi che avranno una certa rilevanza. Una di queste tematiche sarà per me l’utilizzo delle tecnologie in medicina. Il settore è in forte espansione a livello clinico e industriale. Sicuramente un settore trainante sarà quello della gestione dei dati e delle telcomunicazioni, come si può osservare anche nella vita quotidiana. Infine un altro settore che dovrebbe evolvere in modo importante è quello energetico, per le implicazioni che ha con i problemi ambientali. Mi auguro, in un prossimo futuro, che si possa aumentare la consapevolezza della necessità, che abbiamo a livello globale, di sviluppi importanti in questo settore.
- Quali sono state le svolte o le scoperte scientifiche più importanti nel tuo ambito di ricerca e il tuo contributo?
Innocenzo Pinto: Nel mio ambito "nativo" (che è l’Elettromagnetismo), direi lo studio dei metamateriali e della propagazione nei sistemi complessi (ad es., i sistemi che sono caotici nel limite ottico). Nell’ ambito delle cose su cui lavoro da ormai oltre vent’anni, direi senz’altro la prima osservazione delle onde gravitazionali. Ho avuto la fortuna di mettere lo zampino in tutte e tre, ma se debbo indicare un contributo, scelgo il disegno degli specchi dielettrici di LIGO (il cui rumore termico determina la distanza di visibilità dello strumento), che è venuto dal mio gruppo. Questo mi da, come puoi immaginare, grande soddisfazione – ma l’idea da cui siamo partiti era così semplice che non è il caso di farsene un merito. Io penso che le idee maturino e circolino nella Comunità scientifica (quella vera) come effetto di un processo collettivo. Poi qualcuno per fortuna, intuizione (e quanto basta di talento) le acchiappa al volo e le mette insieme, tirando fuori qualcosa di nuovo. Ma si è trattato, semplicemente, di comporre il puzzle combinando le tessere giuste.
Giacomo Cao Mi pare di poter dire che la principale svolta sia legata alla nascita della tematica "chimica verde" con conseguente sviluppo dei cosiddetti processi "verdi" e sostenibili. Premesso che sarà eventualmente la comunità scientifica a riconoscere la valenza del contributo dato a questa tematica di ricerca da parte del sottoscritto e del gruppo, mi pare di poter dire che ci siamo adoperati per proporre sia processi di sinterizzazione (Spark Plasma Sintering) in condizioni meno drastiche rispetto alle tecnologie tradizionali (Hot Pressing) sia processi di produzione di biopetrolio e composti ad alto valore aggiunto da coltivazioni di microalghe.
Renzo Rosso: Durante la mia lunga carriera abbiamo assistito e in qualche misura contributo a un passaggio epocale nelle scienza dell’acqua. Per molti anni gli ingegneri idraulici italiani hanno giudicato l’idrologia con lo stesso metro che adotta l’astronomo quando parla dell’astrologia. Ma il mondo cambia, qualche volta assai rapidamente, e in poco tempo l’idraulica si è ridotta a disciplina ancillare dell’idrologia, una delle sue tante branche, con qualche problema da parte dell’accademia italiana nel prendere atto di questo torto. Un po’ come accadde tra elettrotecnica ed elettronica dopo la seconda guerra mondiale. Il mio contributo personale in questa avventura sta agli altri riconoscerlo.
Filippo Berto: Nel mio particolare ambito la scoperta scientifica più importante è stata la formulazione analitica della meccanica della frattura capendo come gestire le singolarità. Quale sia stato il mio contributo è difficile da dire. Quello che mi auspico ed è il mio principale fine è formare allievi migliori di me. Solo allora il mio lavoro avrà un senso.
Andrea Remuzzi: Io mi occupo da sempre di ingegneria biomedica. Storicamente questo settore è stato caratterizzato dallo sviluppo di organi artificiali e tecnologie per la diagnostica e la cura di numerose patologie. Non ci sono state secondo me scoperte scientifiche isolate ma una serie di passi avanti che hanno cambiato la storia della medicina. Più recentemente l’ingegneria si è occupata anche di biologia e uno dei settori a cui ho contribuito è quello della meccanobiologia. Queste ricerche hanno permesso scoprire che molti sistemi fisiologici sono basati sulla risposta cellulare alle sollecitazioni meccaniche. Questo sta contribuendo in modo importante alle scoperte di meccanismi fisiopatologici e all’identificazione di strategie terapeutiche innovative.
(28 febbraio 2017)