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Smart Speaker: maggiordomo discreto o silenzioso infiltrato? (di Francesco Laschi, Il Merito n. 1/2019)

 

Sono da poco passate le feste e, anche molti dei lettori, avranno trovato sotto l’albero un assistente virtuale.

Proprio nei mesi precedenti al Natale, infatti, il mercato italiano è stato inondato da spot e comunicazioni “markettare” sui nuovi arrivati Google Home e Amazon Echo, conosciuto dai molti come Alexa.

Perché tanto clamore intorno alla nuova tecnologia?

Iniziamo col dire che, come già Siri di Apple e molti chatbot, dietro alle voci dell’assistente si nascondo un avanzato meccanismo di machine learning che permette allo smart speaker di imparare dalle richieste e interazioni dell’utente, memorizzando abitudini quali i programmi preferiti sulla TV in streaming, gli ordini preferiti sulle applicazioni di food delivery o la playlist più ascoltata; può essere inoltre utile per il controllo dei dispositivi smart e collegati in rete (leggi domotica), oltre che a rispondere a veloci domande e quesiti, come risolvere calcoli o togliere curiosità di cultura generale.

Passato l’iniziale entusiasmo degli utilizzatori che “giocano” con le varie skills del “robo maggiordomo”, cosa rimane davvero di tali strumenti?

Secondo il report Voice Assistant Consumer Adoption[1], che analizza il mercato USA, attualmente il più maturo, gli utilizzatori a stelle e strisce sono circa 57,8 milioni[2], in aumento del 18% rispetto all’inizio del 2018. Sicuramente l’aumento dei device controllabili in remoto e senza fili ha incrementato l’utilizzo degli smart assistant, semplici da utilizzare grazie ad immediatezza, buona comprensione ed interpretazione del linguaggio umano, velocità di riposta e, ultimo ma non meno importante, un’importante componente di intrattenimento e leggerezza. Consideriamo poi che gli strumenti, basati su uno speaker, permettono di innalzare l’esperienza multi-tasking del fruitore che può utilizzare le funzionalità dell’assistant mentre si sta occupando di altre azioni quotidiane. Anche da questo si capiscono i maggiori utilizzi emersi dalla ricerca:

voice

 

Le azioni che è possibile effettuare con uno smart speaker sono tantissime e tra le più varie e curiose[3]: impostare una routine per la mattina, abbinare vino al cibo, effettuare donazioni, effettuare una chiamata o utilizzare un personal trainer.

Il vero segreto però, secondo chi scrive, delle tecnologie di assistenza smart risiede nel nuovo modello di interazione macchina utente, fondato sull’intelligenza della macchina (perennemente online) e la capacità di apprendere; la forza, quindi, risiede nel poter umanizzare la macchina e farla sembrare pienamente cosciente, donando al fruitore la possibilità di conversare e ordinare azioni ad uno strumento umanizzato, con cui scherzare, discutere, invitare a fare con risposta immediata, responsi certi ed empirici conditi con parole perspicaci e altamente empatiche. La possibilità che ha lo speaker di raccogliere moli immense di dati e memorizzarli per utilizzarli poi con l’utente e restituire risultati più puntuali e precisi, secondo le abitudini della persona, si traduce, come del resto accade nel rapporto umano e nel sentiero della conoscenza reciproca tra due individui, in interazioni sempre più strette e familiari, coinvolgendo il consumatore in un’esperienza personale e personalizzata.

Certo, siamo lontani dal futuro del film “Lei”, dove il software “Non è solo un sistema operativo, è una coscienza”[4], o da scenari che vedono le macchine concorrere con la mente umana, ma è giusto considerare alcune prime implicazioni riguardanti la privacy che, grazie all’approccio altamente empatico dello strumento, rischia di essere affrontata con leggerezza dall’utente finale.

Uno studio dell’Università del Michigan[5] ha evidenziato come chi usa uno smart speaker rinunci a cuor leggero e volontariamente alla propria privacy, non riflettendo sulle possibili conseguenze di uno strumento in continuo ascolto. I casi di violazione dei diritti sono già molteplici, come il caso della Smart TV di Samsung che può potenzialmente registrare ed inviare a terze parti le conversazioni domestiche[6] o il caso in cui Amazon Echo ha inviato ad un contatto casuale una conversazione privata di una coppia[7].

Quello che va considerato, in conclusione, è che nell’età del nichilismo della privacy[8] avere una “spia” in ascolto costante, seppur vada richiamata con una “parola di risveglio” (per Amazon basta dire “Alexa”, per Google “Hey google”), può rendere inquieti i più prudenti e sensibili al tema; nessuna delle aziende produttrici ha mai negato o confermato la registrazione delle conversazioni private, restando molto vaghe sull’argomento, quello che, secondo sempre chi scrive, riteniamo sicuro e necessario è un’attenta valutazione degli strumenti e uno studio per rendere normato l’utilizzo dei dati raccolti. Detto ciò, non neghiamo un certo entusiasmo nell’utilizzo degli Assistenti Vocali che potrebbero davvero rivoluzionare l’approccio alla tecnologia e la produttività giornaliera di molte persone.

 (5 febbraio 2019)

[1] A cura di Voicebot.ai, RAIN e Pullstring – novembre 2018

[2] Dati a settembre 2018

[3] Per vederne alcune clicca qui

[4] Lei di Spike Jonze. USA 2013.

[5] “Alexa, Are You Listening?: Privacy Perceptions, Concerns and Privacy-seeking Behaviors with Smart Speakers”, novembre 2018. Consultabile qui .

[6] il caso è raccontato qui.

[7] Il caso è raccontato qui.

[8] Consigliamo un bellissimo articolo su TheAtlantic.com consultabile qui

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