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La tutela giurisdizionale del diritti d’autore contro le violazioni on line: tendenze giurisprudenziali e prassi

(di Luigi Manna)

 

Secondo la vulgata degli ultimi quindici anni, il diritto d’autore, nella sua forma classica di diritto esclusivo consistente nel potere di vietare erga omnes la riproduzione o altre utilizzazioni dell’opera, sarebbe, almeno per ciò che concerne le forme di utilizzazione on-line, un relitto di altre epoche; un morto che non sa d’esserlo. L’avvento dell’economia digitale avrebbe infatti reso la creazione di copie e la loro diffusione capillare attività alla portata di tutti e, quindi, perciò stesso da liberalizzare. Detto in altre parole, poiché è facile riprodurre e diffondere senza autorizzazione dei titolari del diritto, è inutile proibirlo.

L’idea che il dover essere si conformi all’essere è tutt’altro che scandalosa; in fondo, il diritto è sempre il risultato della tensione tra questi due poli. Trovo, però, che questa posizione sia almeno in parte miope. Ciò che sfugge a molti è il rovescio della medaglia: la stessa tecnologia, che rende agevole riprodurre e diffondere copie non autorizzate di un’opera, ha reso straordinariamente facile l’auto-produzione di opere e la loro diffusione presso il grande pubblico. è il trionfo dell’user generated content, delle star di YouTube, dei blogger milionari. Siamo tutti potenziali autori di successo. Ed infatti, se la mia esperienza pratica mi ha insegnato qualcosa, è che il diritto d’autore che opprime conoscenza e sviluppo è sempre quello degli altri: anche il re dei nerd si scopre geloso dei propri diritti, quando si ritrova tra le mani un’idea diventata opera di successo.

Né andrebbe sottovalutato il peso dell’industria culturale nella nostra economia, e, quindi, l’importanza di proteggerla: secondo il recente studio di Ernst & Young, “Italia Creativa”, l’industria della cultura e della creatività in Italia ha generato, nel 2014, un valore economico complessivo di 46,8 miliardi di euro, ha dato occupazione a quasi un milione di persone e vale il 2,9% del PIL a livello complessivo (www.italiacreativa.eu/dati-in-sintesi).

Quale che sia la propria posizione sull’argomento, lo stato dell’arte, in Italia, è che il diritto d’autore è ancora protetto sul piano sostanziale come un diritto esclusivo ed è, pertanto, ancora oggetto di tutela giudiziaria civile, amministrativa e penale, offline ed online. Quest’affermazione non è smentita dal recente successo delle licenze Creative Commons, che a ben vedere confermano il paradigma classico del diritto d’autore: il titolare dei diritti ha la potestà di determinare i modi di utilizzazione e circolazione della propria opera (potestà che comprende anche quella di farne, per così dire, dono al mondo, se ciò corrisponde a un suo interesse o a una sua personale visione della funzione dell’opera d’ingegno).

La tutela civilistica contro le violazioni di diritti d’autore in rete, cui principalmente è dedicato questo scritto, è resa complessa da tre ordini di ragioni(1): 1) la protezione della riservatezza delle comunicazioni elettroniche, cui l’ordinamento attribuisce un peso relativo superiore a quello della tutela dei diritti d’autore; 2) le ampie esenzioni da responsabilità di cui godono i c.d. intermediari - fornitori di accesso alla rete, di servizi di caching e di hosting - rispetto agli illeciti posti in essere dagli utenti a mezzo dei loro servizi, per effetto del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 (le cui previsioni si danno qui per note); 3) le questioni di giurisdizione e di enforcement all’estero dei provvedimenti giudiziari, che sono un riflesso dell’a-territorialità della rete.

È appena il caso di rilevare lo stretto legame tra questi tre elementi. Quando l’illecito è, per così dire, di tipo lineare, ad esempio l’upload di contenuti illeciti su un sito da parte del titolare del sito stesso, content provider stabilito in Italia (un soggetto quindi, che per il fatto di essere il diretto responsabile dell’illecito non gode di esenzioni di sorta, che è facilmente identificabile e rispetto al quale non si pongono questioni di giurisdizione o enforcement dei provvedimenti giudiziari) nulla quaestio: le difficoltà del titolare dei diritti sono quelle di qualsiasi attore. Se però la violazione consiste, ad esempio, nella messa a disposizione di file mediante tecnologia di tipo “torrent”, ovvero il trasgressore è stabilito in qualche remoto Paese estero o ospita i propri contenuti su un server estero, anche solo individuarlo può diventare impossibile; e, anche una volta individuatolo, determinare quali corti abbiano la giurisdizione o comunque riuscire a eseguire un provvedimento nei confronti del convenuto può diventare un rompicapo giuridico.

È quindi da sempre una naturale tendenza dei titolari di diritti violati volgere l’attenzione verso gli ISP, i fornitori di servizi in rete (connettività, caching e hosting), cioè in ultima analisi dei veicoli dell’illecito online, per questioni di visibilità, da un lato, e di prossimità all’illecito stesso dall’altro. Ne discende che larga parte del dibattito dottrinale e giurisprudenziale in tema di tutela di diritti d’autore in rete riguarda l’interpretazione dei limiti di responsabilità dei fornitori di servizi (sebbene, per la verità, questi limiti riguardino tutti gli illeciti extracontrattuali: ed infatti in materia di diritto d’autore si prendono spesso in prestito, mutatis mutandis, principi stabiliti ad esempio in materia di marchio).

Nel 2011, con due decisioni quasi contemporanee (2), la Corte di giustizia europea (CGUE) e la Sezione specializzata in materia di proprietà intellettuale – oggi “in materia di imprese” – del Tribunale di Milano giunsero a conclusioni molto simili sui limiti dell’esonero da responsabilità di un hosting provider per contenuti illeciti resi disponibili da terzi mediante i suoi servizi, nel senso di concludere che l’esonero non possa essere invocato se il fornitore perde la sua posizione di “neutralità” rispetto a quei contenuti, finendo per svolgere un ruolo attivo. Nel caso deciso dalla CGUE, il provider in questione, eBay, aveva abdicato alla propria posizione di neutralità rispetto ad offerte in vendita di prodotti contraffatti sulla propria piattaforma, ottimizzandone la presentazione e promuovendole. Nel caso milanese, Yahoo! – i cui utenti avevano caricato sul suo portale abusive videoriproduzioni di trasmissioni di RTI – aveva svolto, secondo il Tribunale, un ruolo “attivo” inserendo inserzioni pubblicitarie correlate a tali contenuti, offrendo link intelligenti a contenuti simili ed avendo predisposto termini e condizioni che le conferivano ampi diritti sugli stessi. La sentenza milanese sarebbe stata poi ribaltata in secondo grado, con una decisione della Corte d’Appello di Milano molto criticata in dottrina.

RTI e Yahoo! a distanza di pochi anni si sarebbero scontrate di nuovo innanzi allo stesso Tribunale, ancora una volta in merito a riproduzioni video non autorizzate di trasmissioni della prima, ma, questa volta, non già “ospitate” dalla seconda, bensì semplicemente indicizzate dal suo motore di ricerca. Il Tribunale in quell’occasione rilevò che il servizio di motore di ricerca fosse riconducibile non già al paradigma dell’attività di hosting, ma a quella di caching, contrassegnata dall’intrinseca “neutralità” e passività rispetto alle informazioni trattate, e che tale posizione di neutralità non fosse intaccata neppure dalle funzioni di embedding dei video o di auto-completamento della ricerca (suggest search) che il motore di ricerca offriva: strumenti, questi, che ottimizzano il servizio di ricerca, ma che, di per sé, non alterano la condizione di neutralità del prestatore di servizio rispetto all’informazione fornita.

Ad ogni modo in diritto d’autore, come in generale nella proprietà intellettuale, la tutela civile è affidata in larga parte ai provvedimenti cautelari, in primis, quando si tratta di violazioni online, all’inibitoria ante causam, spesso assistita da una sanzione pecuniaria per l’eventuale inottemperanza (c.d. misura coercitiva indiretta). L’inibitoria offre, infatti, tutti i vantaggi della tutela sommaria (rapidità del procedimento, possibilità di ottenimento inaudita altera parte) e al contempo, trattandosi di provvedimento di natura anticipatoria, è tendenzialmente stabile, non richiede, cioè, l’avvio in un termine perentorio di un giudizio di merito per conservare la propria efficacia: un considerevole vantaggio per quei titolari di diritti che, per difficoltà di prova del danno o di esecuzione di un’eventuale condanna al risarcimento nei confronti del trasgressore, guardano al giudizio risarcitorio come una spesa che non vale l’impresa, una volta ottenuta la cessazione del comportamento illecito. Da ultimo, l’inibitoria non richiede l’accertamento, neppure sommario, della responsabilità civile del suo destinatario: essa è concessa nei confronti del soggetto che materialmente ponga in essere o contribuisca all’illecito, allo scopo di impedirne la continuazione o ripetizione, ed a prescindere da qualsiasi responsabilità per i danni o indagine dell’elemento soggettivo. Anche un provider che goda di esonero da responsabilità grazie alle norme più volte sopra citate, insomma, può essere il destinatario di un’inibitoria, qualora i suoi servizi costituiscano lo strumento materiale di commissione dell’illecito; ed è proprio quest’ultima possibilità che consente spesso ai titolari dei diritti di aggirare gli ostacoli connessi alla difficoltà di individuazione dei diretti responsabili e/o a problemi di giurisdizione o riconoscimento di provvedimenti giudiziari all’estero (ad esempio, chiedendo ed ottenendo un ordine contro tutti i fornitori di connettività nazionali di disabilitare l’accesso a un sito straniero che pubblica contenuti illeciti).

In questo ambito, i nodi principali della discussione riguardano la ricerca del contemperamento tra l’esigenza di impedire la prosecuzione o ripetizione degli illeciti e i diritti dei soggetti che subiscono gli effetti indiretti dei provvedimenti inibitori formalmente adottati nei confronti dei fornitori di servizi (e che costituiscono tuttavia il vero bersaglio delle azioni cautelari), ovvero gli interessi degli stessi intermediari, cui non possono essere imposti onerosi doveri di filtraggio o monitoraggio. Ad esempio, disabilitare del tutto, mediante ordine nei confronti dei fornitori di connettività, l’accesso ad un sito che ospiti contenuti solo in parte illegittimi può risultare un provvedimento eccessivo e sproporzionato negli effetti compressivi della libertà di espressione e comunicazione rispetto agli obiettivi che si prefigge.

Sul tema si è espresso di recente il Tribunale di Torino, Sezione specializzata in materia di impresa, in un procedimento cautelare che vedeva contrapposta Delta TV Programs s.r.l. a YouTube LLC (R.G. n. 38113/2013). Delta TV lamentava in sostanza che sul portale YouTube fossero presenti e liberamente visibili dagli utenti episodi di telenovelas su cui essa deteneva  diritti esclusivi, e chiedeva quindi al giudice che YouTube fosse inibita dal trasmetterli, con fissazione di penale per l’eventuale inottemperanza. YouTube, dal canto suo, si difendeva tra l’altro rilevando di non avere alcun obbligo di sorveglianza preventiva sui contenuti caricati dagli utenti, e di aver comunque prontamente rimosso i contenuti contestati non appena ricevuto l’elenco delle relative URL. Il Tribunale, preso atto dell’intervenuta rimozione dei contenuti contestati subito dopo l’inizio del procedimento, ha concluso in favore di YouTube, rigettando il ricorso di Delta TV anche con riferimento alla possibilità di concedere un’inibitoria per il futuro (ordinando al provider di astenersi dal diffondere ulteriori contenuti illeciti che dovessero essere successivamente caricati dagli utenti). Secondo il Tribunale, da un lato, un simile provvedimento confliggerebbe con il principio dell’assenza di un obbligo di controllo preventivo dei contenuti in capo all’ISP; dall’altro, YouTube ha predisposto una procedura (il c.d. “Content Id”) a cui il titolare dei diritti può aderire “mediante la trasmissione dell’opera da tutelare da cui trarre i c.d. reference files, idonea ad intercettare preventivamente il caricamento di files violativi del diritto d’autore”. Ciò, afferma il Tribunale, “appare allo stato un ragionevole punto di equilibrio circa le contrapposte esigenze qui apparentemente confliggenti (da un lato, la posizione soggettiva del titolare di un diritto d’autore o di sfruttamento economico dell’opera, dall’altro lato, l’esigenza di non limitare lo sviluppo dei servizi internet in discorso che, evidentemente, presuppongono un meccanismo di automazione, il quale, a sua volta, necessita per il suo governo e controllo, anche a posteriori, dell’uso di specifici e particolari protocolli e modalità di intervento)”.

Sul piano del diritto comunitario, nella causa C-484-14 McFadden, nel marzo di quest’anno, l’Avvocato Generale presso la CGUE, rassegnando le proprie conclusioni, ha affermato che un professionista che, nell'esercizio della propria professione, offra pubblicamente servizi di accesso gratuito a Internet via Wi-Fi non protetti da password possa ben essere destinatario di provvedimenti inibitori che gli impongano di rimuovere o prevenire violazioni commesse dagli utenti a mezzo di quei servizi; tali provvedimenti tuttavia devono essere proporzionati, ed a tale riguardo, a parere dell'Avvocato Generale, un ordine di inibitoria che, ad esempio, imponga al fornitore di connettività Wi-Fi l'esame di ogni comunicazione compiuta dagli utenti attraverso il suo network non sarebbe legittimo, dal momento che costituirebbe espressione di un non corretto bilanciamento tra la tutela del diritto d'autore da un lato e, dall’altro, la libertà d’impresa dell’intermediario e il diritto alla libera espressione e comunicazione degli utenti. Una decisione della CGUE è attesa a breve.

Le considerazioni sopra svolte circa la particolare efficacia di provvedimenti di carattere inibitorio contro gli intermediari di servizi valgono in parte anche per l’ulteriore, discussa, arma messa recentemente a disposizione dei titolari di diritti d’autore contro le violazioni in rete, quella dell’enforcement amministrativo a mezzo dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM): uno strumento caratterizzato, rispetto al procedimento civile, da una maggior snellezza delle forme e da un risparmio di costi, dunque specialmente utile per i soggetti che subiscono quotidianamente violazioni massive (ad esempio l’industria cinematografica, videoludica e musicale).

Ai sensi del controverso Regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica, adottato dall’AGCOM con delibera n. 680/13/CONS del 12 dicembre 2013, il titolare del diritto d’autore asseritamente violato può segnalare all’AGCOM stessa la violazione, affinché questa ordini all'eventuale hosting provider stabilito in Italia la tempestiva rimozione dalla rete dei contenuti illeciti, ovvero, nel caso in cui i contenuti in questione siano presenti all’interno di siti ospitati su server esteri, ordini ai fornitori d’accesso italiani il blocco dell’accesso dall’Italia alle pagine web presso cui sono presenti quei contenuti. Com’è noto, il Regolamento in questione è ora all’esame del T.A.R. del Lazio e non è dato sapere se sopravvivrà a questo scrutinio. Ad ogni modo, ad oggi, l’Autorità ha dato avvio, su segnalazione di aventi diritto, a circa quattrocentosettanta procedure, di cui centonovanta si sono concluse con un provvedimento inibitorio e circa centocinquanta con un adempimento spontaneo: una buona percentuale di successo, quindi, superiore al settanta per cento.

Senza alcuna pretesa di esaustività, è opportuno fare un cenno anche alla tutela processual-penalistica, per porre l’attenzione sull’ulteriore possibile strumento di tutela costituito dalla misura del sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p., che si concretizza nella coattiva rimozione dei, ovvero il blocco dell’accesso ai, contenuti illeciti, su richiesta del pubblico ministero, con convalida del giudice per le indagini preliminari. L’applicabilità di tale misura - che di per sé avrebbe natura reale - anche a siti web è stata infatti oggetto di recente conferma nella decisione n. 31022 del 29 gennaio 2015 con cui le Sezioni unite penali della Cassazione hanno stabilito che, ove ne ricorrano i presupposti, “è ammissibile, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. di un sito web o di una singola pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei relativi servizi di attivarsi per rendere inaccessibile il sito o la specifica risorsa telematica incriminata”, in quanto, in estrema sintesi, nel caso di un sito web o di parte di esso, detto sequestro non può ritenersi limitato alla sola sottrazione in senso fisico della “cosa” oggetto di reato, ma piuttosto “deve concretizzarsi, tenuto conto della peculiare realtà nella quale va ad incidere, in una vera e propria inibitoria rivolta al fornitore di connettività, che deve impedire agli utenti l'accesso al sito o alla singola pagina web incriminati ovvero rimuovere il file che viene in rilievo”.

Già nel 2009, peraltro, la terza Sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 49437 del 23 dicembre 2009, aveva riconosciuto la legittimità di un provvedimento di sequestro preventivo con cui il giudice per le indagini preliminari aveva imposto ad un service provider italiano di bloccare l’accesso dall’Italia ad un sito avente server all’estero, attraverso il quale i relativi utenti avevano posto in essere numerose violazioni di diritti d’autore altrui. Nella fattispecie si trattava del celebre sito Pirate Bay, una piattaforma che permetteva la massiva condivisione peer-to-peer tra i propri utenti di contenuti (musicali, cinematografici, videoludici etc.) in violazione dei diritti d’autore altrui sugli stessi. La Suprema Corte aveva anche stabilito che Pirate Bay non potesse avvalersi dell’esenzione di responsabilità prevista per gli ISP, in quanto, lungi dall’essere provider neutrale ed estraneo alle condotte illecite poste in essere dai propri utenti, si era occupato direttamente dell’indicizzazione dei contenuti illeciti in questione, in tal modo concorrendo alle violazioni dei diritti d’autore da quelli commesse. Sulla base di tali motivazioni, la Cassazione aveva quindi disposto l’annullamento dell’ordinanza con cui il Tribunale per il riesame aveva revocato il provvedimento di sequestro in precedenza emesso dal giudice per le indagini preliminari, che aveva imposto al fornitore di connettività italiano interessato il blocco dell’accesso al portale Pirate Bay da parte degli utenti italiani.

La sensazione di chi scrive è che, a distanza di ormai diversi anni dalle più importanti riforme in materia di diritto d’autore, sostanziale e processuale (il riferimento è alla Direttiva 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione, e alla Direttiva 2004/48/CE c.d. “Enforcement”, e, per l’Italia, alla corrispondente normativa d’attuazione) il terreno della tutela giurisdizionale si sia ormai consolidato. Novità, se ce ne saranno, verranno dalla Digital Single Market Strategy lanciata dalla Commissione Europea (http://ec.europa.eu/priorities/digital-single-market_it) circa un anno fa e che, dopo una serie di consultazioni pubbliche, dovrebbe dar luogo, a breve, a una Comunicazione della Commissione. Di qui  sarà possibile intravedere  in nuce le prossime riforme, anche in tema di responsabilità degli Internet Service Provider.

   (4 maggio 2016)

  1. E’ invece un elemento senz’altro positivo per i titolari dei diritti che in Italia ormai da oltre dieci anni di queste materie si occupino giudici specializzati: quelli delle ex Sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale, oggi Sezioni specializzati in materia di imprese.
  2. Rispettivamente causa C-324/09,L'Oréal e a., e Trib. Milano, Sezione spec. in materia di proprietà intellettuale, 09 settembre 2011, n. 10893 RTI c. Yahoo.

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