La norma europea Clean Energy Package: un salto di qualità nel metodo di formulazione delle policy energia-clima (di Guido Bortoni, Il Merito n. 1/2019)
Più di una volta mi sono ritrovato – anche nella (allora) veste di Regolatore dell’energia, ma non solo - a dover muovere critiche ai policy maker “di turno” per cronici difetti o evidenti carenze nell’azione di definizione, gestione e financo di correzione delle politiche pubbliche in materia di energia-clima. Erano critiche costruttive s’intende, animate dal mio sincero proposito di promuovere un netto miglioramento delle policy energetico-ambientali; ma sempre critiche rimanevano ed, in quanto tali, erano percepite come fastidioso cilicio piuttosto che come utile sprone al progresso nel comune interesse.
Anche il co-legislatore europeo (figura trina connotata da un processo legislativo ordinario assai complesso che vede la Commissione Europea in assetto proponente, nonché il Parlamento ed il Consiglio europei come co-approvatori della norma euro-unitaria) non è stato risparmiato dalle critiche, contestando in particolare due vistose ombre che, con un po’ di folklore, sono gergalmente riconosciute in Europa come “one-size-fits-all” e “solely-principles-no-measures”.
Qui le richiamo in poche parole ad uso del lettore. One-size-fits-all individua quell’approccio per cui una soluzione individuata dal policy maker europeo deve “per definizione” calzare, senza alcun adattamento alla situazione specifica, in tutte le diverse realtà nazionali anche nel caso in cui, tra di esse, vi sia un solo elemento in comune: quello di essere contestualmente soggette alla stessa giurisdizione sovra-nazionale. Un uso eccessivo di tale approccio, qualora le diversità siano poco conciliabili con la norma, conduce inevitabilmente ad approssimative implementazioni della medesima nelle singole realtà nazionali se non addirittura ad elusioni o a deroghe manifeste, rendendo l’impianto normativo poco o inefficacemente attuato. Solely-principles-no-measures, per certi versi opposto al caso precedente, caratterizza invece quella “foggia” legislativa un po’ antiquata che si basa su grandi enunciati di principi e criteri generali – sicuramente sempre benvenuti – senza però “trasferire a terra” tutta la potenza dell’indirizzo pubblico attraverso la ben nota cinghia di trasmissione costituita dagli strumenti attuativi (measures) delle policies adottate, nemmeno delegando un soggetto attuatore a disporre quel trasferimento nel concreto. Da tale circostanza deriva solitamente una implementazione formalmente corretta ma, sostanzialmente, assai diseguale nelle singole realtà nazionali, con il rischio di aumentata frammentazione e di allontanamento del moto comune verso gli obiettivi individuati dalla policy europea.
Detto ciò ad onor del vero, devo però ricredermi di fronte al nuovissimo corpus normativo (o pacchetto di norme unionali) che sta per essere perfezionato, recapitato in ogni capitale dell’Unione Europea per il conseguente recepimento nei singoli ordinamenti nazionali (compresi i Regolamenti UE che sono immediatamente efficaci) e che va sotto il nome di Clean Energy for All Europeans o di Clean Energy Package (CEP). Questo pacchetto – a mio modo di vedere - non indugia più sulle due ombre citate. Anzi, le scongiura esplicitamente mostrando, da un lato, grande rispetto per le diversità del “contesto energia” nei singoli Stati Membri e piuttosto valorizzando prioritariamente (purchè sia credibile) lo “sforzo-contributo” che i singoli Paesi UE con le loro diversità si impegnano a dispiegare per contribuire collettivamente all’obiettivo euro-unitario. Dall’altro, il CEP prevede una vasta serie di strumenti attuativi delle policies – delineati in maniera assai flessibile e non univoca - che possono essere ben adattati alle singole realtà nazionali, oltre ad una nutrita sequenza di meccanismi unionali – questi sì disegnati nel dettaglio - per il coordinamento, la cooperazione, lo scambio e financo l’aiuto reciproco tra Stati Membri (SM). Ciò in quanto il CEP è figlio della strategia Energy Union 2015 che pone come “collante” fondamentale UE-SM ed intra-SM il principio di solidarity and trust a conformazione della nuova governance della transizione energetica europea.
Provo nel seguito a sostanziare quanto descritto poc’anzi prendendo ad esempio un provvedimento-bandiera del CEP, già pubblicato ed entrato in vigore alla vigilia di Natale 2018, proprio per non ricadere in una mera affermazione di principi e criteri poco riferibili ad un contesto tangibile. Pertanto vorrei qui illustrare, sia pure per sommi capi, la direttiva RED II per la promozione dell’uso delle fonti di energia rinnovabile nell’Unione Europea ed, al suo interno, trattare di uno strumento innovativo che – a mio avviso e soprattutto per alcuni SM – può rappresentare una measure di straordinaria accelerazione dello sviluppo di iniziative di energia rinnovabile in una matrice territoriale diffusa e decentralizzata: la Renewable Energy Community o REC.
Innanzitutto la RED II.
Il cuore del portato della RED II sta nella fissazione dell’obiettivo vincolante (almeno il 32% al 2030) “da raggiungersi collettivamente” nell’arco di un decennio (2021-2030) da parte degli Stati Membri, definito come quota dei consumi da energia rinnovabile (elettrico, usi termici e trasporto) sul consumo interno lordo dell’Unione. In disparte l’elevata ambizione ìnsita in un simile obiettivo, ai nostri fini rileva di più il fatto che l’UE innovativamente definisce un target da raggiungere in modalità <<e(x) pluribus unum>>, vale a dire sulla base dei contributi auto-determinati dai singoli Stati Membri e del loro impegno, quindi con un approccio assai rispettoso delle peculiarità presenti negli SM – quelle che prima definivo diversità – sia in termini di situazione attuale o di partenza al 2020, sia di scelta autonoma del proprio mix produttivo nazionale (avere diversi mix produttivi negli SM è un valore in termini di diversificazione delle fonti che non va dimenticato) che di differente potenziale nazionale quanto a risorse rinnovabili. Inoltre, l’alto rispetto nel pianificare l’obiettivo è anche rinvenibile nell’elevato grado di flessibilità introdotto dal legislatore euro-unitario nella quantificazione del target stesso. Infatti – si legge all’art.3 – la Commissione Europea è incaricata entro il 2023 di elaborare ulteriori proposte legislative per modificare in incremento il target medesimo nei casi in cui: a) obiettivi rafforzati di lotta contro I cambiamenti climatici sottoscritti dall’UE lo richiedano, b) vi siano significative riduzioni del costo di produzione (e di integrazione nel sistema) di fonti di energia rinnovabile ovvero c) si profili nei prossimi anni un vistoso calo dei consumi lordi di energia all’interno dell’Unione. Come si può agevolmente notare, il metodo usato nella CEP-RED II è una pratica agli antipodi dell’One-size-fits-all sia nei confronti dei singoli SM che del contesto europeo ed internazionale. Agli antipodi anche del precedente modo di fissazione degli obiettivi vincolanti al 2020: basti guardare al caso italiano al 2020 dove si è fissata in maniera top-down (con poca negoziazione) la quota percentuale delle rinnovabili sul consumo complessivo al ben noto 17%, fisso ed immutabile a prescindere dai cali della domanda (che si è verificato a causa della crisi economica) e dai cali dei costi degli impianti rinnovabili (che si è manifestato ed ancora sta progredendo). Innegabile quindi la superiorità del “metodo” di policy del CEP rispetto alle precedenti politiche euro-unitarie sulla materia energia-clima. Un’ultima considerazione particolarmente adatta al caso italiano. Se le nuove policy del CEP, da un lato e quanto al loro metodo, fanno guadagnare in autonomia lo SM in termini di scelte, dall’altro pongono una questione aumentata di credibilità e di trasparenza dello SM nel formulare ed assumere gli impegni di “sforzo-contributo”. Il nostro Paese, che nell’energia ha sempre “vissuto” l’indirizzo politico proveniente da Bruxelles più come obbligo subìto a fare riforme (da soli non le avremmo mai fatte per miopia, inerzia o conservazione dello status quo) che come condivisione dell’indirizzo stesso, assume con il CEP una sfida in più: presentare gli impegni sulle rinnovabili al 2030 nell’ambito di piani integrati energia-clima (secondo il dettato del Regolamento Governance del CEP) intrinsecamente coerenti, trasparenti, motivati ma soprattutto credibili. E su questo punto saremo particolarmente sotto osservazione della Commissione Europea in fase di assessment dei piani e di monitoraggio dei risultati nel corso del decennio.
Il salto di qualità nelle policy pubbliche della RED II traspare anche nella delineazione dei regimi di sostegno (alias incentivi) concessi – con decisione del singolo SM - alle fonti rinnovabili non ancora in grado di ricevere dal solo mercato sufficiente remunerazione a copertura dei costi di investimento e gestione. La RED II opera due scelte generali che io condivido sulla base della mia esperienza maturata sin qui nel campo dell’energia. In primis, viene confermato l’approccio incentivante “selettivo” ed allo stesso tempo “concorrenziale” riservato alle fonti rinnovabili che in tal modo possono spiazzare le fonti fossili (o comunque non-rinnovabili) piuttosto che adottare un modello assai difficile da tarare ed applicare come quello di una forma di carbon tax generalizzata a penalizzare le fonti non ambientalmente sostenibili. La carbon tax, sebbene in teoria abbia notevoli caratteristiche di superiorità – compresa una fortissima neutralità tecnologica - rispetto al metodo incentivante le fonti rinnovabili temporaneamente fuori mercato della RED II, presenta – per ora - irrisolvibili problemi di implementazione quanto alla scelta dell’ambito di applicazione (dovrebbe essere unica a livello europeo ma i problemi di arbitraggio tra SM sarebbero assai numerosi), alla durata temporale (dovrebbe essere di lungo termine quando si conosce bene la propensione dei diversi cicli politici negli SM a favorire settori produttivi nazionali che chiederebbero di attenuare gli effetti della carbon tax per legittime questioni di competitività sui mercati) ed alla sua intensità che se effettivamente “incidente” sul livello iniziale di penalizzazione rischia di indurre crisi aziendali ed occupazionali immediate (vd proposte di eco-bonus sulla mobilità sostenibile nei lavori della legge italiana di bilancio 2019-2021) o più profonde spaccature sociali (vd le rivendicazioni iniziali dei c.d. gilet gialli in Francia).
In secondo luogo, la RED II opera una scelta di campo: sembra riservare la nozione di regime di sostegno a tutti gli incentivi “espliciti”, cioè strumenti, meccanismi trasparenti e contabilizzabili quali quelli volti a ridurre gli extra-costi degli impianti rinnovabili (es. Sostegno diretto agli investimenti o riduzioni/restituzioni fiscali) o quelli tesi ad incrementare i prezzi di vendita dell’energia prodotta da tali fonti (es. Feed-in e feed-in premium) ovvero quelli incentrati sugli obblighi di utilizzo di fonti rinnovabili come percentuale del proprio mix energetico su produttori (es. Certificati verdi), venditori o consumatori (nuovi PPA rinnovabili). Mai nella RED II si fa menzione che detti incentivi (nel caso sarebbero impliciti) debbano provenire da “agevolazioni” di qualunque fatta rispetto ai costi di sistema o di integrazione nel sistema delle fonti rinnovabili medesime. Questa precisa scelta è condivisibile in quanto mirata a non far realizzare nel sistema investimenti inefficienti ab origine, il cui extra-costo ingiustificato sarebbe pagato da tutti I consumatori pregiudicando così la tenuta della competitività (price affordability) dei prezzi dell’energia per cittadini ed imprese che invece è da salvaguardare secondo la quinta dimensione della strategia Energy Union 2015. Ma come questa categorizzazione della RED II dei regimi di sostegno mantiene quell’elevato dosaggio di flessibilità nei confronti i) dei singoli SM e ii) del contesto futuro mutevole? La migliore risposta a tale interrogativo è contenuta nella RED II stessa (comma 4.2) laddove statuisce che detti regimi di sostegno – per l’energia elettrica rinnovabile ad esempio - “preved[a]no erogazione di incentivi…” a condizione che siano finalizzati alla “…integrazione” delle fonti rinnovabili “nel mercato elettrico”, che siano “…basati su sistemi di mercato e che rispondano a segnali di mercato, evitando inutili distorsioni dei mercati dell’energia elettrica e tenendo conto degli eventuali costi di integrazione del sistema e della stabilità della rete.” Ancora: “… detti regimi di sostegno sono disegnati in modo da massimizzare l’integrazione delle fonti rinnovabili nel mercato dell’energia e garantire che i produttori rinnovabili reagiscano ai segnali di prezzo del mercato e massimizzino i loro ricavi sul mercato.” Non mi resta che evidenziare solo il fatto che, pur in assetto di integrazione completa dei mercati nazionali tra loro, esistendo le cosiddette bidding zones nel mercato europeo dell’energia che riflettono il valore “locale” dell’energia elettrica e dei costi per il mantenimento in sicurezza del sistema (es. Sbilanciamenti), l’integrazione delle fonti avverrà con il massimo di flessibilità ed adattabilità alle condizioni di contesto del mercato.
A questo punto mi corre l’obbligo di avvertire il lettore che quanto qui affermato non riguarda in alcun modo l’autoconsumo in situ (anche esteso ad edifici multi-appartamento o multi-blocco abitativo/produttivo) di energia da fonti rinnovabili che, anche secondo la RED II, va promosso secondo specifiche modalità che non ho spazio per affrontare qui. Sia detto solamente che anche le norme della RED II sugli “autoconsumatori da energia rinnovabile individuali o aggregati” sono particolarmente innovative e ragionevoli nei loro effetti incentivanti.
Quanto alla presenza di measure e non solo di principi, il dettato della RED II offre un’ampia varietà di esempi tra cui vi è solo l’imbarazzo della scelta. È certamente di notevole pregio la previsione di fondi europei finalizzati i) alla riduzione dei costi di capitale (componente capacitiva dei progetti rinnovabili), ii) alla realizzazione di progetti di integrazione di fonti rinnovabili nel sistema energetico, ivi compresa la flessibilità aumentata iii) allo sviluppo di infrastrutture di distribuzione e di trasmissione iv) al rafforzamento della cooperazione tra Stati membri e di questi con paesi terzi nelle fonti rinnovabili. La messa a disposizione di fondi europei che possono fare da motore primo ed anche da catalizzatore di altre fonti complementari di finanziamento dei progetti rinnovabili non può passare inosservata. Ma il salto di qualità vero sul piano strumentale che la RED II compie è innegabilmente legato alla “apertura” dei regimi di sostegno inter-SM con l’ausilio della neo-istituita piattaforma per i trasferimenti virtuali (statistical transfer) di quote rinnovabili di uno SM cedente nel conteggio di un altro SM che le acquista ad un prezzo di mercato per conseguire il proprio contributo nazionale ed alla apertura alla partecipazione di altri SM in qualità di “azionisti” in progetti comuni nelle rinnovabili costruite in uno SM diverso con la ripartizione delle quote nei propri conteggi. Di estrema rilevanza, poi, una misura assai innovativa (artt. 11-12) per la realizzazione di progetti rinnovabili in comune UE-Paesi terzi e conseguente importazione nell’Unione dell’energia rinnovabile prodotta, la quale sembra prendere le mosse da un analogo istituto introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano con la legge n.99/2009 (virtual interconnector) e sinora inedito nel panorama UE in cui – mutatis mutandis – si prevede che possano essere contabilizzate da subito in uno SM quote di energia rinnovabile prodotte da un progetto nuovo rinnovabile in un Paese terzo ed ivi consumate nelle more che detta produzione rinnovabile possa essere importata fisicamente in Europa mediante la realizzazione certa di un interconnettore che deve entrare in servizio entro la decade di programmazione (2030 al più tardi); una modalità assai efficace di anticipare I benefici legati alle esternalità positive da nuove rinnovabili promuovendo anche gli investimenti in infrastrutture. Risulta evidente che tali tipi di misure possono avere applicazioni assai estese per Stati membri – come l’Italia - geograficamente protesi verso aree ad alto potenziale di sviluppo di fonti rinnovabili come i Paesi dell’Energy Community (principalmente balcanici) ed ancor più quelli della sponda sud del Mediterraneo.
Ma, come anticipato, non potremmo concludere senza menzionare la rilevante innovazione apportata con l’introduzione della REC quanto a strumentazione legislativa recata dalla RED II.
Una premessa in poche parole s’impone. Ho già avuto occasione in passati interventi di sottolineare che due sono i paradigmi affiancati nella nuova transizione energetica in corso: il paradigma “professionale” in cui le attività nell’offerta e nella consegna dell’energia – anche rinnovabile - ai consumatori finali è svolta da società specializzate che sfruttano anche le economie di scala nel condurre il proprio business e il paradigma “demotico” in cui l’energia viene ad assumere dei connotati fai-da-te unitamente ad un elevato utilizzo delle risorse rinnovabili diffuse sul territorio. Mentre il paradigma professionale è certamente titolato ad intraprendere progetti di rinnovabili in esito a procedure di asta per tecnologia (tendering), a stipula di nuovi contratti di medio-lungo termine con la domanda oggetto di “obbligazioni rinnovabili” (nuovi PPA), insomma grandi iniziative e grandi impianti necessari a soddisfare l’ingente sforzo-contributo nelle rinnovabili che anche l’Italia non mancherà di proporre all’UE, al paradigma demotico sarebbe mancato un istituto per coagulare l’iniziativa di tanti non-professionisti dell’energia in progetti di taglia anche significativa che danno un contributo non trascurabile all’obiettivo nazionale. Questo istituto è rappresentato dalla Renewable Energy Community. Essa si configura – pur potendo non esserlo formalmente - come una sorta di consorzio anche assai numeroso di soci, di base piccoli consumatori finali o autorità locali, che desiderano coalizzare le loro forze nella realizzazione di un progetto rinnovabile a forte esternalità positiva (da qui l’etimo Com-munus a qualificare la ragione sociale di una REC che sviluppa un beneficio comune per i propri soci) che diversamente non potrebbe mai essere sviluppato come iniziativa del paradigma professionale. Sono quindi evidenti i 2 vantaggi sostanziali dello strumento REC. In primis, consente di sfruttare risorse rinnovabili sul territorio che altrimenti sarebbero stranded ovvero insabbiate e mai dispiegabili nel concreto; ciò, in presenza di contributi nazionali così sfidanti in campo rinnovabili, diventa uno strumento fondamentale per raccogliere tutti i volumi possibili delle rinnovabili sul territorio italiano. Da notare come l’ambito della REC non sia necessariamente locale o geograficamente circoscritto in quanto trattasi di una nuova figura commerciale (non fisica e simile all’istituto consortile) che puó ben estendersi a forma di octopus a ricomprendere numerosi punti associati al fine di rendere possibili aggregazioni significative a tutto vantaggio della taglia dei progetti REC e dei relativi investimenti in fonti rinnovabili. Quanto al secondo vantaggio è importante sottolineare come lo strumento REC in un Paese – come l’Italia – ad altissima propensione a negare le autorizzazioni di infrastrutture (anche se ambientalmente “più che sostenibili” come le rinnovabili) o, peggio, al blocco sempre e comunque di opere giá autorizzate, il coinvolgimento attivo e contributivo delle “parti territoriali” parcellizzate (i singoli consumatori che poi sono cittadini e imprese) nei progetti potrebbe fare da acceleratore dei processi di rilascio delle autorizzazioni integrate per le rinnovabili e da neutralizzatore del dissenso locale che si trasforma in blocco. Ancora una volta la norma CEP è al contempo generale, flessibile e concreta quanto a strumenti.
Quanto detto, oltre ad evidenziare la qualità superiore della norma CEP nella formulazione delle policy energia-clima, conduce ad un’altra riflessione altrettanto foriera di consequenzialità. L’Italia con il CEP ha la possibilità di articolare la propria policy in maniera straordinaria, sfruttando tutte le caratteristiche della normativa e di disegno degli strumenti – a partire da quelli delineati nella RED II – a nostro vantaggio e per massimizzare il contributo italiano all’obiettivo collettivo europeo.
Ne saremo capaci?
(5 febbraio 2019)