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Il fuorigioco, l’oceano blu e la giarrettiera: alcuni spunti sull’odierno studio del diritto (di Giovanni Cossa, Il Merito n. 3/2019)

1.Due libri

Questo breve contributo era stato immaginato comesegnalazione bibliografica di un volume in tema di formazione del moderno giurista, recentemente edito (o tale era al momento della data di pubblicazione originariamente prevista) per i tipi di Giappichelli (2018). Il passare del tempo rispetto alla primitiva ideazione ha determinato due conseguenze. Da un lato, ha permesso che esso venisse arricchito dalla menzione di un secondo lavoro monografico, su temi “ideologicamente” confinanti col primo. Dall’altro, ne ha suggerito l’integrazione con ulteriori considerazioni – naturalmente soggettive, e pertanto potenzialmente non condivisibili – scaturite da una panoramica sullo “stato dell’unione” accademica italiana. Anzitutto, però, ilprimo libro: Gli attrezzi del giurista. Introduzione alle pratiche discorsive del diritto, ad opera di Emanuele Stolfi.

Il lavoro trae evidentemente spunto da un’esperienza di insegnamento universitario, segnatamente verso studenti dei primi anni di corso (e su materie romanistiche), a cui esplicitamente si rivolge in Premessa (sintomatica è la scelta di concentrare le note bibliografiche nella sezione finale del testo, per agevolarne la lettura). Tuttavia, pur se forzando l’“interpretazione autentica” dell’Autore, credo che una sua consultazione sarebbe ben più che feconda per tutti coloro che – anche dopo l’anno da matricola – abbiano in animo di dedicarsi alle professioni giuridiche, e forensi in particolare. Benché il registro e lo stile siano scelti per essere fruibili da una platea potenzialmente non pratica dei tecnicismi della lingua giuridica, e anzi appositamente allo scopo di chiarirequesti ultimi, lo “strumentario” che viene illustrato è senza dubbio irrinunciabile per chiunque voglia maturare delle competenze che vadano al di là della nuda memorizzazione di norme e istituti giuridici. La recente integrazione della disciplina relativa all’accesso all’albo forense – il D.M. 17/2018, di cui è peraltro stata rinviata l’entrata in vigore, secondo un ben noto mos italicus– richiede, ad esempio, una preparazione non solo giuridica, bensì contestualmente lessicale e retorico-argomentativa.

In cosa consiste dunque questo “strumentario”? Anzitutto, nelle molteplici operazioni linguistiche che ogni giurista è chiamato quotidianamente a compiere, talvolta senza rendersene conto. Mi pare che appunto un simile tasso di inconsapevolezza, spesso sfociante in un’inesatta formulazione delle stesse, non affligga solamente le matricole di giurisprudenza (come è fisiologico), e si riveli particolarmente sconsigliabile nell’esercizio delle professioni legali. Non essere in grado di fornire la definizione di un istituto oppure di classificare le varie ipotesi di applicazione di una norma sono carenze di gravità equiparabile alla mancata padronanza dei vari codici; e altrettanto è a dirsi per l’incapacità di interpretare un documento o una risultanza probatoria, come di costruire un solido ragionamento in grado di dimostrare una tesi determinata. Si tratta, del resto, di nozioni che raramente trovano spazio in un curriculumuniversitario, sia perché pochissimi Atenei ritengono opportuno prevedere corsi di retorica forense o argomentazione giuridica, sia perché lo studente medio non si troverebbe comunque invogliato a seguirli, preferendo loro insegnamenti di taglio illusoriamente più pratico, magari incentrati su tematiche dal visus attraente e dall’ambito necessariamente ristretto (i “Fondamenti giuridicidella musica pop” e finanche un controversiale “Diritto del fuorigioco”, sebbene palesemente irrazionali, avrebbero di sicuro più studenti della vieta “Logica giuridica”).

Stolfi, allora, si impegna in un percorso esplicativo tra le operazioni linguistiche e logiche che si materializzano continuamente nel lavoro del giurista – inteso latamente come “colui che si occupa del diritto” – e che non possono ormai essere trascurate. Dopo alcune premesse di carattere generale, allora, il libro si addentra nella “specialità” del linguaggio giuridico, per poi passare a delineare gli schemi operativi e le tipologie di proposizioni. Si passa così dalla qualificazione (essenziale, nel campo del ius, per l’inquadramento dei fatti e degli istituti) alla definizione (solo illusoriamente banale, e in realtà compito tra i più ardui), dall’elenco alla classificazione (con i loro tratti necessariamente distinti): tutto ciò, senza dimenticare la dimensione “isagogica”, e quindi accompagnando le enunciazioni teoriche con dovizia di esempi e digressioni. Si viene, poi, nella seconda parte del volume, a intercettare un nuovo ordine di problematiche, quelle concernenti il modo di ragionare dei giuristi, e le tecniche affinché le diverse asserzioni possano essere riconosciute come fondate: vengono toccati, pertanto, i meccanismi deduttivi e induttivi che guidano l’argomentazione giuridica, a partire dal sillogismo. Prima di affrontare, però, in modo più esplicito proprio l’argomentazione, c’è spazio per addentrarsi nelle pieghe della lingua tecnica che quotidianamente utilizziamo, sia sotto il profilo dei processi semantici rilevanti – metafora e metonimia, ad esempio, non sono concetti limitati alle lezioni di italiano delle scuole superiori –, sia in relazione a un procedimento indispensabile quale l’interpretazione: dall’attribuzione di un senso a un enunciato, alle nozioni di “chiarezza” e “oscurità”, fino alle tecniche dell’ermeneuticagiuridica e ai suoi protagonisti. Di seguito, si torna a parlare di argomenti e di fondamento logico del ragionamento, snodi centrali nella pratica giuridica in generale, e forense in particolare: la visuale è quella, di ascendenza “neo-retorica” (e perelmaniana dunque), che collega l’argomentazione alla persuasione di un uditorio, quale dimensione proficua attraverso la quale riscoprire il valore degli strumenti oratori del passato (non mancando alcune intuizioni originali, come quella concernente il valore dell’“argomentazione” del giudice). Particolarmente interessanti risultano, in questa chiave “pragmatica”, i chiarimenti sui vari argumenta a disposizione del giurista (analogico, a contrarioa fortiori, per citarne alcuni), nonché sulle strategie per usarli e disporli nel modo più efficace. Infine, si precisano talune situazioni genericamente “patologiche” che possono affliggere le norme (vaghezza e ambiguità, lacune e antinomie, indicando la via per individuarle con precisione e ovviarvi), per chiudere con la descrizione delle fallacie, ossia dei vizi logici più comuni, in cuinormalmente si incorre senza attribuirvi importanza (importanza che, invece, in un sistema che ancora fa della razionalità delle norme e delle decisioni un obiettivo e un paradigma, non dovrebbe essere affatto sottostimata): dall’ignoratio elenchi alla petizione di principio, passando tra  numerosi “finti” argomenti, quali quelli ad hominem o ad baculum.

Insomma, siamo davanti a un terso repertorio di mezzi posti nella disponibilità degli studenti, rispetto ai quali si avverte l’esigenza improrogabile di offrire qualcosa di più della mera cognizione, per quanto ragionata, delle regole legislative. Sulla medesima linea di supporto all’apprendimento del diritto, benché su un livello diverso, ossia anteriore, si colloca un ulteriore scritto di Stolfi (in collaborazione stavolta con Stefano Benvenuti e Roberto Tofanini): Verso Giurisprudenza. Guida alle prove di accesso ai corsi di laurea giuridici (Giappichelli, 2019).

Il titolo racconta molto dell’intento e dei contenuti di un volume che si rivolge addirittura a coloro che, salutando le scuole superiori, desiderino imbarcarsi nel periglioso viaggio verso una laurea in materie giuridiche. Costoro si trovano, da qualche anno a questa parte, a misurarsi con un esame preliminare relativo alle proprie “conoscenze iniziali”, che dovrebbe rappresentare un primo momento di autoverifica personale sulla disposizione a quel percorso di studio. Senonché, a differenza dei test d’ingresso nelle Facoltà a numero chiuso, quella prova non assume generalmente carattere vincolante, bensì implica solamente che il giovane debba in qualche modo “sopravvivervi”, riuscendo a superarlo anche con più tentativi, e dopo avere ormai intrapreso il percorso di apprendimento, magari lasciandosi alle spalle qualche esame del primo anno. Il carattere solo “consultivo” – nel senso di consiglio per il proprio futuro che lo studente può trarne – comporta una concreta attenuazione del valore effettivo del test, su cui si avrà occasione di tornare. 

In realtà, e a ragione, il testo in oggetto prende molto sul serio la preparazione alla prova, e si propone di colmare una lacuna esistente nel panorama bibliografico attuale: quella dei sussidi per lo studio in vista dell’esame di accesso. A mio modo di vedere, peraltro, esso potrebbe dimostrarsi utile a isolare e risolvere le principali manchevolezze nella cosiddetta “cultura generale” dei diplomati, individuando materie e questioni di cui è essenziale che essi abbiano conoscenza (cosa che – parlando per esperienza personale – è ben lontano dall’essere la normalità). L’approccio, del resto, è eminentemente pratico. Poiché il questionario deve vertere, nei suoi tratti costitutivi fondamentali (previsti uniformemente a livello nazionale), su tre “aree tematiche”; e poiché, al tempo stesso, non sarebbe stato opportuno né ragionevole allestire un complessivo manuale che trattasse in termini “istituzionali” di tutte le materie che in quelle aree ricadono; si è scelto, allora, di impostare il materiale come una serie di (centinaia di) domande esemplificative (con relativa risposta), che possano costituire un modello per le prove che potenzialmente i candidati si troveranno ad affrontare (e forse – potremmo ipotizzare – per taluno dei docenti che dovessero trovarsi a scegliere come conformarle, almeno nei termini di un modello generico). Quelle grandi sfere del sapere riguardano la “Storia politica e istituzionale”, la “Cittadinanza e la Costituzione” e la “Logica e argomentazione”; i quesiti, d’altronde, sono principalmente frutto dell’esperienza degli Autori nell’orientamento universitario e nella materiale redazione di test per le future matricole dell’Università di Siena, ma vengono arricchite da tutta una serie di possibili varianti, declinate in funzione dell’efficacia didattica. Come si nota, si tratta di un lavoro, benché lontano da profili teorici (o forse proprio per quello), estremamente prezioso e – plausibilmente – destinato a riscuotere immediata fortuna nella prassi della preparazione all’ingresso a Giurisprudenza. La sua diffusione, pertanto, andrà di pari passo con l’attrazione di quest’ultimo cursus studiorum, e anzi ne sarà forse un indice piuttosto attendibile.

 

2. Molti problemi

Se vogliamo allora cercare di allargare lo sguardo e ricostruire il quadro d’insieme di questa composita operazione diretta agli studenti delle discipline giuridiche, è opportuno avere contezza del contesto in cui essa si vuole calare. Per far ciò, appare utile tornare all’idea che non vi sia la materiale possibilità di intendere le nude norme, e avvalersi consapevolmente e utilmente di esse nella professione, qualora non si maneggino le basilari nozioni critiche di cui si è discorso finora. Tali cognizioni, invero, non sembrano generalmente potersi acquisire là dove ci aspetteremmo, ossia nella formazione universitaria. A questo punto viene però da chiedersi: cosa è andato storto nell’evoluzione del metodo accademico perché un libro come quello appena segnalato passasse dall’essere opportuno, al divenire assolutamente necessario?

Conviene partire dai numeri. Un recente articolo dello stesso Stolfi su questa Rivista ha trovato singolare ma non imprevedibile conferma in alcune statistiche rilanciate nei mesi passati suiquotidiani nazionali, che tratteggiano una riduzione decennale degli iscritti a Giurisprudenza nell’ordine di quasi il 40% di unità. Da un lato, una riflessione sulle ragioni e i possibili rimedi dellacontemporanea crisi dell’insegnamento giuridico, nelle sue forme costitutive come nel suo prestigio tradizionale, e dall’altro lato, il riscontro empirico – per la verità espressivo di una tendenza sempre più marcata degli ultimi tempi – dalla migrazione verso diversi e più appetibili corsi di laurea.

Per capire meglio quella che ha l’apparenza di una vera spirale viziosa, potenzialmente suscettibile di condannare alla (non troppo) lenta desertificazione le Facoltà, o meglio i Dipartimenti giuridici, credo che sia interessante tornare al momento antecedente a questa fase di abbandono, per cogliere quale sia stato il fattore determinante nell’inversione di andamento. In altre parole, cosa ha causato la progressiva “fuga” verso più allettanti itinerari di studio? Ebbene, sono anche io convinto che a questo esito abbiano contribuito molteplici fattori, spesso sottovalutati dalle istituzioni politiche e accademiche, quali, tra gli altri, la svalutazione delle professioni (non solo forense, ma anche giudicante, come si deve ammettere se ci si spoglia delle ipocrisie di comodo), la deflagrazione del novero delle Università (ormai sempre più staccate dal rapporto con la “fisicità” della didattica,per agganciarsi alla supposta maggiore “potabilità” della forma telematica), l’introduzione di nuovi cursus abbreviati (che avrebbero dovuto offrire percorsi funzionalizzati a determinate professionalità, ma nella specializzazione hanno dovuto rinunciare alla completezza e, spesso, alla profondità dell’insegnamento). In questa sede, però, preferisco soffermarmi su quella che mi appare essere una differente e altrettanto decisiva causa del fenomeno in esame, che anzi dovrebbe rappresentare il sostrato, la base fattuale su cui si sono innestate tutte le altre appena indicate: la quantità esorbitante di matricole nelle discipline giuridiche, all’alba di quella inversione di trend.

Potrebbe sembrare un paradosso che nel volgere di pochi anni il panorama si sia rovesciato così radicalmente, ma – se ci pensiamo bene – ogni crisi discende da situazioni di tensione che superano il limite, o da eventi scatenanti che fanno crollare l’intero equilibrio del sistema. A me pare che nel nostro caso si sia verificato un meccanismo del primo tipo, proprio in forza del concorso di quei fattori rammentati. E credo anche che, vista la natura irreversibile di alcuni di essi, occorra ormai ragionare nell’ottica dei rimedi e delle prospettive di recupero in termini molto realistici, senza sperare di poter tornare al passato glorioso semplicemente recuperandone le forme, a ora difficilmente riproponibili. Qualcosa di nuovo, dunque, come nuovo è il quadro sociale ed economico, a cui le professioni giuridiche devono rivolgersi: un insegnamento svincolato da esse non può concepirsi come attrattivo, ma nemmeno come sostenibile allo stato attuale.Da un lato, le contingenze economiche, che in generale rendono sempre più elitaria l’aspirazione allo studio universitario, trasformano quasi in miraggio la mobilità interna e la circolazione di studenti verso sedi diverse da quelle più prossime ai luoghi di provenienza. Dall’altro, i meccanismi ormai eminentemente premiali di ripartizione delle risorse ministeriali ingenerano una serrata concorrenza tra Atenei che, già da qualche tempo, finisce per innestare una serie di reazioni a catena: la loro ricaduta ultima si produce rovinosamente sul piano della didattica. E siamo,appunto, al circolo vizioso al quale è sempre più arduo sfuggire: la preferenza della matricola non si gioca quasi mai sulla riduzione dei costi per l’acquisizione del sapere, e solo sporadicamente sul rafforzamento o sull’ampliamento delle strutture per la ricerca, visto che è proprio per ottenere dei fondi mancanti che la contesa si inasprisce. La direzione designata, e ormai diffusamente praticata, è un’altra, quella di riforme dell’offerta formativa, che possano rendere alcune Università più affascinanti di altre.

Il vero problema di questo ordine di considerazioni, però, è che gli strumenti impiegati potrebbero addirittura finire peraggravare le criticità, secondo almeno due linee di faglia: in primo luogo, perché la moltiplicazione di materie eccessivamente schiacciate su settori richiesti dal mercato favorisce la creazione di una conoscenza giuridica estremamente parcellizzata. Lo studente si abitua a percepire, e analizzare, di volta in volta solo unproblema specifico o uno scorcio limitato del diritto, finendo per ottenerne un’immagine frammentaria e incompleta: con molti istituti specifici avrà magari una dimestichezza esemplare, ma gli mancherà quasi sicuramente la visione d’insieme del complesso delle relazioni giuridiche, che appare sacrificata nella scelta di un iter formativo segnato da approfondimenti puntiformi. In seconda istanza, e conseguentemente, non è un mistero che le prime a essere mortificate, nella medesima logica, sono le discipline giudicate meno o per nulla spendibili nelle professioni legali del post-laurea: de plano, le materie storiche e quelle filosofiche.Oltre alla progressiva mistificazione che esse vanno incontrando nei percorsi scolastici – da ultimo, la cancellazione della traccia storica nelle prove di Maturità, che anche all’uomo della strada farebbe venire alla mente la celebre citazione di Primo Levi sulla condanna a rivivere il passato per chi lo dimentica –, si assiste da tempo a una “guerra di trincea” che, nei Dipartimenti giuridici così come a livello di programmazione ministeriale, i relativi docenti devono combattere per evitare di essere confinati nelle “riserve indiane” (talune – va detto – colpevolmente autoimposte), guardati con sospetto e sufficienza dai colleghi “latori” della modernità giuridica. Credo che sia, peraltro, opportuno rifletteresu entrambi i profili ricordati.

In merito alla “settorialità” del sapere emergente dal restyling dei corsi di laurea in chiave sempre più attualizzante, credo che la direttrice assunta sia abbastanza pericolosa. C’è un rischio insito nella moltiplicazione degli insegnamenti in funzione della richiesta del mercato, o nella costruzione di piani di studio plasmati sulla preparazione di precise professionalità: è quello di snaturare l’essenza dell’insegnamento del diritto, e dimenticarne i tratti costitutivi. Invero, un Ateneo giuridico non può ragionare come un’azienda – benché vi sia indotta dal regime dei finanziamenti statali e privati – per uno sconfinato numero di ragioni: tra di esse, non sottovaluterei quella attinente alla strategia operativa. Un azzardo equivalente a quello rappresentato dal concentrarsi prevalentemente su argomenti circoscritti mi sembra che possa ravvisarsi in una diversa proposta didattica, che va facendosi strada: è quella di un’Università che creacostantemente materie a immagine della pratica economica. Ebbene, siamo di fronte a qualcosa di paragonabile a quella che in ambito economico è chiamata “Blue Ocean Strategy”: essaconsiste nel superare la concorrenza scegliendo di non lottare per prevalere su mercati esistenti, bensì di innovare creandone di nuovi. Ma tale metodo, se risulta vincente per i soggetti economici, non può esserlo per quelli culturali, laddove imponga di perdere di vista il mercato di riferimento iniziale (quello che viene detto “oceano rosso” e comprende tutti i settori – nel nostro caso i settori disciplinari – già noti). Fuori dalla metafora e a mero titolo di esempio, non mi si convincerà, da un lato, che insegnare delle “Istituzioni di vigilanza bancaria”, solo perché il tema è di attualità pressante (e rappresenterebbe un soggetto di studio ben delimitato), sostituisca un completo corso di “Diritto bancario”(che sarebbe l’“oceano rosso”), nel processo formativo di uno studente, né che, dall’altro lato, abbia effetti realmente formativi compatibili con la reale funzione dell’istruzione universitaria il creare magari una cattedra di “Legislazione dell’e-banking” (un potenziale “oceano blu”). Lo stesso potrebbe dirsi, ovviamente, in riferimento a tutti i settori disciplinari, da quelli storici a quelli “positivi”. Se la nuova strada comporta la compressione degli spazi riservati alle nozioni (tradizionali sì, ma in quanto) fondamentali, ritengo che non indirizzi verso risultati positivi; e ciò ci conduce al secondo punto.

Quali sono le materie fondamentali? Chi può e deve giudicarle? Come si conquista quel “rango”? Il discorso sarebbe lungo e complesso, e non si potrebbe certo esaurire in un articolo. È chiaro però che alcuni dati oggettivi possono ancora – pur nella mobilità dei tempi moderni – essere tenuti per fermi: è chiaro, cioè, che da alcuni insegnamenti basilari non si può prescindere, come del resto continua a sostenere lo stesso legislatore, con le varie tabelle ministeriali; come lo è altrettanto che simili corsi dovrebbero godere di un’inamovibile obbligatorietà nei piani di studio, senza subire una concorrenza che spesso è suggerita da motivi di nuda politica accademica. Tuttavia, nello specificoalcuni rilievi problematici possono essere sollevati. In particolar modo, ci si dovrebbe chiedere se l’utilità, o meglio l’insostituibilità dei corsi universitari debba essere ormai determinata sulla base della loro attualità, e di conseguenza del richiamo che essi possono esercitare sullo studente in pectore: nei tempi moderni non si tratta più di una domanda retorica.

Non è mia intenzione riprendere, d’altro canto, la vexata quaestio delle discipline storico-filosofiche, di cui già haabbondantemente informato Emanuele Stolfi nell’articolo già citato. Si può, però, aggiungere che proprio il primo libro qui segnalato – e non è evidentemente un caso che l’Autore sia il medesimo – ci riporta al cuore del problema. Un’offerta didattica orientata su contenuti sempre più puntuali – a scapito della prospettiva storica e teorica che ogni normativa positiva presuppone, e da cui è originata e motivata – non fa che rafforzare il concreto rischio di predisporre per gli affamati studenti una tavola imbandita con pietanze sempre più raffinate e particolari, ma senza aver loro spiegato prima come e, soprattutto, per quale ragione ci si nutra. Certo, lo apprenderanno nella pratica – che, nei fatti, è quella delle professioni legali –, ma in essa verranno calati senza i consoni strumenti critici che permettano loro di comprendere veramente le norme, e non di esserne proni utilizzatori. Dovrebbe rimanere allora intoccabile il compito dell’Università di predisporre una proposta che si faccia carico di fornire proprio quegli strumenti critici agli aspiranti giuristi (non potendoci per ora realisticamente aspettare – absit iniuria verbis –  una riforma dell’insegnamento scolare che aiuti a compensare i difetti di cui si discorre, come sarebbe idealmente possibile trattandosi comunque di problematiche connesse a operazioni linguistiche e logiche, e non strettamente giuridiche).

 

3. Una soluzione?

Dopo questa ricostruzione apparentemente pessimistica, è forse il momento di introdurre qualche considerazione costruttiva, individuando dei possibili rimedi. Un primo, non ininfluente, intervento, in realtà, non sarebbe un correttivo, ma consisterebbe nell’usare prudenza rispetto a quelle recenti tendenze “espansive”dell’offerta formativa di cui si è parlato: sono però dell’idea che si tratti di un “cervantesco” assalto ai mulini a vento, e che forse sia meglio guardare a qualcosa di più realizzabile. Come si garantisceil livello della docenza universitaria? In vari modi, ça va sans dire, ma poiché qui mi sto occupando del lato didattico e dei cursus studiorum, sono convinto che uno dei mezzi più efficaci sia quello di assicurare una maggiore selettività. Se vogliamo, cioè, ragionare davvero in termini di mercato e concorrenza, è appunto la difficoltà di ottenere un dato bene a misurarne molto spesso il prestigio, e senza dubbio a renderlo più appetibile ai potenziali fruitori (è la dimensione dello “status symbol”). Trasponendo, quindi, il discorso sul piano dell’Accademia, il percorso – a mio parere – più breve, per restituire lo status di dignità confacente allo studio del diritto, consiste nell’introdurre il “numero chiuso”per i corsi di Giurisprudenza, o almeno per la laurea magistrale. 

Con un ammontare contingentato di accessi, selezionati in base al merito, si otterrebbero una serie di risultati pratici di sicurosegno positivo: si opererebbe una cernita ex ante sugli studenti più motivati e preparati (constatando che i test sulle conoscenze preliminari delle matricole – come osservato – non rappresentano alcun tipo di deterrente verso i meno pronti, da un lato, e che manca da cinquant’anni in Italia un sistema scolare superiore che aiuti a indirizzare gli alunni verso il percorso più adatto a loro); si garantirebbe la presenza di un numero di studenti sostenibile per le strutture a disposizione (le quali – abbiamo visto – non possono più espandersi all’infinto in mancanza di finanziamenti statali), sulla scorta di quanto già accade con Medicina; si formerebbe un numero di laureati corrispondente, o comunque non superiore, alla richiesta del mercato delle professioni giuridiche (ma anche degli altri posti pubblici per i quali il nostro titolo è requisito, concorsi inflazionatissimi allo stato); con ciò, si incentiverebbe lo studente a concludere rapidamente e con profitto il proprio iter, nella prospettiva di un’occupazione non più così aleatoria; infine, tornando alla radice del problema, si stimolerebbero le nuove leve ad aspirare allo studium iuris, e a competere per intraprenderlo.Un circolo nuovamente virtuoso, dunque.

Naturalmente, a questa riforma strutturale dovrebbe accompagnarsi il recupero o il mantenimento di un livello soddisfacente di didattica, ma i due aspetti non sono disgiunti. A fronte di una realtà in cui i posti di accesso siano ovunque limitati, e la base di selezione sia la medesima, la scelta della sede sarebbe più facilmente effettuata sulla base dell’offerta di apprendimento. Quindi le Università non sarebbero certo esentate dal mantenere una qualità alta della docenza e della ricerca, laddove oggi sembra che ciò sia motivato solamente dall’intento di compiacere i servizi di valutazione nazionale per ottenere più risorse. D’altronde, mi pare che solo un sistema con queste caratteristiche potrebbeveramente giustificare il sanguinoso livello delle tasse universitarie, che gravano esizialmente sui bilanci familiari. In definitiva, non si tratterebbe di essere “costretti” al “numero chiuso”, come recitava un articolo di qualche mese fa su Corriere.it, a firma di Milena Gabanelli (da un angolo visuale però diverso); si tratta, piuttosto, di introdurlo con coscienza quale meccanismo potenzialmente in grado di invertire la tendenza al deprezzamento delle carriere giuridiche, da tempo in atto. 

Si potrebbero formulare – e si formulano nella realtà – varie obiezioni contro questa idea di restrizione: non posso che richiamare le più sensibili. Anzitutto, si afferma che essa causerebbe una limitazione di fatto al diritto allo studio tutelato in Costituzione, frustrando le aspettative di molti. In realtà, premesso che l’esempio della laurea in Medicina rappresenta un valido precedente, non si comprende dove starebbe l’effetto “antidemocratico” del numero chiuso. Posto che l’ammissione dovrebbe essere incentrata su criteri meritocratici (ideando cioè delle forme di preselezione idonee a individuare coloro che siano effettivamente i più portati alla disciplina), e non certo su basi sociali o economiche (anzi mantenendo vigorosi sostegni statali per rendere effettivo proprio il diritto previsto dagli artt. 3 e 34 Cost.) o di provenienza territoriale, non si violerebbe certo l’uguaglianza dei cittadini, a meno di non male interpretare questa come un egualitarismo forzoso che abbatte ogni prospettiva di valorizzazione delle capacità personali. Non si tratta di introdurre un regime elitario, fondato sulla esclusività e sul privilegio; non si dovrebbe, insomma creare un nuovo “Ordine della Giarrettiera” a beneficio dei pochi eletti per diritto di sangue: l’obiettivo sarebbe quello di attrarre i migliori (ovviamente con un’approssimazione dipendente dalle concrete modalità di selezione), e nel contempo risollevare lo spirito della materia. D’altronde, negli anni in cui le Facoltà di Giurisprudenza erano prese d’assalto, quel curriculumera altresì reputato diffusamente un refugium peccatorum per i diplomati che non avessero alternative: una soluzione molte volte di ripiego, per giovani che non avevano nemmeno ben chiaro cosa andassero a intraprendere, quando non un “parcheggio” a tempo indefinito. La ricaduta di lungo periodo si è osservata negli anni recenti: a essere presi d’assalto sono gli esami di accesso alle professioni e i concorsi nel settore legale, con tutte le conseguenze negative che si immaginano (anzi, più che immaginare, si toccano con mano: tra le altre, offuscamento dei valori di preparazioneindividuale, abbassamento generale del livello delle professioni più “accessibili”, assenza di prospettive occupazionali), e che realizzano un quadro assai meno “democratico” di quello temuto col numero chiuso. Ma tutto questo è derivato precisamente da una situazione di sovraffollamento dello studio del diritto: e allora, quella che sembrerebbe una soluzione paradossale – ossia, in un momento di crollo delle iscrizioni, porre un “calmiere” alle medesime – risulta forse l’unica prospettiva per garantire un futuro a quel medesimo studio. A margine, va comunque ribadito che altre sono le possibili riserve, e merita anche ricordare che alcune delle resistenze più forti a questa prospettiva vengono opposte giocando su argomenti di tipo “politico”, con considerazioni che riconducono agli ordini professionali: in merito a esse, però, è qui preferibile astenersi.

Perché una simile proposta non rimanga al livello delle utopie, occorre del resto segnalare che vi è già un Ateneo che si è mosso su questa via, quello di Verona: presso quella sede, a partire dall’a.a. 2018/19 è stato introdotto il “numero programmato”, proprio allo scopo di consentire una maggiore qualità della didattica e una più concreta aspettativa di sbocchi lavorativi. Ciò ha comportato la predisposizione di un test d’entrata coerente con il percorso giuridico, pur se si sono rese necessarie più selezioni progressive per assegnare il totale dei posti messi a bando. Ma il mancato raggiungimento della quota prefissata non depone per forza contro il meccanismo adottato: anzitutto, perché potrebbe essere solo necessario calibrare il numero degli accessi; in secondo luogo, e più incisivamente, perché siamo ancora all’inizio di un percorso che, per produrre effetti tangibili, dovrebbe essere uniforme sul piano nazionale (l’attrattività di corsi ancora a “numero aperto” non gioca certo a vantaggio di chi sceglie di “chiuderlo”). A ogni modo, non è un esempio tratto da un paese lontano ed esotico: sembra pertanto un passo che può, e dovrebbe, essere compiuto. Il rischio di trovarsi nella condizione di Medicina, per la quale si lamenta quotidianamente la scarsità di abilitati all’arte di Ippocrate a disposizione delle struttureospedaliere, è talmente remoto per Giurisprudenza – con lepeculiarità delle professione e del relativo mercato, e con il residuo di “esuberi” ancora in cerca di collocazione – che le polemiche rivolte a quel meccanismo di accesso non possano certo impensierire il legislatore (e i giuristi).

In conclusione, si tratta di una suggestione destinataprobabilmente a rimanere impopolare, ma – di fronte a uno status quo che continua a incrementare in proporzione geometrica la disaffezione verso lo studio giuridico, nonostante i tentativi di riformarne i connotati, e finanche lo spirito – sospetto che, in un arco di tempo non molto lungo, esso potrebbe divenire l’extrema ratio a cui aggrappare le speranze di un ritorno di gradimento da parte delle matricole. D’altronde, ciò che si va compiendo in questi anni non è altro che un numerus clausus di fatto; ma l’effetto di contrazione del corpo studenti, pur venendoastrattamente incontro alla medesima esigenza retrostante la programmazione normativa di un limite alle immatricolazioni,dev’essere tenuto ben distinto nella sostanza da quest’ultima.Infatti, è ben diverso uno scenario in cui si accede in pochi a un percorso ambito, da quello in cui lo si scarta perché inconcludente e poco stimato. Le obiezioni possibili sono spesso inconsistenti, e quindi facilmente sormontabili se si prenda coscienza dello stato di progressivo declino dell’apprendimento e del post-laurea giuridici: chi si oppone appare essenzialmente legato a logiche che non sembrano tenere conto delle criticità emerse nei tempi recenti.Queste ultime rappresentano la vera esigenza cui far fronte, in grado di superare anche il (pretestuoso) movente connesso al rispetto dell’uguaglianza sostanziale. Si potrà allora opporsi a chi lo brandisce prendendo davvero a esempio l’Ordine della Giarrettiera, ma solo per recuperarne simbolicamente il motto: “Honni soit qui mal y pense”.

(8 luglio 2019)

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