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ISSN 2532-8913

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Il Merito come Metodo

(presentazione della rivista “Il Merito. Pratica per lo sviluppo”, Luiss, 9 giugno 2016)

di Simone Lucattini

Il Merito. Pratica per lo sviluppo” è il nome della Rivista on line creata, a fine 2015, da un gruppo di accademici, professionisti, imprenditori, civil servant.

La Rivista, anche graficamente, si articola su due livelli, tra loro comunicanti: una parte più teorica - titolata “Nel Merito” - ed una di taglio maggiormente pratico, titolata, appunto, “In Pratica”: una impostazione piuttosto innovativa, alla cui base v’è una precisa scelta di metodo.

Abbiamo fin qui pubblicato 39 contributi e registrato, al 23 giugno 2016, oltre 14.000 accessi. Molti i temi affrontati: debiti della P.A., appalti, energia, comunicazioni, banche, pratiche commerciali scorrette, antitrust, giustizia, università. Agli Autori è stato chiesto, dove possibile, di studiare questi temi dal punto di vista della certezza delle regole, fondamentale per attrarre gli investimenti dall’estero e creare sviluppo e crescita.Regole del gioco chiare, certe e stabili sono infatti una pre-condizione affinché nei mercati i meriti possano emergere. Di certo un contesto come l’attuale, con 21 mila leggi statali, 30 mila leggi regionali, 70 mila regolamenti, 63 mila norme di deroga non premia chi merita ma chi è più bravo a districarsi in questa selva normativa, magari ad avvicinare il potere, intento a confezionare l’ultima regola.

Ma torniamo alla Rivista. E’ consuetudine, in queste occasioni, mettere in risalto l’originalità dell’iniziativa appena intrapresa, per mostrare come essa intercetti un fermento, un vento, “il nuovo”.

Non farò altrettanto. Sul tema Merito/Meritocrazia si è infatti accumulata, in questi anni, una enorme letteratura, senz’altro sproporzionata rispetto alla limitatezza dell’esperienza, a quanto cioè il merito viene in concreto praticato. Se ne parla tanto di merito, ogni bravo politico, di maggioranza e opposizione, sociologo, studioso fa la sua parte. Il principio del merito è più volte richiamato anche dalla legge-delega n. 124/2015 per la riorganizzazione della pubblica amministrazione, e speriamo non si tratti, alla fine, di norme-manifesto.

Ma quando una nuova rivista apre i battenti è inevitabile chiedersi quale sia il senso e l’utilità, e se essa possa avere un respiro sufficientemente lungo. Bisogna allora guardare in alto, ai principi – alla scintilla iniziale –  e poi al metodo che s’intende seguire.

La scintilla iniziale … Nelle lunghe discussioni che hanno preceduto la creazione della Rivista, le parole che più sentivo ripetere dagli amici componenti della Redazione erano: Preoccupazione e Coraggio.

Preoccupazione per un contesto tuttora anti-meritocratico. Sono i dati a parlare, e ci dicono che l’Italia è “maglia nera” in Europa nei seguenti indicatori: libertà del sistema economico, attrattività per i talenti, qualità del sistema formativo, pari opportunità, certezza delle regole, trasparenza, mobilità sociale (sono dati del 2016, messi assieme dal Forum della meritocrazia, ma ripresi da OCSE, Eurostat e da altri autorevoli centri di ricerca europei).

E poi – si diceva, in quelle prime discussioni – ci vuole un bel Coraggio, per titolare una rivista al Merito. Il rischio è di scadere nell’invettiva (piuttosto facile) contro il raccomandato di turno, il fannullone, la casta; ovvero di perdersi in sofferte meditazioni sul concetto di meritocrazia, sui mille e nessun modi per misurarla; o ancora di apparire presuntuosi e velleitari. 

Niente di tutto questo, direi. Anche se, certo, sta al Lettore giudicare.

L’obiettivo perseguito dalla Rivista – prima di tutto e fondamentalmente – è di entrare “nel merito” dei problemi. In tal senso, il merito è soprattutto un metodo. Il merito come pratica: non è teoria, non è un vuoto slogan.

Non interessa parlare, in generale, del concetto di meritocrazia, sempre sospeso tra egalitarismo (Rawls, riduceva tutto alla “lotteria della natura” che distribuisce casualmente i talenti) e liberalismo (per cui – contrariamente a quanto si crede –  il merito non è così importante perché non serve a risolvere il problema del coordinamento sociale, basta leggere Hayek o, ancor prima, Hume al riguardo).

Una cosa è certa però: il merito è oggi una impellente questione nazionale. Non sono solo i vincoli europei ad impedire la crescita; ci sono vincoli anti-merito e anti-crescita tutti italiani: lo spread del merito – per certi versi anche più preoccupante rispetto a quello sui titoli di stato – è a 30 punti meno rispetto alla Germania, ma anche inferiore di oltre 10 punti alla Spagna (sono dati, anche questi, tratti dal Forum della meritocrazia). Ma, al di là delle “classifiche”, dei vari “meritometri”, questo è il risultato – sotto gli occhi di tutti – di un sistema burocratico- fiscale- giudiziario che tende a comprimere le energie vitali. Solo qualche dato, sparso ma significativo: Italia ferma, da anni, al 137 posto per efficienza del sistema fiscale; in risalita, ma al 111 posto, per capacità di far rispettare i contratti (Doing Business 2016); il Fondo monetario ha stimato che se l’efficienza del settore pubblico aumentasse al livello delle migliori regioni del Paese il PIL crescerebbe del 2%.

Vi sono poi elementi culturali, forse non immediatamente misurabili, ma non meno determinanti: un capitalismo di relazioni; una classe dirigente – politica e non – troppo spesso selezionata per cooptazione; una cultura dell’obbedienza, della fedeltà, diffusa e difficile da rimuovere. Nel complesso, un sistema che rischia di essere perdente in partenza, perché la competizione globale non fa sconti. Lì vincono sistemi amministrativi efficienti in grado di dare certezze agli operatori economici e, quindi, attrarli; e vince la capacità d’innovazione, spesso frutto di investimenti in ricerca mirati e selettivi, non distribuiti “a pioggia” o secondo un criterio “solidaristico”.

Anche come scelta individuale il merito, a ben vedere, non è neppure “economico”. Anzi, puntare sul merito in Italia significa rischiare, rischiare molto, troppo. E’ più sicuro sussurrare nell’orecchio dei potenti, trovare la scorciatoia, o il buco in cui infilarsi. Ma così il rischio è di non crescere o, peggio di affondare lentamente, e comunque perdere terreno in termini di competitività, tutti insieme, anche i c.d. “furbi” che del merito si fanno beffa. E allora il merito sembra divenire una strada obbligata: per competere, e anche per far fronte ai bisogni sociali.        

Ritengo, in altri termini, che merito e bisogno debbono e possono coesistere.

Prezzolini, già nel 1921, notava – al solito sarcastico – come in Italia “il fesso si interessa al problema della produzione della ricchezza. Il furbo a quello della distribuzione”.  Arguta osservazione, senza dubbio.  Però premiare i meriti – di chi produce – non esclude il momento redistributivo, anzi. Infatti, un Paese più competitivo, affrancato da logiche e retaggi familistici e corporativi, produce più ricchezza, più crescita. Che consente di rispettare i vincoli europei – costruiti sul rapporto prodotto interno lordo/ deficit pubblico – e aiutare chi ha bisogno. Merito e bisogno, appunto: spinta individuale e stato sociale. Non è una astrazione, ma l’essenza più profonda del modello europeo di economia sociale di mercato: libertà di mercato e giustizia sociale. 

Merito, dunque, ­– si diceva – come urgente questione nazionale. La nostra Rivista parte da questa urgenza. E’, sì, una urgenza, ma con profonde radici e riferimenti culturali che vengono da lontano, e non sono soltanto anglosassoni. Per una iniziativa come “Il Merito. Pratica per lo sviluppo”, anche in Italia, gli Autori cui ispirarsi infatti non mancano. Penso ad Einaudi, anzitutto, alle sue Prediche inutili, al tema lì affrontato dell’eguaglianza “nei punti di partenza”, e soprattutto al Suo invito a Conoscere per deliberare; a Luigi Sturzo, Appello ai liberi e forti; a Gobetti, e alla sua Rivoluzione liberale, e ancora a Rosselli, Socialismo liberale; e non ultimo al dibattito riformista sull’ “alleanza tra merito e bisogno” sviluppatosi nei primi anni Ottanta.

Tutti testi fondamentali. Ad ognuno, comunque, il suo preferito. La Rivista non pretende certo di sviluppare una visione del mondo. La condivisione, dentro la redazione e con gli Autori, è stata prevalentemente sul metodo. Ebbene, a livello di metodo, la Rivista si propone di valutare la realtà empiricamente, senza preconcetti: realismo e metodo gradualistico, fatto di esperimenti, riaggiustamenti, anche correzioni. A questo serve il doppio livello “Nel Merito”/“In pratica” in cui – come detto – si articola la Rivista.                                                  

Nel Merito” – la parte “in alto”, più teorica – studia e propone. Compaiono qui saggi e studi.

In Pratica” è, invece, laboratorio e servizio. Laboratorio empirico e servizio per i lettori. Trovano qui spazio:

-          dialoghi tra imprenditori ed esperti, utili per focalizzare ed affrontare problemi di quotidiana vita imprenditoriale;

-          contributi di taglio operativo: “come fare qualcosa”, sempre al servizio dei Lettori;

-          interviste, magari ad imprenditori che sul merito hanno fondato la propria esperienza.

In una logica bottom-up, da questo laboratorio pratico ed empirico può innescarsi la reazione chimica: dalla pratica alle idee alle soluzioni. E’ qui che i due livelli – “Nel Merito” e “In Pratica” – dovrebbero fondersi sinergicamente. E’ qui che i Lettori potranno anche “sfidare” o “prendere il posto” degli Autori con idee più efficaci, più innovative, più eretiche. La Rivista vuole in definitiva realizzare una fusione di teoria e prassi, attraverso la competizione tra idee. Dietro questa impostazione vi è la consapevolezza che le soluzioni non si trovano bell’e fatte, già preconfezionate dietro l’ultimo diaframma da abbattere ogni volta con rinnovata foga, ma sono piuttosto avvicinabili pazientemente, per continue approssimazioni, faticosi aggiustamenti.

Ci vuole un metodo “dal basso” e ci vogliono anche competenze teoriche.  Teorici, non “dottrinari” – si badi bene –: non servono quelli che Einaudi definiva gli uomini “del punto di vista” che “prima di studiare sanno già quel che debbono dire”.

Dunque, il merito, si diceva, è soprattutto un metodo: saper entrare “nel merito” dei problemi. Per farlo ci vogliono competenza, studio, attenzione anche ossessiva; attitudine a sporcarsi le mani con i fatti, le cose vere, concrete.

In sintesi estrema il metodo del merito è: studio dei problemi/presa diretta sulla realtà/critica (anche eretica)/ proposte, auspicabilmente in grado di incidere.  Per fare tutto questo ci vuole un “sano e folle” pragmatismo, che però nasce da luoghi assai concreti: “biblioteche” e “territori”.

Forse tutto questo può apparire troppo ambizioso per una Rivista che nasce senza sponsor e “grandi firme”? Forse si, ma altrimenti ritengo sarebbe stato inutile anche solo iniziare.

Diceva un grande, e un po’ dimenticato, economista – Bruno De Finetti – che, almeno qualche volta, “occorre pensare in termini di utopia, perché ritenere di poter affrontare efficacemente i problemi in maniera diversa è ridicola utopia”.  

(23 giugno 2016)

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