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Servi d’un dio minore. La “flat tax” e altri piccoli passi verso la libertà (di Paolo Zanotto)

Nel dibattito politico, solitamente, si discutono proposte concrete e ci si accapiglia riguardo alla loro realizzabilità. La tal manovra, pertanto, è attuabile o meno, secondo promotori o detrattori, in quanto ci sono o non ci sono i fondi per sostenerla, o perché ce lo impone o viceversa ce lo vieta la tale o la talaltra Istituzione (vedi, ad esempio, “l’Europa”, una scusa buona per tutte le stagioni…), o chissà cos’altro, via dicendo di questo passo. Abbiamo smesso di porci obiettivi non in quanto realizzabili o meno, ma semplicemente perché giusti. Col tramonto delle ideologie, la Politica ha finito d’interrogarsi sui grandi perché, sugli ideali, sui principi, venendo svilita a un ruolo subalterno rispetto alla sfera economica, peraltro interpretata da una prospettiva univoca e angusta. È giunto il momento di tornare a porsi i perché e di non transigere più sugli ideali, preoccupandoci solo a posteriori di trovare le strade per raggiungere le mete che ci siamo prefissati o impegnandoci a costruire ponti laddove le vie di comunicazione eventualmente s’interrompano.

In quest’ottica, le polemiche sulle coperture necessarie all’eventuale applicazione di una flat tax da parte del prossimo Governo risultano alquanto sterili e capziose. La domanda da porsi non è se la flat tax sia attuabile o meno, ma se sia giusta oppure no! E, qualora la risposta dovesse risultare affermativa, la via sarebbe obbligata[1]. Rammento ancora quando, da giovane studente universitario, a metà degli anni Novanta del secolo appena trascorso, rimasi folgorato leggendo le parole pronunciate vent’anni prima da Robert Nozick, in cui il filosofo di Harvard equiparava, di fatto, la “tassazione del reddito da lavoro” a una sorta di “lavoro forzato”[2]. La sottrazione del reddito derivante da un certo numero di ore lavorative, infatti, equivale per il lavoratore a una specie di corvée, prestata in maniera coatta e di fatto esercitata a titolo gratuito per quel determinato numero di ore[3].

Tutto ciò, in pratica, corrisponde a una forma di schiavitù camuffata, seppur temporalmente circoscritta. Il che risulta una constatazione tanto più dirompente in quanto formulata da un sostenitore dello Stato, seppur minimo, quale di fatto Nozick era ed è. Da qui, nondimeno, occorre prendere le mosse se s’intende alleviare il giogo della servitù a cui è stato ridotto l’uomo contemporaneo. Diminuire e limitare quanto più possibile la sfera d’influenza di quel braccio armato dello Stato che è il Fisco si configura pertanto come una battaglia di libertà, contro ogni genere d’imposizione: «come indica il suo nome, l’imposta è... imposta; è confiscata con la forza, e non guadagnata attraverso lo scambio volontario»[4].

Tutto ciò risulta coerente con le teorie politico-sociali enucleate ai primi del Novecento dall’economista e sociologo tedesco d’ispirazione liberalsocialista Franz Oppenheimer, che spiegava il sorgere dello Stato interamente in termini di coercizione, operando una netta distinzione fra i “mezzi economici” per il conseguimento del profitto, caratterizzati dalle pacifiche fasi della produzione e dello scambio volontari in un contesto di libero mercato concorrenziale, contrapposti ai “mezzi politici” di sottrazione ed accumulazione, violenta e prevaricatrice, della ricchezza privata[5].

Simile teoria sarebbe stata in seguito accolta e ripresa dall’anarchico statunitense Albert Jay Nock, secondo il quale sarebbero esistiti unicamente due metodi o mezzi tramite i quali poter soddisfare le necessità e i desideri dell’uomo: «Uno è la produzione e lo scambio di ricchezza; tali sono i mezzi economici. L’altro è l’appropriazione senza compenso della ricchezza prodotta da altri; questi sono i mezzi politici». Lo Stato attiene propriamente alla “organizzazione dei mezzi politici”[6]. Simili considerazioni inducevano Nock alla logica constatazione che, se si osserva oltre la superficie degli affari pubblici si può prendere contezza di un fatto capitale, ovvero che in età moderna si è verificata un’abnorme redistribuzione di poteri dalla società allo Stato. La progressiva espansione del potere statale è inversamente correlata alla regressione del potere sociale. Pertanto non può darsi alcun ampliamento del potere dello Stato senza che, parallelamente, ciò determini un corrispondente detrimento del potere esercitato dalla società civile[7]. Degna di nota appare l’affermazione secondo cui agli studiosi dell’epoca era ben evidente come tale indebita conversione del potere sociale in potere statale fosse un espediente di cui si era abusato in maniera sempre crescente a seguito delle ricorrenti crisi economiche che, in tempi recenti, avevano ciclicamente flagellato le economie industriali[8]. Per far fronte all’instabilità congenita del capitalismo, le società contemporanee hanno delegato una sempre crescente mole dei propri diritti allo Stato e alla burocrazia tramite la quale esso si sostanzia, il cui carattere “parassitario” in qualità di organizzazione pubblica e, in quanto tale, almeno formalmente eterodiretta, è stato ben messo in luce da Ludwig von Mises nella sua opera omonima[9].

Tali considerazioni appaiono oltremodo interessanti, specialmente col senno di poi, facendo riaffiorare alla memoria le profetiche analisi del polemista e analista politico anglo-francese Hilaire Belloc, il quale si diceva convinto che la società emersa dalla Rivoluzione industriale avrebbe finito col ripristinare indirettamente l’istituto della schiavitù sotto mutate spoglie[10]. In un suo celebre scritto del 1912, infatti, Belloc prevedeva come i decenni a venire avrebbero portato a un’inedita condizione sociale in cui una ristretta élite costituita dalla classe capitalista avrebbe finito col divenire sempre più stabile e potente, mentre la massa proletaria avrebbe mutato il proprio status finendo col perdere completamente la libertà legale, divenendo soggetta al lavoro obbligatorio. Simile tendenza era imputabile, secondo Belloc, al fatto che l’ideale socialista, contrapponendosi e al contempo permeando la struttura del sistema capitalista, si sarebbe reso responsabile dell’emersione di un terzo fenomeno alquanto differente rispetto a quello auspicato, ovvero dello “Stato servile”. Meritevole di attenzione, in proposito, è la definizione di lavoro “servile” fornita dall’autore, secondo la quale questo si avrebbe quando il lavoro venga intrapreso «non per rispetto di un contratto ma per l’obbligo imposto dalla legge», divenendo in tal modo tratto essenziale dello status di lavoratore rispetto a quello che caratterizza chi da tale obbligo sia esente, a beneficio esclusivo dei quali va esercitato[11].

La notevole diminuzione degli stipendi e, parallelamente, la perdita del potere di acquisto della valuta in corso, uniti al continuo incremento della tassazione diretta e indiretta hanno finito per decretare il generale impoverimento della società con un conseguente smottamento della classe media che l’ha inesorabilmente spinta sempre più verso la soglia di povertà. Il fenomeno, certamente, ha conosciuto una recrudescenza nel nostro Paese a partire dalla metà degli anni Novanta e, poi, a seguito dell’introduzione dell’Euro. Tuttavia, la tendenza era già nettamente delineata nell’America degli anni Cinquanta, avendo conosciuto solo brevi pause di espansione negli anni successivi, al punto che Bertrand de Jouvenel ha potuto affermare che «una tassazione pesante ha immesso nel mercato del lavoro possessori di rendite assoggettati ad aliquota media (la svalutazione del potere d’acquisto ha ulteriormente contribuito a ciò) e anche membri di famiglie in precedenza mantenute da un solo produttore di reddito, i cui guadagni sono divenuti inadeguati a causa della pesante tassazione. In molti e vari casi, una tassazione pesante ha costretto le sue vittime della classe media a maggiori sforzi al fine di conservare, almeno in parte, il precedente livello di vita»[12].

Quanto detto impone il dovere di porsi un quesito fondamentale: quali tratti essenziali caratterizzano l’idea di schiavo? Cimentandosi proprio con tale questione, Herbert Spencer affermava come ciò che contraddistingue lo schiavo sia il fatto per cui egli si vede obbligato, a differenti livelli, a lavorare per il soddisfacimento dei desideri altrui. Indipendentemente dalla forma di governo o dalle caratteristiche specifiche del sistema di produzione, il punto essenziale rimane dunque il seguente: quanto è costretto a lavorare a beneficio di altri e quanto può lavorare a beneficio proprio? Da ciò dipende il grado della sua schiavitù, che varia in ragione di quanto è costretto a cedere e di quanto invece può trattenere per sé: «Non ha dunque importanza alcuna il fatto che il suo padrone sia uno solo o una società»[13].

Riecheggiando le parole di Étienne de La Boétie sembra quasi di poter dire: «Vi è una sola cosa che ‒ non so perché ‒ gli uomini non hanno la forza di desiderare: la libertà, un bene tanto grande e dolce! Non appena la si perde, sopravvengono tutti i mali possibili e senza di essa, tutti gli altri beni, corrotti dalla servitù, perdono del tutto gusto e sapore. Sembra che gli uomini tengano in poco conto la libertà, infatti, se la desiderassero, l’otterrebbero; si direbbe quasi che rifiutino di fare questa preziosa conquista, perché è troppo facile»[14].

Siamo partiti da una semplice annotazione di cronaca politica per finire dove siamo finiti, con l’unico intento di mostrare come la sfera fiscale risulti nevralgica per la salvaguardia di quei pochi diritti individuali residui e come, anzi, nell’era contemporanea essa possa rivelarsi determinante al fine di ripristinare un più ampio margine di emancipazione da quella Istituzione statuale che, idolatrata oltre misura quale garante super partes dell’equità sociale, ha teso sempre più ad espandersi, finendo per avvinghiarci nelle sue mortali spire. Viceversa, se dovessimo perdere anche questa ennesima occasione, rimanendo ancora una volta obnubilati dalla retorica assistenzialista che da decenni ormai ci ammorba e ci raggira non avremmo più via di scampo, correndo inesorabilmente il rischio di ritrovarci a condurre le nostre esistenze come servi d’un dio minore.

(16 aprile 2018)

 

[1] Si è affrontata tale questione in Paolo Zanotto, La teoria della “tassa piatta”. La rivoluzione copernicana della fiscalità, in “Il Merito. Pratica per lo sviluppo” (1 marzo 2018): http://www.ilmerito.org/8-nel-merito/403-la-teoria-della-tassa-piatta-la-rivoluzione-copernicana-della-fiscalita-di-paolo-zanotto-2

[2] «Taxation of earnings from labor is on a par with forced labor. [...] I am unsure as to whether the arguments I present below show that such taxation merely is forced labor; so that “is on a par with” means “is one kind of”. Or alternatively, whether the arguments emphasize the great similarities between such taxation and forced labor, to show it is plausible and illuminating to view such taxation in the light of forced labor»: Robert Nozick, Anarchy, State, and Utopia, New York, Basic Books, 1974, p. 169 e nota (corsivo originale), trad. it. Anarchia, stato e utopia, presentazione di Sebastiano Maffettone, Milano, il Saggiatore, 2000, p. 181 e nota.

[3] Ivi, pp. 167-174 dell’edizione originale (trad. it. pp. 179-186).

[4] Pascal Salin, L’arbitraire fiscal, Préface d’Alain Madelin, Paris-Genève, Éditions Slatkine, 1996 [1ª edizione: Paris, Éditions Robert Laffont, 1985], trad. it. La tirannia fiscale, introduzione di Antonio Martino, Macerata, Liberilibri, 1996, p. 9 (corsivo originale).

[5] Cfr. Franz Oppenheimer, Der Staat, Berlin, Libertad Verlag, 1990 [1ª edizione: in Martin Buber, Die Gesellschaft. Sammlung sozialpsychologischer Monographien (36 Bände), Frankfurt am Main, Verlag Rütten & Loening, 1906-1912, Bd. 14-15 (1907)].

[6] Albert Jay Nock, Our Enemy, the State, New York, William Morrow & Company, 1935, trad. it. Il nostro Nemico, lo Stato, a cura di Luigi Marco Bassani, Macerata, Liberilibri, 1995, p. 37 (corsivi originali).

[7] Ivi, pp. 3-4.

[8] Ivi, pp. 4-5.

[9] Cfr. Ludwig von Mises, Bureaucracy, London, Yale University Press, 1944, trad. it. Burocrazia, prefazione di Lorenzo Infantino, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore, 2009 [1ª edizione: introduzione di Domenico Fisichella, edizione italiana a cura di Dario Antiseri, Milano, Rusconi, 1991].

[10] Cfr. Hilaire Belloc, The Servile State, London & Edinburgh, T. N. Foulis, 1912, trad. it. Lo Stato servile, introduzione di Marco Vitale, Macerata, Liberilibri, 1993.

[11] Scriveva Belloc che «la nostra società apparentemente libera, trovandosi in una condizione di equilibrio instabile per il fatto che i mezzi di produzione sono nelle mani di pochi, tende a raggiungere una posizione di equilibrio stabile obbligando legalmente chi non possiede i mezzi di produzione a lavorare per chi li possiede. Se si applica il principio di coercizione nei confronti di chi non possiede, ne risulta anche, come conseguenza, un cambiamento nel loro status. Agli occhi della società e del suo ordinamento giuridico gli uomini si divideranno in due gruppi: il primo, economicamente e politicamente libero e in sicuro possesso dei mezzi di produzione; il secondo, economicamente e politicamente non libero, cui vengono però subito assicurati, proprio dalla mancanza di libertà, l’indispensabile e un minimo di benessere sotto il quale non scenderà. Raggiunta una tale condizione, la società potrebbe essere liberata dalle attuali tensioni interne e assumere una forma stabile, atta, cioè, a durare immutata per un tempo indeterminato. Sarebbero inoltre eliminati i vari fattori di instabilità che affliggono in modo crescente quella forma di società detta capitalista, e gli uomini sarebbero lieti di accettare e perpetuare una simile condizione. Per ragioni che saranno esposte nel prossimo capitolo, daremo a questo tipo di società il nome di Stato servile»: ivi, p. 3 (corsivi originali).

[12] Bertrand de Jouvenel, The Ethics of Redistribution, University Park (IL), 1990 [1ª edizione: Cambridge (MA), Cambridge University Press, 1951], trad. it. L’etica della redistribuzione, introduzione di Antonio Martino, Macerata, Liberilibri, 1992, p. 57.

[13] «What is essential to the idea of a slave? We primarily think of him as one who is owned by another. [...] That which fundamentally distinguishes the slave is that he labours under coercion to satisfy another’s desires. The relation admits of sundry gradations. [...] The essential question is‒How much is he compelled to labour for other benefit than his own, and how much can he labour for his own benefit? The degree of his slavery varies according to the ratio between that which he is forced to yield up and that which he is allowed to retain; and it matters not whether his master is a single person or a society»: Herbert Spencer, The Man Versus the State, With an Introduction by Albert Jay Nock, Caldwell (ID), The Caxton Printers, 1960, pp. 41-42 [1ª edizione: London and Edinburgh, Williams and Norgate, 1884], trad. it. L’individuo contro lo Stato, introduzione di Antonio Martino, Roma, Bariletti Editori, 1989, cap. II, pp. 55-56.

[14] «Il en est une seule que les hommes, je ne sais pourquoi, n’ont pas la force de désirer: c’est la liberté, bien si grand et si doux! Dès qu’elle est perdue, tous les maux s’ensuivent, et sans elle tous les autres biens, corrompus par la servitude, perdent entièrement leur goût et leur saveur. La liberté, les hommes la dédaignent uniquement, semblet-il, parce que s’ils la désiraient, ils l’auraient; comme s’ils refusaient de faire cette précieuse acquisition parce qu’elle est trop aisée»: Étienne de La Boétie, Discours de la servitude volontaire, 1576, trad. it. Discorso sulla servitù volontaria, testo originale a fronte, Milano, La Vita Felice, 1996, pp. 28-29.

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