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Equo compenso degli avvocati. Tutto cambia per non cambiare nulla (di Vincenzo Mancini)

Cercherò in questo mio breve articolo di svolgere alcune riflessioni su un argomento, l'equo compenso degli avvocati, di cui si è a lungo parlato sul finire dello scorso anno.

È infatti del 4 dicembre u.s. l'approvazione, all'interno del cosiddetto “decreto fiscale”, della disciplina dell' equo compenso dovuto in caso di prestazioni erogate da professionisti (D.L. n. 148/2017 convertito in legge n. 172/2017 che

introduce l’art. 13-bis all'interno della legge professionale forense).

La nuova norma - originariamente concepita solo per gli avvocati ed estesa successivamente a tutti i soggetti che il Job Act qualifica come «lavoratori» -, si preoccupa di fissare un compenso minimo per le prestazioni professionali, in caso di convenzioni stipulate - anche in forma societaria - con le banche, le assicurazioni o con le imprese non rientranti nelle

categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese.

Oltre alle cosiddette p.m.i. sono esclusi dall'ambito di applicazione di tale normativa gli agenti della riscossione, i quali “in ogni caso garantiscono, al momento del conferimento dell’incarico professionale, la pattuizione di compensi adeguati all’importanza dell’opera, tenendo conto dell’eventuale ripetitività delle prestazioni”.

Di fatto, la normativa tende dunque a garantire un «compenso minimo» a tutti i suoi destinatari.

Premessi questi brevi cenni è opportuno adesso cercare di spiegare che cosa s’intenda coll'espressione equo compenso in relazione alle professioni legali.

Partirei da un dato che può apparire scontato ma che, tuttavia, mi pare ci permetta di inquadrare correttamente la problematica.

In uno Stato che si possa definire di diritto, una norma, quale quella sull'equo compenso, si dovrebbe radicare su di un principio di buon senso, prima ancora che giuridico, in virtù del quale il compenso di qualsiasi professionista e, quindi non solo dell'avvocato, debba necessariamente rispondere ad un principio di equità.

La portata di questo principio, specie in un periodo storico quale quello attuale, assume, a detta di molti, un impatto

“rivoluzionario” per due ordini di motivi: in primis, perchè contribuisce ad invertire la tendenza al ribasso a cui purtroppo si assiste da diversi anni in materia di compensi per le prestazioni professionali degli avvocati e, in secondo luogo, poiché per la prima volta è stata approvata una normativa in grado di tutelare l'avvocatura nel suo complesso.

La ratio della norma è di “sanare” uno squilibrio tra avvocati, in modo particolare giovani, e committenti forti che hanno negli ultimi anni progressivamente eroso il livello della remunerazione della prestazione professionale.

Questa battaglia, che non esito a definire di civiltà, non è di natura esclusivamente economica.

Vi saranno, sì, conseguenze economiche favorevoli a vantaggio della classe forense.

Tuttavia la “battaglia” si combatte anche su un altro fronte: mi riferisco al prestigio ed al decoro di una classe,  quella forense, sempre più spesso viene accantonato e messo in un angolo.

Il punto è ristabilire un corretto equilibrio all'interno di un mercato libero, aperto, concorrenziale.

La libera contrattazione è infatti caratterizzata da forti squilibri, oltre che dalla presenza di posizioni dominanti.

In tempi di crisi, come quelli che stiamo vivendo, si assiste, sempre più spesso, all'imposizione da parte dei ccdd. grandi committenti (banche, assicurazioni e grandi imprese) di convenzioni al di sotto di ogni limite “umanamente” tollerabile.

Ma pensa il “povero” avvocato: “mi hanno proposto, sì, un compenso al di sotto del minimo tollerabile, ma in tempi di crisi come questi se non lo accetto io ci saranno comunque altri disposti ad accettarlo, dire di no è inutile”.

Il rischio è però quello di legittimare una prassi diffusa che, oltre ad essere imposta dai cosiddetti poteri forti, appare  palesemente vessatoria.

È proprio su questo fronte che si sono indirizzati gli sforzi del legislatore: nessun grande committente deve avere il potere o quanto meno il riconoscimento di “imbrigliare” e vessare l'avvocato.

L'avvocato, infatti, in armonia con la disciplina consumeristica, può chiedere al giudice di dichiarare nulle le eventuali clausole vessatorie e di adeguare l'entità del compenso qualora non sia proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, senza tuttavia che la nullità travolga l'intera convenzione.

In dettaglio l'equo compenso si applica innanzitutto all’avvocato, a prescindere dalla forma con cui questi eserciti la  professione: individuale, associazione professionale o società di professionisti.

Coperte dal diritto all’equo compenso sono le attività giudiziali e anche quelle stragiudiziali se connesse all’attività  giurisdizionale (si pensi agli arbitrati rituali e alla consulenza stragiudiziale rivolta alla successiva causa).

La disciplina si applica «per quanto compatibile» ai professionisti individuati dal Job Act del lavoro autonomo ossia a  tutte le forme di lavoro intellettuale da svolgere con lavoro proprio e senza vincoli di subordinazione purchè l’attività  non sia svolta in forma imprenditoriale o associata.

Rientrano, quindi, nel campo di azione dell’equo compenso non solo coloro che sono titolari di una partita Iva ma anche

chi ha firmato un contratto di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti co.co.co.).

Proprio in relazione all'equo compenso previsto per i co.co.co il giudice (del lavoro) è investito di un potere, quello di accertare l’equità o meno dello stesso e di rideterminarlo.

Un rafforzamento della tutela prevista per gli avvocati, si è avuto grazie al c.d. emendamento De Girolamo.

Il giudice, infatti, non deve più solo «tenere conto» dei parametri forensi ma rideterminare il compenso in modo «conforme» ai suddetti parametri stabiliti con decreto ministeriale.

Inoltre l'eventuale trattativa tra le parti non verrà considerata elemento utile di per sé ad escludere la vessatorietà, che costituisce un motivo di nullità del contratto, considerata la disparità di forze contrattuali: l’avvocato, quindi, può impugnare anche tutte le clausole eventualmente negoziate e accettate a parte in fase di stipula dell’incarico.

Viene meno, infine, il termine dei 24 mesi, decorrente dalla data di sottoscrizione della convenzione legale, che l’avvocato ha per impugnare la convenzione ritenuta vessatoria (in una o più clausole che rientrino tra quelle elencate nella norma o nel compenso ritenuto inadeguato): l’azione preordinata alla dichiarazione della nullità di una ovvero di più clausole dell’accordo che regola l’incarico professionale, può essere proposta nei limiti dei termini di decadenza e prescrizione ordinaria, poiché il comma 487 della Legge 27 dicembre 2017, n. 205 ha espressamente abrogato il comma

che prevedeva il termine e la decorrenza dello stesso precedentemente indicati.

Cercando di trarre le fila del discorso si può dire che la norma sull’equo compenso – che certamente darà vita, nei prossimi mesi, a molteplici letture e dibattiti dottrinali e giurisprudenziali – fissa comunque un principio importante, seppur limitato al solo rapporto di forza tra grandi clienti e avvocati: si pone difatti al centro della discussione la dignità (e dunque l’equità) del compenso dei liberi professionisti intellettuali e, per quanto di nostro interesse, dell’avvocatura.

Dignità ed equità che devono essere difese in un contesto come quello attuale caratterizzato da una crisi economica dura e duratura, da un elevato numero dei professionisti oberato da obblighi di ogni tipo, con conseguenti ampliamenti dell

responsabilità ad ogni livello.

Ad avviso dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) l'introduzione dell’equo compenso, seppur riferita a determinate categorie di clienti, costituirebbe invece l'ennesima occasione persa dalla politica per dare un segnale di rispetto e di tutela concreta delle libere professioni.

Ciò in contrasto coll’ impegnativo processo di liberalizzazione delle professioni, in atto da oltre un decennio.

Il Garante della concorrenza lamenta dunque una grave restrizione della concorrenza, causata dall'impossibilità per i  professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti, non potendo gli stessi utilizzare il più importante  strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione.

L’effettiva presenza di una concorrenza di prezzo nei servizi professionali, spinta anche al massimo ribasso, non dovrebbe dunque essere intesa come un indice di dequalificazione professionale; al contrario consentirebbe di abbattere le cosiddette rendite di posizione di professionisti già affermati sul mercato non incentivati, ad avviso dell'Autorità, ad erogare una prestazione adeguata, favorendo, al contrario, i colleghi più giovani, in grado all'inizio della loro carriere di offrire un prezzo più basso.

A tal proposito cito, testualmente, la nota AS1452 AGCM 24.11.17 - MISURE CONTENUTE NEL TESTO DI

CONVERSIONE DEL DECRETO LEGGE 148/2017 (DECRETO FISCALE): “Sarebbero proprio i cosiddetti  new comer ad essere pregiudicati dalla reintroduzione delle tariffe minime in quanto vedrebbero drasticamentecompromesse le opportunità di farsi conoscere sul mercato e, in definitiva, di competere con i colleghi affermati che dispongono di maggiori risorse per l’acquisizione di clientela, anche di particolare rilievo. Pertanto, la reintroduzione di prezzi minimi cui si perverrebbe attraverso la previsione ex lege del principio dell’equo compenso finirebbe per limitare confronti concorrenziali tra gli appartenenti alla medesima categoria, piuttosto che tutelare interessi della collettività.”.

La preoccupazione, più che legittima, espressa dall’AGCM poggia sul sillogismo cartesiano secondo il quale una sana concorrenza gioverebbe a tutti, anche ai nuovi giovani avvocati.

Tutto giusto, se non vi fossero negoziazioni oltremodo squilibrate e, soprattutto, se il mercato davvero già oggi funzionasse.

Ma in un “mercato” nel quale gli avvocati arrivano ad offrire consulenze e assistenze giudiziali a prezzi stracciati, come in un triste discount, il rischio più reale e realistico che si corre è quello di non fare crescere da un punto di vista qualitativo i giovani avvocati e, anzi, forse, di non far crescere e nascere più giovani avvocati.


(16 aprile 2018)

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