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ISSN 2532-8913

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La separazione tra banche d’affari e banche commerciali tra ipotesi nazionale e realtà delle scelte sovranazionali. (Parte Terza) (di Michele Cossa)

*Le opinioni espresse non rappresentano né impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza: Banca d’Italia.

 

Nel mio precedente intervento su questa Rivista - La separazione tra banche d’affari e banche commerciali tra ipotesi nazionale e realtà delle scelte sovranazionali (Parte Seconda) -, si è dato conto dei tentativi di riforma maturati in prossimità della crisi economica, del 2008, sia negli ordinamenti dei singoli Stati, sia, almeno al grado embrionale di proposta normativa, a livello sovranazionale, con la proposta UE di Regolamento BSR.

Anche in Italia – ed è questo l’oggetto del presente, conclusivo, intervento - l’ampio dibattito innescato dalle virulente conseguenze della crisi nel settore bancario ha lambito il tema della separazione strutturale tra le banche commerciali e le banche d’affari.

Invero, al di là dei vari interventi emergenziali relativi a singoli intermediari investiti dalla turbolenza in modo severo, tanto da risultarne espulsi dal mercato, lo sforzo riformatore si è concentrato principalmente nel recepimento delle copernicane modifiche intervenute a livello europeo, sia su aspetti sostanziali, che soprattutto, su quelli istituzionali, concernenti la creazione della (non ancora perfezionata) Unione Bancaria, e l’introduzione di un nuovo assetto di vigilanza che trova ora il proprio baricentro nella sede unica europea.

La disciplina unionale sostanziale, come detto nella precedente parte di questo scritto, non si è preoccupata di recuperare direttamente una norma analoga a quella sancita dalla Volcker Rule statunitense. Invero, anzi, le principali fonti di disciplina introdotte, ovvero il Regolamento CRR e la Direttiva CRD IV[1], proseguono un percorso già avviato dai precedenti atti normativi, mediante una direttrice di maggiore uniformità ed armonizzazione (in questo senso dovendosi leggere la novità assoluta dello strumento del regolamento per gran parte della disciplina più puntuale), contestualmente sottraendo spazio alle discrezionalità nazionali. Tuttavia, non muta lo spirito della regolamentazione, che continua a rifuggire interventi strutturali ex ante e punta, piuttosto che a conformare il mercato, ad assecondarlo, correggendolo ab intra solo ove lo reputi necessario ai fini del bene primario della stabilità. Il modello è dunque quello “prudenziale”, sommariamente descritto nella prima parte di questo scritto, che rinuncia in via di principio a divieti preventivi e riconosce nell’autonomia imprenditoriale degli intermediari un valore di per sé, che va compresso solo ove necessario.

Non di meno, come descritto, la Commissione Liikanen aveva suggerito anche in sede europea un ripensamento del modello di banca “universale”, in grado cioè di assommare ogni attività bancaria e finanziaria ritenuta coerente al proprio programma imprenditoriale. La proposta di Regolamento che ne era scaturita, analizzata nel precedente intervento, ha da subito incontrato rilevanti opposizioni e atteggiamenti di chiusura da parte del mercato ed anche da parte di alcuni Stati membri, che la giudicavano eccessivamente rigida, da una parte e non efficace nel prevenire i fenomeni più rischiosi, dall’altra.

Sul banco degli imputati, in particolare, era salito l’obbligo di separazione per attività diverse dal proprietary trading al ricorrere del superamento di soglie prefissate. Le modifiche alla bozza di regolamento, nel corso dei lavori preparatori, sono quindi andate nella direzione di attenuare fortemente gli automatismi che ex ante imponevano la sottrazione della facoltà di svolgere alcune attività di investimento al ricorrere dei presupposti, privilegiando la discrezionalità del soggetto titolare del potere di supervisione, al fine di valutare l’effettiva rischiosità di tali attività in concreto: ovvero, niente di diverso da un approccio prudenziale che rifugge divieti generali e astratti e conforma la reazione del controllo pubblico all’effettivo grado di pericolo per l’interesse tutelato (la stabilità finanziaria) ingenerato dall’operatività concreta del vigilato, in una logica ammantata di proporzionalità ed ideologicamente servente ad una volontà di non incisione dell’autonomia privata.

Era ovvio che questo itinerario formativo del Regolamento lo confinasse ad una sostanziale irrilevanza, non appena l’assenza di accordo politico su misure più stringenti ha costretto ad ammettere che una versione soft dell’atto finisse per replicare gli strumenti già esistenti nell’ordinamento e risultasse quindi, di fatto pleonastico. In termini semplici: già la CRD IV prevede (art. 104) che le autorità di vigilanza debbano disporre del potere, se necessario, di “restringere o limitare le attività, le operazioni o la rete degli enti o esigere la cessione di attività che presentano rischi eccessivi per la solidità dell'ente” (par. 1, lett. e). Del pari la normativa europea sulla crisi, quella del secondo Pilastro dell’Unione Bancaria, attribuisce alla Autorità di settore, poteri quali quelli di “imporre all’ente di spossessare attività specifiche”, di “limitare o impedire lo sviluppo di linee di business o la vendita di prodotti, sia nuovi che esistenti” e soprattutto, di “imporre modifiche alle strutture giuridiche o operative dell’ente o entità del gruppo, (direttamente o indirettamente sotto il suo controllo) in modo da ridurne la complessità, affinché le funzioni essenziali possano essere separate da altre funzioni, sul piano giuridico ed operativo, applicando gli strumenti di risoluzione” (cfr. Direttiva cd. BRRD, ovvero Direttiva 2014/59/UE).

Se ci si richiama a quanto osservato all’inizio di questo intervento si comprende come per vero la spinta alla modifica del Regolamento non è ancorata a mere ragioni tecniche o addirittura opportunistiche (almeno per quel che riguarda le voci istituzionali): l’opzione è per vero “filosofica”, attenendo ad una precisa scelta di conformazione dell’intervento pubblico nel settore bancario e finanziario, ispirata ai canoni di incentivazione dell’iniziativa privata, tutela della concorrenza, omogeneità con gli strumenti e le dinamiche di mercato. Una mano pubblica che non programma o irregimenta il mercato, ma che lo corregge ove necessario e per il resto ne permette (ed anzi auspica ed incentiva) il pieno dispiegarsi delle sue potenzialità.

Ma se ciò è vero e se pure il Regolamento BSR, che partiva almeno con un’idea – sia pure costellata di limiti – di conformazione allogena dell’attività dei soggetti privati, vietandone alcune attività, ma che approdava, nel dibattito istituzionale, a rimettere poteri di separazione sostanzialmente discrezionali all’Autorità diveniva pleonastico, quando non addirittura fonte di indebita confusione tra poteri e di superfetazione degli obblighi in capo ai soggetti vigilati.

Il risultato, abbastanza scontato, di questo iter di ridimensionamento della carica “strutturale” della proposta è stato il suo accantonamento. Nel programma di attività della Commissione Europea per il 2018[2], infatti, quest’ultima include la proposta BSR tra gli atti che vengono ritirati, non solo per l’assenza di progressi sulla proposta, ma soprattutto perché “the main financial stability rationale of the proposal has in the meantime been addressed by other regulatory measures in the banking sector and most notably the entry into force of the Banking Union's supervisory and resolution arms, ovvero i fini di tutela della stabilità che la stessa si prefiggeva possono essere raggiunti con gli strumenti della vigilanza prudenziale, che non è semplicemente un complemento o un accessorio, ma è un modello alternativo per la supervisione pubblica sul comparto finanziario più affine allo Zeitgeist, rapidamente ricompattatosi dopo la grande paura della crisi. E non è un caso, si aggiunga, che dagli USA sono quotidiane le voci su una modifica, un allentamento o addirittura una eliminazione della Volcker Rule, di cui dà conto costantemente la stampa specializzata.

Come si disse all’alba di questo intervento: la caratteristica principale di questa crisi è stata quella per cui la sua reazione – almeno nel settore bancario e finanziario – non ha portato ad una complessiva riconsiderazione delle ideologie e delle metodologie di fondo, ma, ferme queste, ne ha potenziato gli strumenti e ne ha corretto – o tentato di correggere – le disfunzioni più evidenti. Ed in questo contesto, anche per elementari ragioni di coerenza ed organicità del sistema, è dubbio che elementi estranei ai presupposti fondativi dell’intera impalcatura del sistema dei controlli possano trovare in esso spazio utile (o vita sufficientemente lunga).

Se questa è la parabola delle misure strutturali sulle banche, almeno nell’ordinamento europeo, è finalmente il momento di passare ad analizzare la situazione italiana. Come noto, nel nostro Paese gli effetti più aggressivi della crisi economica e finanziaria si sono prodotti sul sistema bancario non nell’immediato erompere di essa, ma successivamente, principalmente (anche se non solo) in forza dell’erosione della qualità degli assets delle banche, in riflesso della prolungata contrazione dell’economia reale.

Anche a livello nazionale sono stati prospettati, da più parti, interventi volti ad assicurare, per usare una formula sloganistica, che “le banche tornassero a fare le banche”. Queste proposte, varie nella fonte e nel contenuto, sono approdate in Commissione Finanze della Camera per un esame congiunto a marzo 2017, ma non sono andate oltre. Mutuando la ripartizione effettuata dal Servizio Studi della Camera, tali disegni di legge potevano suddividersi in tre gruppi: 1) modifica dell’art. 10 TUB (sull’attività bancaria e creditizia), con esclusione del commercio in proprio di strumenti finanziari dall’attività bancaria e creditizia; 2) delega al Governo per la riforma del TUB, sempre per introdurre la separazione tra banche commerciali e banche d’affari; 3) introduzione di un’apposita disciplina, ma ancora nel TUB, per la separazione delle attività finanziarie di deposito e di credito relative all’economia reale e quelle di investimenti speculativi e rischiosi.

Come detto, nessuno di questi disegni di legge ha visto il proprio iter avanzare. Al che, si potrebbe pensare, vista anche la corrente temperie internazionale, che sembra ormai aver rinunciato a percorrere il sentiero della introduzione deroghe al principio della banca universale, che il discorso sia ormai chiuso.

Ma non è così. Molti dei firmatari delle proposte di legge in questione, infatti, sono esponenti, anche rilevanti, delle attuali forze politiche di governo[3]. Per di più, sulla separazione tra banche d’affari e banche d’investimento ha preso posizione anche la Commissione Parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, che come noto ha reso pubblici i risultati dei suoi lavori ad inizio 2018[4]. Nella Relazione di maggioranza, sul punto si notava, in termini sostanzialmente neutri, come “il futuro parlamento potrebbe tornare ad esaminare l'argomento alla luce del nuovo contesto normativo e regolamentare europeo, e della considerazione che nel caso si ritenesse di riproporla come posizione del Parlamento italiano, andrebbe discussa e adottata in ambito europeo, dal momento che una decisione di un solo paese risulterebbe inefficace, in regime di libera prestazione di servizi in ambito europeo” (punto 21). Ben più incisive erano sul tema le Relazioni di minoranza, che peraltro provenivano da esponenti dei partiti politici attualmente investiti del governo del Paese: nella Relazione Brunetta e altri, si parla chiaramente di “necessità” di introdurre siffatte misure al fine di tutelare la clientela, il mercato e le risorse pubbliche (e si traccia anche uno scheletro di disciplina; punto 10.5); nella Relazione Sibilia e altri, è pure predicata la separazione tra banche d’affari e banche d’investimento come intervento auspicabile (punto 1.3).

Ed infatti, nel cd. “contratto di governo” tra Lega e Movimento 5 Stelle è espressamente indicato come “bisogna andare verso un sistema in cui la banca di credito al pubblico e la banca di investimento siano separate per quanto riguarda la loro tipologia di attività sia per quanto riguarda i livelli di sorveglianza”. Infatti, nel discorso programmatico tenuto alla Camera, il neo Presidente del Consiglio Conte ha espressamente fatto riferimento alla separazione come punto che il suo Governo si impegnerà a realizzare; ancora qualche giorno fa, il viceministro all’Economia, Garavaglia, ha risposto ad un’interrogazione parlamentare relativa alla riforma del credito cooperativo, prospettando l’intendimento di rivedere la riforma e garantire, soprattutto a livello territoriale, una netta differenziazione tra banche commerciali e banche autorizzate ad eseguire attività più compiutamente speculative.

Naturalmente, non è possibile commentare una riforma per ora solo annunciata e men che meno esprimere al riguardo alcun giudizio. Sicuramente, questa (futura) iniziativa si inscrive nel tentativo di dare concrete risposte di riforma in un settore che negli ultimi anni ha occupato insistentemente le cronache, e non per motivi onorevoli. Questo scritto volutamente si è occupato solo dell’impostazione generale della politica regolamentare della vigilanza bancaria[5]; poiché al momento, come detto, vi sono soltanto manifestazioni di volontà di modifiche normative, è apparso almeno utile fornire un inquadramento generale del fenomeno, soprattutto in un settore, quale quello bancario, estremamente interrelato a livello globale (e tanto più europeo), in cui lo spazio per iniziative isolate dei legislatori nazionali si è ristretto, anche solo per la necessità pratica di non arrecare pregiudizi concorrenziali agli intermediari interni rispetto a quelli di altri paesi.

In attesa quindi di nuove su questo fronte, si spera almeno di aver precisato alcuni punti fermi, che non dovrebbero essere obliterati se davvero si vorrà mettere mano ad una riforma in senso strutturale del mercato bancario:

- il legislatore europeo ha rinunciato expressis verbis all’adozione di misure strutturali ed ha optato in modo chiaro per il potenziamento e l’affinamento delle misure prudenziali discrezionali, ritenendole necessarie e sufficienti per la tutela dei rilevanti interessi pubblici coinvolti nel sistema bancario e finanziario;

- questa scelta non è contingente, ma è frutto di una precisa ideologia che permea il sistema almeno dagli inizi degli anni ’90, con la privatizzazione del settore bancario, l’apertura dei mercati, l’adozione convinta del modello “banca universale”, l’individuazione di un ruolo ortopedico – correttivo delle Autorità di vigilanza, non mere traspositrici di precetti cogenti indicati dalla legge, ma regolatori dotati di ampi poteri discrezionali da usare con il minimo sacrificio degli attori del settore in vista degli interessi tutelati.

Questa è l’impostazione accolta dall’ordinamento di cui il nostro sistema fa parte; di questo non potrà non tenersi conto nell’adozione della futura ed eventuale normativa, che, salve opzioni ben più radicali, dovrà coordinarsi armonicamente con l’esistente ed evitare superfetazioni di precetti e poteri, in modo da non pregiudicare efficienza del mercato ed efficacia della vigilanza, senza che in concreto si raggiungano nuovi livelli di tutela per i risparmiatori.

 

(17 luglio 2018)

 

[1] Rispettivamente, il Regolamento UE n. 575/2013 del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, e la Direttiva 2013/36/UE, sull'accesso all'attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento.

[2] Reperibile sul sito della Commissione.

[3] Si pensi ad esempio alle proposte A.C. 1605 (Giorgetti), A.C. 2000 (Sibilia), A.C. 488 (Caparini).

[4] Il testo delle Relazioni conclusive, di maggioranza e di minoranza, è disponibile sul sito www.senato.it.

[5] Per una sintetica visione di insieme sulle cause della crisi bancaria degli ultimi anni, la cui ricognizione dovrebbe guidare l’analisi dei rimedi, può rimandarsi, ex multis, in particolare l’audizione del Governatore della Banca d’Italia alla Commissione parlamentare d’inchiesta “Le crisi bancarie e l’azione della Vigilanza “ del 19.12.2017, disponibile su www.bancaditalia.it.

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