Authority per l’energia e operatori di mercato: le sfide della conformità e dell’innovazione (di Edoardo Giuseppe Ruscio)
La complessità del mercato energetico, dovuta sia alla presenza di molti attori che compongono la relativa filiera, che al continuo dialettico confronto tra i poli della “regolazione” e della “concorrenza” (mercato libero/mercato vincolato) rappresenta un fattore oggettivo di criticità per l’Authority per l’energia, tenuta a rispondere ai cittadini con servizi sempre più coerenti ai principi del mercato.
Gli scenari “multi-challenges” che un regolatore si trova ad affrontare, soprattutto in un mercato ritenuto “sensibile” come quello elettrico e del gas, sollecitano le dinamiche decisionali a spingersi oltre la capacità di comprendere il mercato, ponendo una riflessione constante su come comunicare ai cittadini e alle aziende le scelte di regolazione.
L’ambito della regolazione, infatti, pur evolvendosi nel corso degli anni grazie anche al coinvolgimento diretto degli stakeholders – c.d. consultazioni –, sembra però ancora mantenere una certa distanza rispetto al linguaggio delle aziende, operanti nel mercato tramite le logiche del business process management, e quello dei cittadini, che sempre più chiedono chiarezza e certezza.
Il business process management è l’insieme degli strumenti gestionali che un’azienda utilizza, combinandoli con la leva dell'information technology, al fine di regolare, ottimizzare e controllare costantemente i processi operativi e le variabili quantitative ripetute su grandi volumi.
La comprensione di tale linguaggio, e soprattutto lo sforzo di omogeneizzazione richiesto dagli attori del mercato, dovrebbe portare i regolatori ad utilizzare appropriati tools, quali schemi di processi raggruppati in cicli aziendali e scanditi in attività umane e informatiche. Inoltre si potrebbero, in tal modo, ad esempio, sviluppare parametri logici, come procedure, standard e indici di conformità su tutti i processi regolati, con la conseguente riduzione degli ambiti di interpretazione discrezionale, producendo, quindi, una maggiore certezza.
Da parte loro, le aziende più strutturate, per far fronte alla complessità delle regole, hanno ormai da tempo intrapreso la strada di consolidare l’attività di controllo dei processi, cercando di far convergere sempre più la qualità del servizio con le logiche della conformità, concetto con il quale si intende la corrispondenza dell’erogazione e gestione dei servizi con quanto prescritto dalla normativa.
Pubblico e privato: diversità di approccio e di linguaggio
Il regolatore tende a presidiare le numerose regole e i vincoli introdotti nei vari atti di regolazione attraverso lo strumento sanzionatorio.
Ora, a tale proposito, non si può non cogliere un crescente disagio degli operatori. Sarebbe un errore minimizzare questo disagio riducendolo a mera e quasi “meccanica” reazione nei confronti di un inasprimento o di una estensione del potere sanzionatorio, perché in questo modo si correrebbe il rischio di sottostimare una questione importante e, probabilmente, finanche nevralgica per l’assetto del mercato luce e gas di questo Paese.
Esiste innanzitutto una ragione “di scala” a spiegare l’impossibilità di ottenere elevati livelli di compliance caricando tutti gli oneri sugli operatori. Le aziende, specialmente quelle meno strutturate, incontrano infatti un limite oggettivo nel budget a propria disposizione per risolvere il problema della conformità.
Questo crea una asimmetria gestionale, severamente distorsiva, tra le aziende più strutturate e quelle meno dotate, che spesso si traduce nel principio: “E’ conforme chi sa interpretare meglio, e chi interpreta meglio solitamente è chi ha maggiori strumenti”.
Tale asimmetria aumenta l’intensità del disagio segnalato. C’è da aggiungere che per le aziende con minori risorse da investire nell’“ermeneutica della regolamentazione” aumenta notevolmente l’esposizione al rischio, perché le potenziali conseguenze del mancato rispetto delle regole vanno ben oltre le sanzioni pecuniarie irrogabili dall’Autorità, implicando anche un rischio reputazionale.
Conviene allora chiedersi: è, quella fin qui descritta, una problematica dalla connotazione esclusivamente tecnico-giuridica o non rimanda piuttosto ad una criticità più ampia, che rischia di logorare o addirittura minare la dialettica regolatore/operatori del mercato?
Se ben interpreto il disagio proveniente dagli operatori, esso sembra additare la radice del problema della conformità nella mancanza di un allineamento, una “collimazione”, tra la realtà dei processi aziendali e la prospettiva del normatore/regolatore.
“Koiné” e co-governance per il settore luce e gas
Le migliori esperienze aziendali nella gestione del rischio della non conformità si basano su una visione separata, introducendo, oltre al rischio fisico e finanziario, anche quello normativo, attraverso l’utilizzo di analisi avanzate volte a valutare e misurare gli errori di conformità. Abbiamo visto, però, che anche queste best practices, da sole, non sono sufficienti a risolvere il problema.
Il punto cruciale è trovare una “koinè”, un “linguaggio comune” per tutti gli attori del settore coinvolti nella dialettica pubblico-privato, effetto di quell’allineamento di prospettiva cui si accennava poc’anzi.
Se le imprese regolamentate, da par loro, dovrebbero monitorare il rulemaking, valutarne in modo proattivo l'applicabilità alle loro offerte e rispettare i limiti imposti dalle regole, la controparte istituzionale, per comprendere appieno le logiche aziendali, sottostanti ogni decisione di regolamentazione, dovrebbe sempre più condividere con gli attori coinvolti la formazione delle nuove regole.
Una soluzione in tale direzione potrebbe essere individuata adottando il paradigma della co-governance, che rappresenta una delle sfide più affascinanti nella ricerca di soluzioni ottimali per il cittadino. Ciò consentirebbe di andare oltre i tavoli di lavoro condivisi, attualmente utilizzati nelle procedure consultive dell’Autorità, per affrontare tematiche complesse in ambienti dedicati esclusivamente alla risoluzione delle varie problematiche in campo.
L’attuazione di una forma di co-governance rappresenterebbe il risultato più tangibile e lo stadio più elevato di un dialogo tra operatori del mercato e regolatore che assumerebbe un valore strategico per tutto il sistema-Paese in considerazione dell’importanza del settore a proposito del quale tale dialogo si attua.
Ritengo possano trovare applicazione anche al caso italiano alcune raccomandazioni che, in una sua pubblicazione del marzo 2016, intitolata “Creating and sustaining an effective strategic dialogue with business”, l’Institute for Government formulava a proposito della situazione britannica:
Strategic dialogue is not a forum for lobbying or ‘fire-fighting’ – this must be made clear. Dialogue works best when focused on a small set of issues and industry commits its own resources to tackling shared challenges. (…)
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engage with a collective industry view on issues that are affecting the industry as a whole, rather than individual companies
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bring together multiple interlocutors that represent different interests and sub-sectors of the industry, with government at the centre linking up different dialogues
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promote ongoing, long-term co-ordination around a set of strategic issues and coherent set of priorities for the industry (…)
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addressing a few select issues at a time and seeing them through to completion rather than trying to address too many issues at once was seen as integral to keeping the dialogue focused and productive.
L’adozione di simili logiche, con una rappresentazione nel luogo meglio deputato del know-how e dei metodi di funzionamento del settore privato utili e necessari allo sviluppo dei servizi, potrebbe senz’altro favorire l’evoluzione della regolamentazione.
Tale modello ben si sposa, tra l’altro, con l’opportunità di riforma dei processi gestionali del settore pubblico e supporta il processo tanto invocato dell’innovazione e della digitalizzazione. In che modo, del resto, se non con un autentico “dialogo strategico”, si potrebbe acquisire il vasto know-how necessario per definire un quadro di regole chiare e con ridotto margine di interpretazione?
Un modello fortemente innovativo per un settore in profonda trasformazione
Perché la proposta di individuare e, se necessario, ideare un nuovo modello, e con una cifra fortemente innovativa, invece di un semplice aggiornamento e adattamento di quello esistente?
Perché già oggi ci si ritrova a dover fronteggiare gli effetti dell’intersezione di due “crisi”; mi riferisco alla combinazione tra crescenti difficoltà nel rapporto regolatore/operatori e la prolungata crisi che coinvolge a livello continentale i settori dell’elettricità e del gas. A tale proposito, l’“Insight in Economics” del National Economic Research Associate dello scorso 11 gennaio non aveva remore a parlare di “an EU gas market in virtual paralysis”. Esattamente un anno prima referto analogo era stato stilato dall’Oxford Institute for Energy Study a proposito dello stato di salute del settore elettrico in Europa nell’OIES Paper intitolato “Electricity markets are broken – can they be fixed?”:
European markets are strained and worrying symptoms are appearing – falling wholesale prices at a time of rising generation costs; early plant closures; financial problems for utilities, which are nonetheless expected to engage in the biggest investment programme in history to meet carbon targets; the frequent occurrence of zero or negative prices; debates over the need for market reforms, in particular the introduction of capacity mechanisms to underpin investment in the plants needed to maintain supply security; complaints from consumers about constantly rising prices; and so on.
(…) these are more than short-term problems and are the product of a structural failure – electricity markets are designed to reflect and optimize the cost structures of the conventional technologies we are familiar with from 20th century electricity systems. They are not suited to the systems we are developing to meet 21st century needs and circumstances, and they do not give effective signals in situations where, as at present, one set of technologies is receiving support from outside the market, while other technologies are expected to remunerate themselves from the market – yet both sets of technologies are operating in the same market. While there is increasing recognition of the problems, there has so far been less debate about the solutions. The debate that has taken place has focused mainly on capacity mechanisms, which, in the view of this paper, address only a small part of the underlying structural difficulties. New thinking is needed and it will take time to develop a consensus on a new approach.
“Landscape of change”
L’ultimo punto che emerge da sopracitato Paper oxfordiano, ossia la necessità di un “nuovo approccio”, viene corroborato dalle evidenze presentate in “Utility in the Future”, l’importante studio elaborato lo scorso anno dal Massachusetts Institute of Technology (col sostegno di un consorzio di 23 player mondiali dell’energia, tra cui EDF, ENEL, Engie, Shell, Iberdola, ecc.) “to serve as a guide for policy makers, regulators, utilities, existing and startup energy companies, and other power-sector stakeholders to better understand the factors that are currently driving change in power systems worldwide.”.
Nel primo paragrafo, significativamente intitolato “Landscape of Change”, all’interno del terzo capitolo dedicato a “Envisioning a Future with Distributed Energy Resources”, a proposito dei cambiamenti prodotti dall’innovazione tecnologica viene spiegato che:
“Though only now beginning, these changes could become commonplace in ten years and could lead to a power system that Thomas Edison would not have recognized”.
Più avanti, in una sottosezione del paragrafo (“3.1.4 The need for further restructuring of the power sector”) si esamina l’impatto che le Distributed Energy Resources (DERs) avranno sull’ecosistema del settore e gli effetti di tale impatto sui vari attori del comparto, regolatore incluso:
“One can expect that high penetration of DERs will be accompanied by the corresponding emergence of new service providers and a diversity of business models to capture the value of distributed resources. However, this is only possible in a power sector with a markedly different industry structure than the current one.
DERs — acting autonomously or via aggregators — will be active participants in the operation of the power system. They will provide a variety of electricity services, which system operators at both the transmission and distribution levels will utilize alongside services provided by centralized resources.
This will demand a much closer integration of the activities of distribution and transmission system operators. Finally, the role of distribution network owners and operators must adapt to a new and more dynamic context in which diverse new business models offer the full suite of electricity services.
Regulators must make sure that the structure and allocation of responsibilities in the power sector is conducive to competition between various types of electricity services providers”.
Obiettivo win-win
Come visto, sono tante e tali le trasformazioni già in atto o all’orizzonte – e si potrebbe aggiungere al vasto elenco l’applicazione alle utilities della tecnologia Blockchain (un database distribuito in cui le transazioni vengono raccolte per blocchi sequenziali, capace di registrare, in maniera intrinsecamente sicura, verificabile e inalterabile, operazioni o contratti tra due o più controparti) – che non dovrebbero esserci più dubbi sulla necessità di un cambiamento di metodo nella governance del settore, per evitare il rischio che, presto o tardi, si ripresenti anche per il mercato dell’elettricità e del gas il triste e avvilente paradosso già manifestatosi in altri ambiti regolamentati di questo Paese: voler adattare l’innovazione al superato quadro legislativo, anziché adeguare quest’ultimo al cambiamento della realtà.
Il modo per scongiurare alla radice tale rischio passa anche dal sempre maggiore coinvolgimento degli operatori privati nel processo decisionale di formazione di nuove regole; ciò per consentire al regolatore di rispondere efficacemente alle esigenze di adeguamento al contesto competitivo ed ai cambiamenti di mercato e, last but not least, alle esigenze dei cittadini- utenti.
E’ altamente improbabile che tra gli strumenti attualmente a nostra disposizione esista un modello pienamente adatto alla strutturazione di questa collaborazione pubblico-privato; notevoli spunti si potrebbero ricavare dallo schema del partenariato pubblico-privato, certo, ma resta comunque ineludibile l’elaborazione ad hoc di una formula innovativa per valorizzare e organizzare la sinergia tra istituzione e impresa in questo particolare ambito.
Il partenariato pubblico-privato, si diceva. A partire dalla sua attuale configurazione nel nostro ordinamento, ma soprattutto in forza dell’adattabilità intrinseca della formula, esso potrebbe fornire indicazioni significative su come raggiungere un obiettivo win-win in un’esperienza di co-governance. Il modello del partenariato ci suggerisce, ad esempio, che finanziamenti ed esperienze privati possono contribuire a modernizzare i modelli manageriali del settore pubblico, senza che ciò comporti la perdita del controllo sull’esecuzione delle attività da parte dei soggetti pubblici. Ci consente anche di intuire come il partner privato, nella relazione di partnership, a fronte della chiarificazione delle regole e delle specifiche tecniche, potrebbe indirizzare le risorse altrimenti impegnate su quel fronte nella realizzazione di servizi qualitativi e trasparenti.
Ma sono solo alcuni spunti. Un percorso di collaborazione pubblico-privato, stabile e duraturo, non è facile da avviare e con quanto detto finora si vuole piuttosto indicare una strada, una direzione, né ad altro potrebbe ambire questo articolo, essendo il suo proprium innanzitutto la ricognizione delle sfide che ci aspettano più che la rassegna esaustiva ed approfondita delle soluzioni disponibili.
“Cantiere big data”
Se il partenariato pubblico-privato ci stimola all’allestimento di un “cantiere aperto” di co-governance, nell’ottica del superamento della “sola” consultazione come oggi la conosciamo, “il cosa” debba essere gestito in una logica di cooperazione tra istituzione e impresa, oltre al processo di rulemaking convenzionalmente inteso, è l’altro aspetto della nostra riflessione.
Quasi tutte le maggiori realtà del nostro Paese – aziende, banche e istituzioni – stanno aprendo, per l’appunto, “cantieri” per capire come sfruttare al meglio Big Data e Analytics technologies.
Si registra una piuttosto diffusa voglia di investire risorse finanziarie e umane nella ricerca di indicatori e analisi che sappiano investigare puntualmente gli ambiti del mercato, soprattutto per trasformare la relazione con il cliente attraverso l’analisi dei dati.
In alcune realtà, tipicamente banche e grandi enti pubblici, il perimetro è più ampio. Come rivela Marco Albertoni, Big Data e Analytics Leader di IBM Italia: “Si tende a costruire un laboratorio di Big Data e Analytics, e a lanciare due o tre iniziative allo stesso tempo in diversi ambiti, misurandone l’evoluzione e i risultati rispetto alle attese, anche in termini di tecnologie usate e approccio organizzativo”.
In tale ottica, lo sforzo nell’utilizzo dei dati e delle informazioni di mercato appare uno degli ambiti di possibile miglioramento dei processi regolatori. Tuttavia l’obiettivo di interpretare il mercato con indicatori, standard riconosciuti e processi misurabili non è decisamente di quelli più agevoli e molto rimane ancora da fare. Infatti, seppur molte delibere contengano numerosi indicatori di mercato con analisi mirate - come i processi della morosità, ad esempio -, risulta assai complesso ad oggi definire indicatori sensibili che possano, ad esempio, aiutare i cittadini a scegliere in modo corretto il miglior fornitore.
A fronte del grande interesse per Big Data e Analytics technologies, un forte freno è rappresentato dalla carenza di competenze: “Sono necessarie professionalità nuove, analisti di business con un background molto statistico-matematico, o specialisti che sappiano ripensare i data warehouse incorporando anche la componente di dati destrutturati”: così il già citato Marco Albertoni.
In questo scenario, si sta assistendo al passaggio dalla Business Intelligence tradizionale, che descrive il fenomeno, ad una advanced analytics che comporta due evoluzioni: la capacità di fare previsioni, basata su pattern analysis e simulazioni, e l’automazione del maggior numero possibile di passaggi del processo decisionale, per accorciare i tempi e reagire quasi in real time, gestendo, per così dire, “manualmente” solo le eccezioni. Queste due capacità dell’advanced analytics oggi vengono raramente sfruttate, grazie a pochi specialisti e competenze statistico-matematiche superiori alla media.
Di fronte alla difficoltà e insieme all’urgenza di applicare estesamente e in modo altamente performante indagini di Big Data e advanced analytics ai mercati di propria competenza, il regolatore pubblico e gli operatori privati potrebbero trovare qui un ulteriore, fondato, motivo per l’ideazione e l’implementazione del modello di co-governance, dal momento che esso assicurerebbe una condivisione finanziaria dello sforzo e l’ancor più fondamentale scambio di processi e di dati. E’ legittimo chiedersi se ci siano oggi all’orizzonte sfide più decisive dell’adeguata capacità di analisi analitica, dal momento che, secondo la massima attribuita a Peter Drucker, “You can’t manage what you don’t measure”.
(12 giugno 2017)