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Merito e certezza

 in margine alla vicenda dei debiti della pubblica amministrazione

(di Simone Lucattini)

I primi contributi pubblicati da “Il Merito” invocano, tutti, certezza delle regole: certezza necessaria per pianificare scelte di vita e investimenti; certezza come presupposto di ogni razionale programmazione economica; certezza indispensabile per attrarre investimenti dall’estero e creare sviluppo. Il tema è stato affrontato dal punto di vista storico (Cossa), mettendo in guardia dall’eccessiva creatività giurisprudenziale (Bertonazzi), parlando di giustizia amministrativa (Freni) o di debiti della pubblica amministrazione (Johnson Scandola).

L’intenzione – lo dico subito – non era uscire con un “primo numero” sulla certezza. Eppure i nostri primi Autori ci hanno voluto dire, ognuno a modo suo, che regole del gioco chiare, certe e stabili sono una pre-condizione affinché il merito possa emergere. Altrimenti vince sempre chi è più bravo ad avvicinare il potere, intento a confezionare l’ultima regola. E’ uno dei tanti modi in cui la conoscenza (di qualcuno) vince sulla Conoscenza, fatta di studio, fatica, creatività.

Un “primo numero” (preterintenzionale), insomma, dove si invoca certezza e si sottopone a dura critica l’esistente.  In pratica, non basta intitolare decreti legge, che si succedono uno dopo l’altro, al “crescere”, al fare”, allo “sbloccare”, se poi questa immensa massa normativa continua ad essere indecifrabile e contraddittoria (sul punto già ampia letteratura). Non basta invocare la semplificazione (duro, certosino lavoro). Non basta annunciare lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione (un dramma nazionale). Non si riducono così incertezza e sfiducia nel sistema-Italia, anzi.

Bene (anzi male), ma vengo al punto: i debiti della pubblica amministrazione, i suoi privilegi, gli effetti devastanti per l’attrattività del sistema-Italia. Lo Stato-più esoso tassatore d’Europa che, in cambio, non offre servizi esattamente “scandinavi”, si permette anche il lusso di non pagare i cittadini-creditori. Così facendo lo Stato mina alla base la fiducia nel sistema. Lo fanno anche certe banche, è cronaca di questi giorni, e le loro responsabilità andranno attentamente accertate. Ma se lo Stato non paga i propri debiti non è che un “singolare malfattore legale” (Giannini). Legale perché i suoi privilegi, i regimi di deroga, sono ammessi dalla legge e appena scalfiti dalla giurisprudenza.  

Davvero esemplare, il caso dei pagamenti dell’amministrazione. Ci sbatte davanti agli occhi i costi dell’incertezza, antitetica al merito, e una politica industriale condizionata da una perenne emergenza, antitetica ad una razionale programmazione economica.

Cominciamo dai costi dell’incertezza. Titola Banca d’Italia un suo recente studio: “I debiti commerciali delle amministrazioni pubbliche italiane: un problema ancora irrisolto”. Ecco, il problema è ancora “irrisolto”. In soldoni: sono 61 i miliardi che la nostra pubblica amministrazione (peggiore pagatrice d’Europa) deve alle imprese fornitrici. Ci fa sapere, la Banca d’Italia, che “l’incertezza sui tempi di pagamento rischia di allontanare le imprese migliori”. Merito e certezza, appunto: i migliori – senza certezze – se ne vanno. Ma non sono solo i più bravi a rimetterci. I costi dell’incertezza si spalmano sull’intero sistema. Una minore incertezza sui flussi di liquidità potrebbe infatti ridurre i fallimenti d’impresa o consentire di rimborsare i prestiti ottenuti dal sistema bancario, producendo una diminuzione dei tassi di interesse. A sua volta, una maggiore disponibilità di liquidità potrebbe, da un lato, rendere più efficiente la pianificazione finanziaria delle imprese, consentendo scelte di investimento sicure e razionali; dall’altro, accelerare la realizzazione di nuovi progetti, limitando il rischio di perdere, nel frattempo, possibili finanziamenti bancari.

In tempi di stentata ripresa, una amministrazione-cattiva pagatrice pregiudica e scoraggia le imprese, specie quelle di piccole e medie dimensioni che più difficilmente riescono a far fronte agli ammanchi di cassa dovuti ai ritardati pagamenti, anche perché, solitamente, incontrano maggiore difficoltà di accesso al credito bancario. Davvero perfetto per il sistema italiano di cui le PMI costituiscono storica ossatura. Risultato: i privilegi legalizzati dello Stato finiscono non solo per rendere meno attrattivo il nostro Paese per investimenti esteri, ma anche per rendere meno competitive le imprese italiane rispetto ai competitors europei e globali.

Ma che c’entra con tutto questo la politica industriale? Si dirà, i ritardi nei pagamenti sono una patologia, mentre la politica industriale è progetto, linearità, un insieme selezionato e coordinato di interventi, così  insegna la letteratura economica. E invece c’entra, eccome.

Il decreto legge n. 35 del 2013 (disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione), mette in correlazione il pagamento dei debiti statali con il “sostegno dell’economia reale e del sistema produttivo” (articolo 6, comma 1-bis). Giusto, l’adempimento dei debiti della P.A. immette nel sistema consistenti volumi di liquidità suscettibili di dare impulso all’economia, svolgendo così una funzione di incentivazione e sostegno della domanda interna (che, con consumi in resistibile ascesa, male di certo non fa). Ma l’entità dei debiti e la cronica scarsità di risorse rendono finanziariamente impossibile per lo Stato pagare subito tutti i creditori, costringendo a scegliere il tipo di debiti da saldare in via prioritaria (quelli del settore edilizio, ad esempio). Effetto: il pagamento di certi debiti, e non di altri, alloca flussi finanziari a favore di alcune categorie di imprese, mentre le altre aspettano …. Il punto è che simili interventi di sostegno, o di incentivo, avvengono al di fuori di ogni razionale e ponderata programmazione economica. Elevato è pertanto il rischio di non raggiungere l’efficienza allocativa. Ogni sostegno dell’attività economica, in un mondo possibile (per le imprese), dovrebbe infatti perseguire finalità concrete, chiaramente individuate a monte. Invece, i (tardivi) pagamenti dello Stato avvengono senza alcuna programmazione, né collegamento tra esborso pubblico e realizzazione di obiettivi d’interesse generale. Non si può dunque parlare di misure di politica economica in senso tradizionale, né di una regolazione per incentivi che presuppone, sempre, un rapporto tra strumenti d’incentivazione e fini perseguiti. Si è in presenza, piuttosto, di effetti di tipo macroeconomico che, per lo più, sfuggono, ad una consapevole attività di programmazione o ad un compiuto disegno regolatorio. Ed è quasi naturale che sia così, poiché all’origine non v’è un coordinamento verso un obiettivo, bensì una inefficienza del sistema (lo Stato cattivo pagatore) e una legislazione emergenziale (il decreto legge n. 35/2013), nata per far fronte ad una situazione divenuta ormai insostenibile. Uno dei tanti casi in cui, nel nostro Paese, l’emergenza oscura ogni opzione strategica, ogni prospettiva di medio-lungo periodo.

Certezza e prevedibilità latitano, drammaticamente, in questa e in tante altre vicende. Difficile, in questo quadro, che il merito si affermi o possa anche soltanto resistere. Nessuno pretende certezza assoluta (impossibile), ma più di 21 mila leggi statali, 30 mila leggi regionali, 70 mila regolamenti, 35 mila fattispecie di reato (sicché si può delinquere senza neppure immaginarlo), 63 mila norme di deroga, francamente bastano: il costo è incalcolabile, l’effetto depressivo sugli investimenti immenso.

Ma sono sempre le “solite” doglianze … e allora qualche proposta, facendo tesoro degli insegnamenti tratti dalla vicenda dei debiti della P.A.: 1) specialità della pubblica amministrazione non può significare privilegio, quindi ridurre drasticamente regimi e interpretazioni pro-amministrazione, soprattutto in fase di esecuzione forzata (quando cioè il giudice ha già condannato la P.A. a pagare e questa si ostina a non pagare); 2) introdurre, come negli Stati Uniti, un commissario alla regolazione che sovraintenda, con poteri effettivi, alla produzione normativa (magari potrebbe servire anche a razionalizzare le mille deroghe a favore dello Stato debitore); 3) pensare una politica industriale che non guardi sempre alla prossima emergenza o scadenza elettorale … no, scusate, ritiro la terza proposta. Generica, e poi questo davvero è chiedere troppo. 

 (15 dicembre 2015)

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