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ISSN 2532-8913

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Una riflessione sui limiti presunti e reali del silenzio-assenso (di Luca Bertonazzi)

L’esame di due recenti sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in tema di possibilità o meno di formazione per silentium del nulla osta degli Enti preposti alla gestione dei parchi, dà l’occasione per abbozzare una più ampia riflessione sui limiti costituzionali ed europei di quello strumento di semplificazione del procedimento amministrativo noto come silenzio-assenso.

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Silenzio-assenso e nulla osta dell’Ente parco: note a margine di due recenti sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

SOMMARIO: 1. La vicenda da cui è scaturita la Plenaria n. 9/2016. – 2. Irrilevanza, nella fattispecie concreta, della questione interpretativa rimessa alla Plenaria. – 3. Profili sui quali la Plenaria n. 9/2016 ha ritenuto di non soffermarsi. – 4. La vicenda da cui è scaturita la Plenaria n. 17/2016. – 5. Soluzione della questione interpretativa, questa volta rilevante, e relativo nucleo motivazionale. – 6. Qualche notazione critica: il ruolo del diritto costituzionale ed europeo nel dirimere la questione interpretativa. – 7. Segue: il ruolo della legge regionale. – 8. Segue: i limiti costituzionali del silenzio-assenso. – 9. Segue: i limiti europei del silenzio-assenso. – 10. Postilla sul seguito della vicenda decisa dalla Plenaria n. 17/2016.

  1. La vicenda da cui è scaturita la Plenaria n. 9/2016

Nel 2011 il proprietario di un fondo presentava ad un Comune una proposta di programma integrato di intervento in variante al piano di governo del territorio, da destinazione a verde pubblico a destinazione edificabile, per la realizzazione di un complesso commerciale-residenziale, un parco pubblico attrezzato, un parcheggio e le connesse opere di urbanizzazione.

Nell’ambito dell’iter di approvazione del programma integrato di intervento, in data 5 aprile 2012 il proprietario del fondo chiedeva all’Ente Parco Regionale dei Castelli Romani il nulla osta ai sensi dell’art. 13 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree naturali protette), richiamato dall’art. 28, comma 1, della legge regionale del Lazio 6 ottobre 1997, n. 29 (Norme in materia di aree naturali protette regionali).

L’Ente Parco, dopo aver richiesto un’integrazione istruttoria e comunicato il preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, comunicava all’interessato, il 10 dicembre 2013, un provvedimento recante diniego di nulla osta.

Avverso il diniego insorgeva davanti al TAR Lazio una società immobiliare, subentrata nella proprietà del fondo nelle more della procedura di formazione del programma integrato di intervento, sostenendone, in primis, l’illegittimità per essere intervenuto quando si era ormai formato il silenzio-assenso per l’inutile decorso del termine per provvedere pari a sessanta giorni (art. 13 della legge n. 394/1991, richiamato dall’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997) e senza il previo annullamento d’ufficio del titolo abilitativo tacito. In seconda battuta, la ricorrente censurava la motivazione addotta a supporto del gravato provvedimento negativo.

Il TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, con sentenza 6 agosto 2014, n. 8744, respingeva il ricorso, ritenendo l’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 (richiamato dall’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997) tacitamente abrogato dall’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, che, siccome novellato dall’art. 3, comma 6-ter, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 (conv. con mod. in legge 14 maggio 2005, n. 80), escluderebbe la possibilità di formazione per silentium di titoli abilitativi in materia paesaggistica e ambientale. Il TAR giudicava infondate pure le ulteriori censure articolate, in subordine, nei riguardi delle ragioni enunciate a sostegno dell’impugnato diniego.

La società immobiliare, soccombente in prime cure, interponeva appello al Consiglio di Stato, sostenendo che l’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991, lungi dall’essere stato tacitamente abrogato dalla riformulazione dell’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990 ad opera del decreto legge n. 35/2005, sopravvivrebbe come norma speciale; si doleva altresì dei capi della sentenza appellata che avevano respinto i motivi di diritto prospettati, in seconda battuta, a carico della motivazione a corredo del diniego di nulla osta.

Si costituiva nel giudizio d’appello, come già nel precedente giudizio di prime cure, l’Ente Parco dei Castelli Romani. All’esito dell’udienza del 17 novembre 2015, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 9 febbraio 2016, n. 538, rimetteva all’Adunanza plenaria dello stesso Consiglio di Stato la questione del rapporto tra art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 e art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990 (come novellato nel 2005), registrando sul punto un contrasto di giurisprudenza.

Un primo orientamento postulava la perdurante vigenza dell’art. 13, comma 1, cit. come norma speciale, peraltro rispettosa dei limiti costituzionali ed europei del silenzio-assenso. La norma generale successiva (art. 20, comma 4, cit.) non avrebbe tacitamente abrogato l’anteriore norma speciale (art. 13, comma 1, cit.)([1]). Lex posterior generalis non derogat priori speciali.

Altro indirizzo, invece, opinava nel senso dell’abrogazione tacita dell’art. 13, comma 1, cit. (datato 1991) ad opera dell’art. 20, comma 4, cit. (come novellato nel 2005), in applicazione del criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo (art. 15 Preleggi)([2]). Il divieto di silenzio-assenso nei settori “sensibili” enumerati nell’art. 20, comma 4, cit., sopraggiunto nel 2005, si porrebbe in una relazione di radicale incompatibilità con (la perdurante vigenza di) pregresse ipotesi di silenzio-assenso in quegli stessi settori([3]).

La Quarta Sezione esprimeva una preferenza per quest’ultima tesi, anche sulla base di una “linea di tendenza” del nostro ordinamento nel senso di escludere la possibilità di formazione di titoli abilitativi per silentium in settori “qualificati” quali il paesaggio e l’ambiente([4]).

All’udienza del 27 aprile 2016, dopo la discussione delle parti, la causa era trattenuta in decisione. Di lì a un mese veniva pubblicata la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 24 maggio 2016, n. 9.

  1. Irrilevanza, nella fattispecie concreta, della questione interpretativa rimessa alla Plenaria

Giova, anzitutto, riportare testualmente – e negli stretti limiti di pertinenza – il quadro normativo di riferimento. Ai sensi dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato …”.

L’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997, rilevante in quanto è regionale il Parco dei Castelli Romani, richiama l’art. 13, comma 1, cit.: “il rilascio di concessioni o autorizzazioni, relativo ad interventi, impianti ed opere all’interno dell’area naturale protetta è sottoposto a preventivo nulla osta dell’ente di gestione ai sensi dell’articolo 13, commi 1, 2 e 4 della legge n. 394/1991”.

Il nulla osta, che esprime una verifica di “conformità” tra “l’intervento” progettato e “le disposizioni del piano e del regolamento” del parco, è “preventivo” rispetto al (successivo) “rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco”: si tratta, dunque, di provvedimento prodromico([5]) o presupposto, destinato a precedere il rilascio di ulteriori provvedimenti abilitativi “puntuali, ossia legittimanti un singolo e specifico intervento di trasformazione del territorio” (ad. plen., n. 9/2016, punto 9). L’intima ratio dell’istituto è così compendiabile: nulla, preliminarmente, osta – da parte dell’Ente parco (che verifica la conformità di uno specifico intervento progettato agli strumenti di pianificazione dell’area naturale protetta)([6]) – al successivo rilascio di titoli abilitativi puntuali, quali ad esempio l’autorizzazione paesaggistica e il permesso di costruire.

Ne discende – osserva correttamente la Plenaria n. 9/2016 – l’inapplicabilità dell’art. 13, comma 1, cit. nell’ambito dell’iter di formazione di atti di pianificazione urbanistica, siano essi strumenti urbanistici generali o attuativi, “quand’anche connotati da contenuti fortemente specifici e puntuali quanto a prefigurazione delle future trasformazioni del territorio, come è nel caso … del programma integrato di intervento”([7]) (ad. plen., n. 9/2016, punto 9).

L’Adunanza plenaria non ignora la “prassi diffusa” di coinvolgere l’Ente parco già nell’iter di perfezionamento di “strumenti urbanistici attuativi dal contenuto fortemente conformativo”, sì da “anticipare” un giudizio di compatibilità con il piano e il regolamento del parco, che viene così a cadere sulle scelte, in itinere, della pianificazione urbanistica di dettaglio, ma resta ferma la “necessità di acquisizione” del nulla osta di cui all’art. 13 della legge n. 394/1991 “nel momento successivo del rilascio dei titoli ad aedificandum, laddove solo è dato apprezzare in modo compiuto e globale l’impatto dell’intervento sul territorio” (ad. plen., n. 9/2016, punto 10)([8]).

Dunque, l’interpello dell’Ente parco già nella fase di formazione dello strumento urbanistico attuativo è avvenuto non già in applicazione del più volte citato art. 13 della legge n. 394/1991, ma “per più generali ragioni collaborative e di economia procedurale, non essendo né ragionevole né opportuno proseguire le attività intese all’esecuzione dell’intervento programmato e spingerle fino a un grado estremo di dettaglio prima di aver acquisito un primo parere dell’autorità preposta a valutarne l’impatto sul territorio” (ad. plen., n. 9/2016, in chiusura del punto 10).

Questa l’impeccabile conclusione cui perviene la Plenaria n. 9/2016 (punto 11): “il parere richiesto” (in data 5 aprile 2012 dalla proprietà del fondo) e reso negativamente dall’Ente parco (il 10 dicembre 2013), “malgrado il formale richiamo all’art. 13 della legge n. 394 del 1991, deve ritenersi estraneo all’ambito di applicazione di tale norma, siccome intervenuto non già nella fase prodromica al rilascio del titolo ad aedificandum, sibbene durante l’iter di formazione del retrostante programma integrato di intervento” (secondo una diffusa prassi, ispirata da ragioni di collaborazione e di economia procedurale).

Ne deriva la “non rilevanza ai fini della definizione del … giudizio della questione di diritto devoluta all’Adunanza plenaria dalla Sezione Quarta del Consiglio di Stato” e, nel contempo, l’infondatezza dei motivi di diritto fondati sulla supposta applicabilità dell’art. 13 della legge n. 394/1991 e sul supposto perfezionamento del silenzio-assenso (ad. plen., n. 9/2016, punto 12). La Plenaria restituisce la causa alla Sezione rimettente “per l’esame dei residui motivi d’appello [che riproducono, arricchiti da specifiche critiche alla sentenza reiettiva del TAR Lazio, le doglianze delineate, via subordinata, nei confronti delle ragioni alla base del ‘diniego’ – rectius: parere negativo – opposto dall’Ente parco] e la definizione totale della controversia”, riservando alla sentenza definitiva (del grado di giudizio) “ogni ulteriore statuizione, anche sulle spese di lite” (ad. plen., n. 9/2016, punti 13 e 14).

Le conclusioni cui addiviene la Plenaria n. 9/2016 sono condivisibili, così come il retrostante percorso argomentativo. La sentenza, depositata a poco meno di un mese di distanza dall’udienza di discussione, è scritta in modo chiaro e sintetico.

  1. Profili sui quali la Plenaria n. 9/2016 ha ritenuto di non soffermarsi

Residuano, però, alcuni profili d’interesse, sui quali la Plenaria, preferendo restituire la causa alla Quarta Sezione per la sua “definizione totale”, ha ritenuto di non soffermarsi.

Se è vero (come è vero) che il coinvolgimento dell’Ente Parco nell’ambito dell’iter di formazione di uno strumento urbanistico attuativo è avvenuto per “ragioni collaborative e di economia procedurale, non essendo né ragionevole né opportuno proseguire le attività intese all’esecuzione dell’intervento programmato e spingerle fino a un grado estremo di dettaglio prima di aver acquisito un primo parere dell’autorità preposta a valutarne l’impatto sul territorio” (ad. plen., n. 9/2016, in chiusura del punto 10), allora all’Ente parco è stato, nella specie, richiesto (nient’altro che) un parere facoltativo (che significa, come è noto([9]), parere a richiesta facoltativa).

Non paiono, pertanto, inappuntabili, sotto il profilo squisitamente terminologico, tre passaggi della sentenza n. 9/2016, nei quali si discorre di “anticipare alla fase di formazione” dello strumento urbanistico attuativo “l’acquisizione del nulla osta dell’Ente Parco”, di “eventuale anticipazione della richiesta di nulla osta alla fase di approvazione del piano attuativo” (punto 10) e di “parere richiesto … e denegato dall’Ente parco” (punto 11).

Invero, non di “nulla osta” (acquisito anticipatamente) si tratta, bensì di parere facoltativo. E non di parere “denegato”, cioè non reso, bensì di parere (espresso ma) negativo. Di ciò la Plenaria si mostra perfettamente consapevole, sicché l’appunto ora mosso è (in verità sterile poiché) puramente terminologico.

Venendo a notazioni più sostanziali, nel caso di specie il parere è stato richiesto all’Ente Parco non dal Comune, nell’esercizio del potere di approvazione del programma integrato d’intervento, bensì dal privato che quel programma aveva presentato al Comune.

Colta questa particolarità fattuale, ci si deve chiedere, in diritto, se incomba o meno sull’Ente Parco il dovere di svolgere funzione consultiva su uno strumento urbanistico in itinere, le volte in cui il parere gli sia richiesto in via facoltativa non già dal Comune – Amministrazione procedente, che istruisce e definisce la procedura di perfezionamento di quello strumento urbanistico – bensì dal privato che al Comune lo aveva sottoposto.

Solo riconoscendo il dovere di esprimere il parere facoltativo, risulterebbe utilmente esperibile nei confronti dell’eventuale inerzia dell’Ente Parco il ricorso avverso il silenzio-inadempimento (endoprocedimentale), che maturerebbe decorso inutiliter il termine, comunque non superiore a venti giorni, volta per volta stabilito ai sensi dell’art. 16, comma 1, secondo periodo, della legge n. 241/1990.

Ma l’art. 16 della legge n. 241/1990 dà per scontato che la richiesta di parere (anche facoltativo) promani sempre da un’Amministrazione. Se ne veda il comma 1, secondo periodo: “qualora siano richiesti di pareri facoltativi”, gli organi consultivi “sono tenuti a dare immediata comunicazione alle Amministrazioni richiedenti del termine entro il quale il parere sarà reso, che comunque non può superare i venti giorni dal ricevimento della richiesta”. Nell’art. 16, comma 2, primo periodo, della legge n. 241/1990 la “facoltà” di “procedere indipendentemente dall’espressione del parere” obbligatorio, invano richiesto([10]), è riconosciuta testualmente alla “Amministrazione richiedente”. Anche nell’art. 16, comma 2, secondo periodo, della legge n. 241/1990, a proposito del dovere di procedere “indipendentemente dall’espressione del parere” facoltativo, invano richiesto([11]), si discorre letteralmente di “Amministrazione richiedente”. Pure l’art. 16, comma 4, della legge n. 241/1990, dedicato al “caso in cui l’organo [consultivo] adito abbia rappresentato esigenze istruttorie”, stabilisce che il termine per rendere il parere è interrotto per una sola volta, e “il parere deve essere reso … entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da parte delle Amministrazioni interessate” (che sono, ancora una volta, quelle richiedenti il parere, non importa se obbligatorio o facoltativo).

Ne deriva – stando alla disciplina generale dei pareri, beninteso ove non derogata (come nella specie) da norme speciali – l’assenza, in capo all’Ente Parco, del dovere di esprimere un parere facoltativo richiestogli dal privato a proposito di uno strumento urbanistico attuativo in itinere, che lo stesso privato ha presentato al Comune. Il dovere sarebbe configurabile, invece, qualora la richiesta di parere facoltativo promanasse dal Comune: è solamente in questi limiti, pertanto, che sono apprezzabili le “ragioni collaborative e di economia procedurale” alla base della “prassi diffusa” di coinvolgimento precoce dell’Ente parco.

D’altra parte, è soltanto alla “pubblica amministrazione”, intesa come Amministrazione procedente (nella specie il Comune) – e giammai al privato – che spetta la valutazione attorno alle “straordinarie e motivate esigenze” che, sole, giustificano l’aggravamento del procedimento, sub specie di inserimento nel suo fluire di adempimenti non obbligatori in base alla pertinente normativa, quali sono per definizione i pareri facoltativi (art. 1, comma 2, della legge n. 241/1990).

L’Ente Parco che, malgrado la mancanza di un dovere di esprimersi, rendesse un parere magari poco e male ponderato, rischierebbe di porre le (autolesionistiche) premesse per eventuali censure di contraddittorietà nei riguardi del successivo rilascio o diniego del nulla osta di cui all’art. 13 della legge n. 394/1991, prodromico al rilascio dei titoli ad aedificandum.

Tornando al caso sottoposto alla Plenaria n. 9/2016, la qualificazione dell’atto impugnato alla stregua di parere facoltativo dovrebbe propiziare, in sede di sentenza definitiva (del grado di giudizio) da parte della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, (la riforma della sentenza del TAR Lazio e) la dichiarazione di inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza d’interesse a ricorrere (art. 35, comma 1, lett. b), c.p.a.): il parere facoltativo, quand’anche negativo, è (e rimane) un atto endo-procedimentale, privo di ogni attitudine lesiva. Resta salva l’impugnabilità, anche con motivi aggiunti([12]), del diniego comunale di approvazione del programma integrato d’intervento che dovesse sopravvenire lite pendente([13]). Così, a ben vedere, l’Adunanza plenaria ben avrebbe potuto([14]) decidere “l’intera controversia”, senza “restituire … il giudizio alla Sezione remittente” (art. 99, comma 4, c.p.a.).

  1. La vicenda cui è scaturita la Plenaria n. 17/2016

Parallelamente a quella appena descritta, si è sviluppata, dapprima sul piano sostanziale e poi su quello processuale, una vicenda-fotocopia che, per pura coincidenza, ha visto di nuovo protagonista l’Ente Parco Regionale dei Castelli Romani.

L’11 ottobre 2012 una società attiva nel campo delle comunicazioni elettroniche chiedeva all’Ente Parco il nulla osta per l’installazione di una stazione radio per la telefonia cellulare. L’8 gennaio 2013 perveniva alla società il c.d. preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990 e, successivamente, il diniego di nulla osta. La società domandava al TAR Lazio l’annullamento del diniego, in via principale perché tardivo rispetto al perfezionamento del silenzio-assenso (decorsi invano sessanta giorni dalla ricezione della domanda di nulla osta da parte dell’Ente Parco) e in via subordinata per altri motivi di diritto che qui non rilevano.

Il TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, con sentenza 16 gennaio 2015, n. 706, respingeva il ricorso, ritenendo per un verso l’art. 13, comma 1, della legge n. 349/1991 (richiamato dall’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997) tacitamente abrogato dall’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, siccome novellato nel 2005, e per altro verso insussistenti le ulteriori doglianze prospettate in seconda battuta.

La società soccombente in prime cure proponeva appello al Consiglio di Stato, invocando la perdurante vigenza della norma speciale di cui all’art. 13, comma 1, l. n. 394/1991; si doleva altresì dei capi della sentenza appellata che avevano disatteso i motivi di diritto articolati, in subordine, a carico del diniego di nulla osta.

Si costituiva nel giudizio d’appello, come già in quello di prime cure, l’Ente Parco dei Castelli Romani. All’esito dell’udienza del 14 gennaio 2016, la Terza Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 14 gennaio 2016 / 17 febbraio 2016, n. 642, rimetteva all’Adunanza plenaria dello stesso Consiglio di Stato la questione del rapporto tra art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 e art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990 (come novellato nel 2005), registrando sul punto lo stesso contrasto giurisprudenziale già constatato, pochi giorni prima, da Cons. Stato, Sez. IV, ord. 538/2016 cit.

In particolare, un primo orientamento sosteneva la perdurante vigenza dell’art. 13, comma 1, cit. come norma speciale, peraltro rispettosa dei limiti costituzionali ed europei del silenzio-assenso. Dunque, la norma generale successiva (art. 20, comma 4, cit.) non avrebbe tacitamente abrogato l’anteriore norma speciale (art. 13, comma 1, cit.) ([15]).

Altro indirizzo, invece, propendeva per l’abrogazione tacita dell’art. 13, comma 1, cit. (datato 1991) ad opera dell’art. 20, comma 4, cit. (come novellato nel 2005), in applicazione del criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo. Il divieto di silenzio-assenso nei settori “sensibili” enumerati nell’art. 20, comma 4, cit., sopravvenuto nel 2005, negherebbe la perdurante vigenza, in quegli stessi settori, di pregresse ipotesi di silenzio-assenso, da reputarsi tacitamente abrogate ai sensi dell’art. 15 delle Preleggi([16]).

Traspariva in controluce, in Cons. Stato, Sez. III, ord. n. 642/2016 cit., una certa inclinazione verso quest’ultima tesi, percepita come quella che più e meglio asseconda la linea di sviluppo del nostro ordinamento nel senso di escludere la possibilità di decisioni amministrative tacite in settori “qualificati” quali il paesaggio e l’ambiente([17]).

All’udienza dell’8 giugno 2016, dopo la discussione delle parti, la causa era trattenuta in decisione. Di lì a poco più di un mese e mezzo veniva pubblicata la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 27 luglio 2016, n. 17.

  1. Soluzione della questione interpretativa, questa volta rilevante, e relativo nucleo motivazionale

Si anticipa subito la (condivisibile) conclusione cui approda la Plenaria n. 17/2016: l’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 non è stato tacitamente abrogato dalla riformulazione dell’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990 ad opera dell’art. 3, comma 6-ter, del d.l. n. 35/2005.

Dalla corposa motivazione – non sempre contenuta nei limiti della stretta pertinenza, non sempre chiara e non sempre rispettosa di un rigoroso ordine logico degli argomenti – non è però disagevole ritagliare l’intima ratio decidendi, in sé convincente e ottimamente sviluppata.

La Plenaria n. 17/2016 parte da una (nitida e preziosa) premessa (di metodo ermeneutico), che si vuol qui riportare per esteso: “a norma dell’art. 15 delle Disposizioni preliminari al codice civile, vi è abrogazione inespressa di una legge quando vi è incompatibilità fra nuove e precedenti leggi (abrogazione tacita) ovvero quando la nuova regola ‘l’intera materia’ già regolata dalla anteriore (abrogazione implicita)”. Detta “incompatibilità sussiste se vi sia una contraddizione tale da rendere impossibile la contemporanea applicazione delle due leggi … sì che dall’applicazione ed osservanza della nuova derivi necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra (ex multis, Cass., Sez. I, 21 febbraio 2001, n. 2502)”. Si rammenta “che la giurisprudenza ha convenuto che il principio lex posterior generalis non derogat priori speciali – che ha la sua ragione nella migliore e più adeguata aderenza della norma speciale alle caratteristiche della fattispecie oggetto della sua previsione([18]) – non può valere, e deve quindi cedere alla regola dell’applicazione della legge successiva allorquando dalla lettera e dal contenuto di detta legge si evinca la volontà del legislatore di abrogare la legge speciale anteriore o allorquando la discordanza tra le due disposizioni sia tale da rendere inconcepibile la coesistenza fra la normativa speciale anteriore e quella generale successiva (es. Cass., Sez. lav., 20 aprile 1995, n. 4420)”. Come già osservato in Cons. Stato, Sez. V, 17 luglio 2014, n. 3823, “il canone ermeneutico” della lex specialis, “del resto non specificamente positivizzato nell’ordinamento giuridico”, è “un criterio orientativo, pur suffragato dalla tradizione, di temperamento del primato che in omaggio al criterio cronologico [questo sì positivizzato: art. 15 delle Preleggi] occorre riconoscere alla lex posterior. La sopravvivenza della lex prior specialis in tanto può essere affermata, perciò, in quanto non debba venir esclusa alla luce di una corretta interpretazione della lex posterior, dal modo di essere della quale dipende, in definitiva, l’applicabilità o meno in concreto del canone stesso” della lex specialis (ad. plen., n. 17/2016, punto 11).

Dunque, lettera e spirito della lex posterior sono decisivi nel riconoscere o meno nella norma pregressa la natura di lex specialis, destinata come tale a sopravvivere. Dire lex prior specialis significa, in definitiva, dire che lettera e spirito della lex posterior generalis depongono nel senso che non v’è incompatibilità (ma possibilità di coabitazione) tra essa e la legge anteriore, che a questo punto (e solo a questo punto) si rivela (e merita d’esser qualificata) come speciale.

La specialità (della norma anteriore) non preesiste (come dato a priori), ma è il frutto dell’interpretazione della norma posteriore: proprio se e nella misura in cui la norma posteriore non si colloca in una relazione di incompatibilità con quella anteriore, quest’ultima si guadagna la qualifica di norma speciale e, come tale, persiste nell’ordinamento. L’eventuale specialità della norma anteriore si atteggia come prodotto di risulta dell’interpretazione della norma posteriore: tanto che potrebbe abbandonarsi la locuzione “norma speciale” o “lex specialis” (e lo stesso brocardo lex posterior generalis non derogat priori speciali), per discorrere, più esattamente, di interpretazione della norma posteriore nel senso che essa, per la sua lettera e il suo spirito, non si pone in contraddizione con la norma anteriore, che quindi rimane in vigore e le sopravvive.

In tale cornice, la Plenaria n. 17/2016 risolve l’antinomia tra art. 13, comma 1, cit. e art. 20, comma 4, cit. facendo leva su due canoni ermeneutici: quello letterale e quello basato sulla (presumibile) volontà del legislatore([19]).

Quanto al canone testuale, l’attenzione si focalizza sull’incipit dell’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990: “le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti …” (segue l’indicazione dei settori “sensibili”, tra i quali paesaggio e ambiente). Nel riferirsi alle sole “disposizioni del presente articolo”, l’esordio dell’art. 20, comma 4, cit. rivela che non è il silenzio-assenso come istituto (con valenza ormai tendenzialmente generale), ma solo “le disposizioni” dell’art. 20 cit. che “non si applicano agli atti e procedimenti” enumerati dallo stesso comma 4([20]). Tale “particolare cautela” scongiura l’abrogazione tacita di preesistenti ipotesi di silenzio-assenso in materia ambientale (ad. plen., n. 17/2016, punto 12).

Quanto alla (presumibile) volontà del legislatore([21]), nel 1991 l’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 dettava un’ipotesi speciale di silenzio-assenso, che si affiancava ad altre, “episodiche”, in un quadro normativo generale di marca antitetica, che “non prevedeva il silenzio-assenso come regola di base del procedimento” ad iniziativa di parte, salvo i casi individuati con regolamenti governativi di delegificazione in forza dell’allora vigente art. 20 della legge n. 241/1990. Nel 2005, come è noto, “muta radicalmente la logica sistemica del quadro normativo”, con la tendenziale generalizzazione del silenzio-assenso nei procedimenti ad iniziativa di parte. “Non appare logico” che la marcata espansione del raggio di operatività del silenzio-assenso, perseguita dal legislatore del 2005, “abbia prodotto” il risultato, collaterale ed “opposto”, “di abrogare leggi precedenti” che tale strumento di semplificazione procedimentale “già prevedevano”. “Per ragioni di razionalità e coerenza, appare piuttosto presumibile che il legislatore del 2005, nell’estendere l’area applicativa del silenzio-assenso, ove avesse inteso sopprimere la previgente disposizione” dell’art. 13 della legge n. 394/1991, “che già lo contemplava, l’avrebbe espressamente disposto” (ad. plen., n. 17/2016, punto 12)([22]).

Inoltre, “sotto il profilo storico”, la speciale ipotesi di silenzio-assenso di cui all’art. 13 della legge n. 394/1991 si inseriva, nel 1991, “in una normativa organica” sulle aree naturali protette, “dove era il bilanciamento complessivo degli interessi ivi coinvolti a prevedere il silenzio-assenso come effetto di una valutazione legislativa ponderata e giustificata dalla specificità della materia [si consideri il basso tasso di discrezionalità tecnica nel nulla osta e la sua propedeuticità rispetto ad ogni altro successivo titolo abilitativo, come quello paesaggistico, archeologico, idrogeologico, edilizio]: sicché sarebbe alterare quella coerenza il figurare che, per questa parte, un elemento di quel complesso equilibrio sia stato tacitamente – cioè, senza apposita riconsiderazione da parte del legislatore – rimosso dalla riforma del 2005” (ad. plen., n. 17/2016, punto 12).

Tutt’intorno all’ottimo nucleo della ratio decidendi sottesa al principio di diritto, di cui s’è appena dato conto, si distende, se così è consentito esprimersi, un’area coperta da nubi che meritano d’essere diradate([23]). Quattro sono le criticità individuate da chi scrive, cui si dedicheranno i prossimi quattro paragrafi.

  1. Qualche notazione critica: il ruolo del diritto costituzionale ed europeo nel dirimere la questione interpretativa

Viene in rilievo, in primo luogo, il ruolo del diritto costituzionale ed europeo nel dirimere il problema interpretativo. La plenaria n. 17/2016 se ne occupa prima (in apertura del punto 12) quando esclude, sulla base della giurisprudenza costituzionale ed europea, che l’ipotesi di silenzio-assenso di cui all’art. 13 della legge n. 394/1991 ecceda i limiti costituzionali ed europei del silenzio-assenso (sui quali si tornerà infra)([24]) e poi (sub punto 13) quando ritorna, più diffusamente, sull’oggetto e sulla funzione del nulla osta in questione (“stretta funzione di verifica” di conformità del progettato intervento al piano e al regolamento del parco; basso tasso di discrezionalità tecnica; propedeuticità rispetto al successivo rilascio di titoli abilitativi puntuali), per negare che la “rinuncia ad una valutazione in concreto dell’amministrazione”, potenzialmente insita nel silenzio-assenso, metta intollerabilmente a repentaglio interessi “sensibili”.

Il punto avrebbe meritato una trattazione più chiara, più sintetica e non frazionata all’interno della sentenza. Lo si poteva sviluppare nei seguenti termini: se è vero (come è vero) che l’ipotesi di silenzio-assenso di cui all’art. 13 della legge n. 394/1991 non eccede i limiti costituzionali ed europei del silenzio-assenso([25]), allora il diritto costituzionale e quello europeo non esigono che l’antinomia con l’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990 sia sciolta assegnando prevalenza a quest’ultimo, in via d’interpretazione costituzionalmente e eurounitariamente orientata. Ma dire che non sospingono verso la lex posterior non equivale, evidentemente, a dire che militano a favore della lex specialis. Essi giocano solamente in negativo, nel senso che non impongono il primato della lex posterior: ciò appurato, si rivelano poi neutri nella soluzione del conflitto tra norme.

  1. Segue: il ruolo della legge regionale

Qualche cenno merita, in secondo luogo, il ruolo della legge regionale, sbrigativamente liquidata come tamquam non esset nella parte iniziale del punto 10 della sentenza: l’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997 sarebbe “non utile a dirimere” il conflitto (dell’art. 13 della legge n. 394/1991) con l’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, giacché “una legge regionale non potrebbe intervenire sul tema qui in esame”, rientrando la “tutela dell’ambiente” nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. s), Cost.).

Il ragionamento non persuade poiché la legge applicabile al caso concreto è quella regionale del 1997 che, nel rinviare all’art. 13 della legge n. 394/1991, detta un’ipotesi di silenzio-assenso in relazione al nulla osta degli Enti preposti alla gestione di parchi regionali. Il d.l. n. 35/2005, nel novellare l’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, non ha (tacitamente) abrogato la legge regionale del 1997 in parte qua (art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997), che è pertanto ancora in vigore e reclama d’essere applicata alla fattispecie concreta: una sopravvenuta norma statale – che esprime una competenza legislativa statale esclusiva (sia la “tutela dell’ambiente”, sia la semplificazione procedimentale, dalla giurisprudenza costituzionale ormai ricondotta entro il paradigma dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali)([26]) – non è in grado di abrogare, ma semmai di rendere incostituzionale, un’anteriore norma regionale (che si rivela) riduttiva dei livelli minimi di tutela (siccome ex post) stabiliti per l’intero territorio nazionale. Qualora l’antinomia tra art. 13 della legge n. 394/1991 e art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990 (come novellato nel 2005) fosse risolta all’insegna del criterio della lex posterior([27]), allora – considerato che la competenza legislativa statale esclusiva sulla “tutela dell’ambiente” si traduce, per giurisprudenza costituzionale costante, nella fissazione di standard minimi di tutela destinati a valere in modo uniforme sull’intero territorio nazionale([28]) – si porrebbe un (serissimo) dubbio di costituzionalità dell’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997, nella parte in cui, dettando un’ipotesi di silenzio-assenso, finirebbe per indebolire le soglie minime di tutela definite dalla legge statale.

Il discorso cambierebbe se il rinvio che l’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997 opera all’art. 13 della legge n. 394/1991 venisse (invero non implausibilmente) inteso come rinvio dinamico([29]), sensibile a tutte le vicende dello stesso art. 13, tra le quali – in ipotesi – la sua abrogazione tacita per mano del d.l. n. 35/2005: allora sì che la legge regionale risulterebbe inutile ai fini della definizione della (questione interpretativa in parola e della) controversia, giacché la soluzione dell’antinomia tra fonti statali, quale che fosse, andrebbe ad integrare de plano la fonte regionale, autrice di un rinvio dinamico a quella statale uscita vittoriosa dal conflitto ([30]).

  1. Segue: i limiti costituzionali del silenzio-assenso

Quanto, poi, ai limiti costituzionali del silenzio-assenso, la Plenaria n. 17/2016:

  1. rammenta che in numerose occasioni la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali leggi regionali che introducevano il silenzio-assenso in materia ambientale o che riducevano i termini per la sua formazione previsti da corrispondenti leggi statali, poiché “produttive”, le une e le altre, “dell’effetto di determinare livelli di tutela ambientale inferiori rispetto a quelli previsti dalla legge statale” (ad. plen., n. 17/2016, punto 9)([31]);

  2. osserva che nella giurisprudenza costituzionale non si rinviene alcun divieto, per il legislatore statale, di introdurre il silenzio-assenso anche in materia ambientale, laddove si tratti di titoli abilitativi a “tasso di discrezionalità non elevatissimo” (ad. plen., n. 17/2016, nelle prime battute del punto 12);

  3. conclude che “non vi è, nella significazione legale favorevole, attribuita dalla legge sui parchi del 1991 al silenzio sull’istanza di nulla osta, una rinuncia alla cura concreta” dell’interesse naturalistico, poiché il nulla osta ha ad oggetto (e funzione) la “stretta … verifica di conformità” dell’intervento progettato con le dettagliate disposizioni del piano e del regolamento del parco che quella cura assorbono in sé (artt. 11 e 12 della legge n. 394/1991), è connotato da un basso grado di discrezionalità tecnica ([32]), è prodromico a successivi titoli abilitativi (paesaggistici, archeologici, idrogeologici, edilizi).

Ebbene, muovendo dal presupposto([33]) che l’art. 28, comma 1, della legge regionale n. 29/1997 contiene un rinvio dinamico all’art. 13 della legge n. 394/1991 e che, pertanto, la soluzione dell’antinomia tra le fonti statali (detto art. 13 e l’art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990) andrebbe in ogni caso ad integrare il contenuto della fonte regionale, è senza rilievo la giurisprudenza costituzionale costante che – argomentando dal monopolio legislativo statale sulla “materia traversale” della “tutela dell’ambiente”, intesa come standard minimi di tutela destinati a valere in modo uniforme sul territorio nazionale – giudica incostituzionali leggi regionali che introducono ipotesi di silenzio-assenso in materia ambientale o riducono i termini per il suo perfezionamento, così diminuendo i livelli minimi di tutela stabiliti dal legislatore statale. Consimili limiti costituzionali del silenzio-assenso, che traggono origine dal riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni disegnato nell’art. 117 Cost., valgono per i soli legislatori regionali.

Mentre i limiti costituzionali del silenzio-assenso che scaturiscono dal bilanciamento tra il buon andamento inteso come (necessità di) istruttoria esaustiva e lo stesso buon andamento sub specie di semplificazione ostano alla previsione di tale strumento di semplificazione procedimentale in presenza di cospicui margini di discrezionalità (amministrativa o tecnica) e incombono tanto sul legislatore statale quanto su quelli regionali, negli ambiti di rispettiva competenza, i limiti costituzionali del silenzio-assenso che originano dal riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni precludono a queste ultime soltanto, in materia ambientale, l’introduzione di ipotesi di silenzio-assenso e l’abbreviazione dei termini per la sua formazione, che si tradurrebbero in alterazioni peggiorative dei non riducibili livelli di tutela stabiliti dal legislatore statale sull’intero territorio nazionale.

La Plenaria n. 17/2016 pare confondere i due ordini di limiti costituzionali laddove – nel negare l’esistenza, purché in presenza di “valutazioni a tasso di discrezionalità non elevatissimo”, di preclusioni all’introduzione del silenzio-assenso in materia ambientale (punto 12), richiama – erroneamente – le “pronunce della Corte costituzionale prima segnalate” (sub punto 9), che però si riferiscono al divieto del legislatore regionale di modificare in peius gli standard di tutela ambientale definiti dalla legge statale (dove quindi è la competenza legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente a porsi come limite all’esercizio delle competenze regionali).

E’ solo nel successivo punto 13 che la Plenaria n. 16/2017, assumendo come paradigma esclusivo i limiti costituzionali del silenzio-assenso che traggono origine dal bilanciamento tra la necessità di “una valutazione in concreto dell’amministrazione” e la semplificazione procedimentale, perviene a riconoscere la compatibilità del silenzio-assenso di cui all’art. 13 della legge n. 394/1991 con il quadro costituzionale, ma – si badi – senza più citare alcuna (pertinente) sentenza della Corte costituzionale.

Qui avrebbero dovuto essere puntualmente citate, invece, Corte cost., 25 luglio 1995, n. 408, Corte cost., 12 febbraio 1996, n. 26 e Corte cost. 17 dicembre 1997, n. 404. Le prime due dichiararono incostituzionali leggi (regionali) che prevedevano la possibilità di approvazione per silentium, da parte della Regione, di strumenti urbanistici attuativi (comunali) in variante agli strumenti urbanistici generali, sul rilievo che “l’istituto del silenzio assenso” è “ammissibile in riferimento ad attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il tasso di discrezionalità”, e non anche in “procedimenti ad elevata discrezionalità, primi tra tutti quelli della pianificazione territoriale”, che “comportano un ventaglio di soluzioni non determinate, né determinabili in via preventiva dalla legge”: è “irrazionale”, in tali ambiti, rendere “meramente eventuale” l’esercizio della funzione amministrativa (Corte cost., n. 408/1995, punto 10.1 del “Considerato in diritto”; Corte cost., n. 26/1996, punto 2 del “Considerato in diritto”). La terza dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale di una legge (regionale) che prevedeva la possibilità di approvazione tacita, da parte della Regione, di uno strumento urbanistico attuativo che esprimeva la “pianificazione urbanistica comunale di secondo grado”, con “il carattere tipico attuativo ed esecutivo” (della pianificazione urbanistica primaria e generale), lontano da quegli “interventi pianificatori che assumono la sostanziale valenza di strumenti urbanistici generali per la capacità di costituire variante agli stessi strumenti”: il silenzio-assenso non è incompatibile con (l’approvazione regionale di) strumenti urbanistici attuativi aventi simili caratteristiche (Corte cost., n. 404/1997, punto 2 del “Considerato in diritto”).

La citazione di queste sentenze avrebbe dovuto essere accompagnata da due precisazioni. Anzitutto, nelle loro motivazioni traspare, per niente tra le righe, il sempiterno tema del delicato equilibrio tra attribuzioni comunali e regionali, che pare onestamente dotato di una certa forza di condizionamento delle decisioni assunte dalla Consulta, nel senso di far avvertire il silenzio-assenso come costituzionalmente intollerabile le volte in cui incide sull’essenza di una competenza regionale altrimenti piena e costituzionalmente tollerabile allorché rende eventuale una competenza regionale che, per esempio, si radica soltanto in relazione a profili determinati o si traduce in un semplice controllo di conformità (man mano che la pianificazione urbanistica d’ambito comunale è stata attratta nella sfera decisionale pressoché esclusiva dei Comuni)([34]). Sicché è tutt’altro che peregrino immaginare che, depurato il ragionamento da questo tema (tanto eccentrico rispetto ai limiti costituzionali del silenzio-assenso, quanto capace di ipotecare le soluzioni cui di volta in volta si addiviene), ne deriverebbe un sensibile innalzamento della soglia di ‘sostenibilità’ del silenzio-assenso, anche considerando che negli ultimi venti anni (tanti ne sono trascorsi delle sentenze testé richiamate) il principio di semplificazione dell’azione amministrativa ha assunto un ruolo di primissimo piano nella cultura dominante, giuridica e non (di cui è forse sintomo il passaggio terminologico, per delineare l’ambito elettivo del modello del silenzio-assenso, dalle “attività amministrative nelle quali sia pressoché assente il tasso di discrezionalità”, di cui è menzione in Corte cost., n. 26/1996, punto 2 del “Considerato in diritto”, cit., alle “valutazioni a tasso di discrezionalità non elevatissimo”, di cui è menzione in Cons. Stato, ad. plen., n. 17/2016, punto 12, cit.; senza dire che l’art. 20 della legge n. 241/1990, considerato anche nel suo rapporto con il precedente art. 19, è concepito, a partire dal 2005, in guisa da non respingere da sé procedimenti amministrativi che involgono significativi margini di discrezionalità amministrativa o tecnica).

Né bisogna lasciarsi trarre in inganno – nella lettura della giurisprudenza costituzionale degli anni Novanta – dall’esplicito riferimento al divieto di silenzio-assenso in materia ambientale come principio fondamentale: i principi fondamentali, nelle materie di competenza legislativa concorrente Stato-Regioni, vincolano i legislatori regionali, sicché si era, anche allora (e pur in un assetto costituzionale diverso da quello odierno), al cospetto di limiti costituzionali al silenzio-assenso derivanti, per i soli legislatori regionali, unicamente dal rispetto delle competenze statali. Nessun divieto costituzionale di silenzio-assenso, invece, è dato ravvisare in materia ambientale, se non in presenza di cospicui margini di discrezionalità amministrativa o tecnica([35]).

  1. Segue: i limiti europei al silenzio-assenso

Quanti ai limiti europei del silenzio-assenso, la Plenaria n. 17/2016 osserva che neppure dalla giurisprudenza europea emerge un divieto, per i legislatori nazionali, di introdurre il silenzio-assenso in materia ambientale, poiché “la Corte di giustizia europea in passato – sentenza 28 febbraio 1991, causa C-360/87 – ha ritenuto non compatibile la definizione tacita del procedimento solo quando, però, per garantire effettività agli interessi tutelati (tutela della salute), fosse necessaria una espressa valutazione amministrativa … (in quel caso veniva lamentata la violazione di una specifica direttiva … concernente la protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento provocato da certe sostanze pericolose), mentre nella decisione 10 giugno 2004, C-87/02 ha censurato l’omessa effettuazione della valutazione di impatto ambientale in quanto prescritta dalla direttiva n. 85/337/CEE, ed ha affermato la necessità dell’istruttoria approfondita su dette problematiche” (così, testualmente, ad. plen., n. 17/2016, nella parte iniziale del punto 12).

Le menzionate sentenze del giudice europeo sono sbrigativamente liquidate dalla Plenaria n. 17/2016, ansiosa di statuire l’assenza di limiti europei del silenzio-assenso, se non negli imprecisati casi in cui s’impongono espresse valutazioni amministrative, quali irrinunciabili presidi della salute.

E’ anzitutto utile rammentare che, nella causa decisa con sentenza della Corte di giustizia CE, 28 febbraio 1991, causa 360/87, la Commissione (ricorrente) lamentava l’inidoneità del silenzio-assenso, all’epoca previsto dalla normativa italiana sulle domande di autorizzazione agli scarichi in acque, a garantire istruttorie effettive su ciascuna domanda, con esposizione a pericolo dello scopo perseguito dalla pertinente direttiva comunitaria (punto 28). La Repubblica italiana ribatteva negando ogni incompatibilità tra il modello della decisione tacita, che non elimina il dovere dell’Amministrazione di istruire e di definire le singole domande, e l’obiettivo della direttiva comunitaria (punto 29). La Corte stabiliva, in modo tanto sintetico quanto netto, che “ai sensi della direttiva, il rifiuto, la concessione o la revoca delle autorizzazioni devono risultare da un provvedimento esplicito e seguire regole procedurali precise”, sicché “un’autorizzazione tacita non può considerarsi compatibile con le prescrizioni della direttiva”, non garantendo che siano realizzate le doverose “indagini preliminari” (punti 30-31).

Da tale sentenza, se presa per quel che statuisce, si ricava la regula iuris del divieto del silenzio-assenso in relazione a titolo abilitativi di matrice europea, quanto meno in materia ambientale([36]), ma a ben vedere anche fuori di essa.

Mentre in chiave puramente domestica è ammesso un certo bilanciamento tra le ragioni dell’istruttoria esaustiva e le ragioni della semplificazione procedimentale (basti pensare alla evidenziata assenza, in Costituzione, di un divieto di silenzio-assenso persino in materia ambientale), il diritto europeo osta al perfezionamento per silentium di titoli abilitativi da esso stesso contemplati, per sua natura capace di pregiudicarne l’effetto utile, quanto meno in materia ambientale, ma a ben vedere anche fuori di essa.

Di ciò si scorge un’evidente traccia nello stesso art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990, nella parte in cui annovera tra i casi che rimangono al riparo dalla regola (tendenzialmente generale) del silenzio-assenso di cui al comma 1 quelli in cui il diritto europeo “impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali”, anche al di fuori della materia ambientale([37]).

La Plenaria n. 17/2016, nel minimizzare la portata di Corte di giustizia CE, 28 febbraio 1991, causa 360/87([38]), non vuole avvedersi che essa si traduce – si ripete – (niente di meno che) nel divieto per i legislatori nazionali di introdurre ipotesi di silenzio-assenso in relazione a titoli abilitativi taciti di matrice europea, quanto meno in materia ambientale.

Una tale inesattezza ben poteva essere evitata, senza pervenire a conclusioni diverse in punto di compatibilità dell’art. 13, comma 1, della legge n. 241/1990 con il diritto europeo, semplicemente constatando che il nulla osta dell’Ente parco non è un titolo abilitativo di matrice europea([39]).

  1. Postilla sul seguito della vicenda decisa dalla Plenaria n. 17/2016

La Plenaria n. 17/2016 decide la controversia annullando il diniego di nulla osta perché tardivo rispetto alla già avvenuta formazione del silenzio-assenso, con assorbimento delle altre censure articolate nei confronti della motivazione a supporto dell’annullato diniego. L’art. 20, comma 3, della legge n. 241/1990 fa bensì salvo, sussistendone i presupposti, il potere di annullamento d’ufficio (dell’illegittimo silenzio-assenso)([40]), ma l’art. 21-nonies, comma 1, della stessa legge n. 241/1990, siccome modificato dall’art. 6, comma 1, lett. d), della legge 7 agosto 2015, n. 124, confina entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi” l’annullamento d’ufficio di “provvedimenti di autorizzazione”, “inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20” (per silentium)([41]): termine di diciotto mesi abbondantemente trascorso al tempo della pubblicazione della sentenza della Plenaria n. 17/2016, poiché il silenzio-assenso era, nel caso di specie, maturato già nel dicembre 2012, su domanda di nulla osta presentata nell’ottobre 2012([42]).

                                                                                                                                 

 (28 febbraio 2017)


([1]) Si citano Cons. Stato, Sez. VI, 17 giugno 2014, n. 3047 e Cons. Stato, Sez. VI, 29 dicembre 2008, n. 6591.

([2]) Verrebbe qui in rilievo un’abrogazione non già espressa (“ … dichiarazione espressa del legislatore …”) e neppure implicita (“ … la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore …”), bensì tacita (“… incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti …”): cfr. art. 15 delle Preleggi (“Abrogazione delle leggi”).

([3]) Si citano Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5188 e Cons. Stato, Sez. III, 15 gennaio 2014, n. 119: quest’ultima riguarda un’ipotesi di silenzio-assenso in materia ambientale ante 2005 diversa dall’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 (art. 87, comma 9, del decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259, in tema di procedimenti autorizzatori relativi alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici).

([4]) Cfr., ad esempio, l’art. 20, comma 8, del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, come più volte modificato a partire dall’art. 30, comma 1, lett. d), n. 1), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. con mod. dalla legge 9 agosto 2013, n. 98.

([5]) Cfr. Corte cost., 29 dicembre 2004, n. 429, punto 6 del “Considerato in diritto”.

([6]) La salvaguardia dei valori naturali costituisce la ragion d’essere del parco, dell’Ente preposto alla sua gestione, degli strumenti di pianificazione dell’area e del nulla osta.

([7]) Art. 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 e legge regionale del Lazio 26 giugno 1997, n. 22.

([8]) “I particolari dell’intervento edificatorio sono apprezzabili nella loro effettiva entità e consistenza solo alla luce del maggior grado di dettaglio e livello di approfondimento connotanti gli elaborati progettuali e plani-volumetrici allegati alla successiva richiesta del permesso di costruire, mentre il parere espresso sul piano attuativo a monte si basa su una valutazione di principio attorno alla compatibilità dell’intervento col contesto vincolato in cui viene a collocarsi, e attorno all’incidenza della sua percezione visiva sulle caratteristiche del sito, resa possibile sulla base degli elaborati di massima da allegare a corredo del piano medesimo” (ad. plen., n. 9/2016, punto 10, ove si richiama Cons. Stato, Sez. VI, 7 novembre 2012, n. 5630).

Cfr. altresì Cass. pen., Sez. III, 16 ottobre 2014, n. 3412, secondo cui il rilascio, da parte dell’Ente parco, di un parere (favorevole) nell’ambito dell’iter di approvazione di un Piano di assestamento forestale non esclude, pena la configurabilità del reato di cui all’art. 30, comma 1, della legge n. 394/1991, la necessità che ogni taglio boschivo sia preceduto da uno specifico nulla osta dell’Ente medesimo, finalizzato a verificare la conformità tra il singolo intervento e le disposizioni del piano (in motivazione la Corte ha evidenziato che è inutile, per il responsabile dei tagli abusivi, sostenere di aver agito nell’erronea convinzione che il nulla osta dell’Ente parco fosse già stato acquisito, a monte e una volta per tutte, in sede di approvazione del Piano di assestamento forestale).

([9]) Argomentando dalla altrettanto nota disciplina generale di cui all’art. 16 della legge n. 241/1990.

([10]) Salve le eccezioni indicate nel comma 3 dello stesso art. 16: non ‘accantonabilità’ dei pareri che debbono essere rilasciati “da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini”.

([11]) Salve, anche lì, le eccezioni indicate nel comma 3 dello stesso art. 16 cit.

([12]) Ma non nel caso di specie, in cui il giudizio era ormai approdato al secondo grado, stante il divieto di impugnare per la prima volta davanti al Consiglio di Stato provvedimenti sopravvenuti nelle more del giudizio di appello, ai sensi dell’art. 104, commi 1 e 3, c.p.a. S’imporrebbe, quindi, un nuovo ricorso al TAR Lazio per l’impugnazione dell’eventuale diniego comunale di approvazione del programma integrato di intervento.

([13]) Diniego comunale magari motivato – sulla scorta di un (condivisibile) obiter dictum di ad. plen., n. 9/2016, punto 9 – con la radicale inammissibilità dello strumento urbanistico attuativo in area già regolata dal piano del parco, poiché quest’ultimo “sostituisce ad ogni livello i piani … urbanistici” ai sensi dell’art. 12, comma 7, della legge n. 394/1991 (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24 novembre 2014, n. 5821 e Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2012, n. 6292).

([14]) Rectius: “dovuto” (anziché “potuto”), sol che si ponga mente al principio (sovranazionale e costituzionale) della ragionevole durata del processo.

([15]) Si richiamano anche qui, come già in Cons. Stato, Sez. IV, ord. n. 538/2016 cit., Cons. Stato, Sez. VI, n. 6591/2008 cit. e n. 3047/2014 cit.

([16]) Si richiamano, anche qui, Cons. Stato, Sez. IV, n. 5188/2013 cit. e Cons. Stato, Sez. III, n. 119/2014 cit. Si cita in più, rispetto a Cons. Stato, Sez. IV, ord. n. 538/2016 cit., Cons. Stato, Sez. IV, ord. 19 novembre 2014, n. 5531 (che però chi scrive non è riuscito a reperire).

([17]) Nella stessa direzione, e in maniera ben più esplicita, già Cons. Stato, Sez. IV, ord. n. 538/2016 cit.

([18]) Cfr., per alcune applicazioni, Cass., Sez. lav., 20 giugno 2012, n. 10127; Cass., Sez. I, 25 luglio 2008, n. 20469; Cass., Sez. III, 6 giugno 2006, n. 13252; Cass., Sez. V, 15 aprile 2005, n. 7905.

([19]) Cfr. art. 12, comma 1, delle Preleggi (“Interpretazione della legge”): “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.

([20]) Motivo per cui necessita di una lettura leggermente ‘ortopedica’ il principio di diritto enunciato, sub punto 14, dalla Plenaria n. 17/2016, nella parte in cui afferma che la novella del 2005 avrebbe “escluso che l’istituto generale del silenzio-assenso possa trovare applicazione in materia di tutela ambientale e paesaggistica”: invero, non è l’istituto (tendenzialmente generale) del silenzio-assenso a non trovare applicazione agli atti e procedimenti enumerati nell’art. 20, comma 4, cit., ma le sole disposizioni dello stesso art. 20. Ed è proprio per la lettera dell’incipit dell’art. 20, comma 4, cit. – come si vedrà accompagnata dal canone della presumibile volontà del legislatore (art. 12, comma 1, Preleggi) – che “il silenzio assenso previsto” dall’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 “non è stato implicitamente [rectius: tacitamente] abrogato a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 80 del 2005 [rectius: del d.l. n. 35/2005]” (così il principio di diritto, sub punto 14, di ad. plen., n. 17/2016).

([21]) “Intenzioni del legislatore presumibili” – precisa ad. plen., n. 17/2016, punto 12 – “per coerenza logica di indirizzi”.

([22]) “Non è logico ritenere che una disposizione volta a generalizzare il regime procedimentale del silenzio-assenso faccia venir meno proprio quelle ipotesi di silenzio-assenso già previste dall’ordinamento nel più restrittivo sistema dell’art. 20 [della legge n. 241/1990] vigente prima della riforma del 2005. Sicché la sottrazione al regime semplificatorio generale delle materie caratterizzate da interessi sensibili non può che essere rivolta al futuro [segnatamente, alle fonti statali sub-primarie e alle fonti regionali; salve, beninteso, leggi statali posteriori diversamente orientate, nei limiti costituzionali ed europei del silenzio-assenso] e non ricomprende quegli specifici procedimenti per i quali la compatibilità del regime del silenzio-assenso era già stata in precedenza valutata positivamente dal legislatore” (ad. plen., n. 17/2016, punto 12).

([23]) Nell’espletamento di un compito – sia permessa la fulminea notazione – di cui la dottrina dovrebbe riappropriarsi.

([24]) Cfr. i successivi paragrafi 8 e 9.

([25]) Su ciò si tornerà infra, nei paragrafi 8 e 9.

([26]) Cfr. Corte cost., 4 dicembre 2009, n. 322, punto 3.2 del “Considerato in diritto”; Corte cost., 27 giugno 2012, n. 164, punto 8 del “Considerato in diritto”; Corte cost., 24 luglio 2012, n. 207, punto 4.4.1 del “Considerato in diritto”. A ragione veduta, allora, l’art. 29, comma 2-ter, della legge n. 241/1990, fin dalla sua introduzione ad opera della legge n. 69/2009, riconduce ai “livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione” le disposizioni della stessa legge n. 241/1990 “concernenti … il silenzio-assenso”. Vero è che le regioni, “nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza”, “possono prevedere livelli ulteriori di tutela” (art. 29, comma 2-quater, della legge n. 241/1990), ma qui la Corte costituzionale sosterrebbe senz’altro che spetta al legislatore statale la definizione del punto di equilibrio, destinato a valere in modo uniforme sul territorio nazionale, tra la tutela dell’ambiente e semplificazione procedimentale (cfr., per l’impiego di una tale logica, Corte cost., 7 ottobre 2003, n. 307, punto 7 del “Considerato in diritto”; Corte cost., 17 febbraio 2016, n. 30, punto 3 del “Considerato in diritto”).

([27]) Pur senza l’ausilio di interpretazioni costituzionalmente né eurounitariamente orientate (cfr. il precedente paragrafo 6).

([28]) Cfr., ex multis (e in tema di aree naturali protette), Corte cost., 11 febbraio 2011, n. 44; Corte cost., 12 ottobre 2011, n. 263.

([29]) Nell’ambito della tecnica di produzione normativa mediante rinvio ad altre fonti, il rinvio può essere dinamico (o formale o mobile) ovvero statico (o materiale, recettizio, fisso). Nel primo caso viene richiamata la fonte della disposizione normativa, con la conseguenza che assumeranno rilievo tutte le modificazioni che interesseranno il contenuto precettivo della disposizione oggetto del rinvio; nella seconda ipotesi si determina una sorta di cristallizzazione della disciplina richiamata, nel senso che la stessa “diviene parte del contenuto della norma richiamante”, ragion per cui le “vicende della norma richiamata resteranno prive di effetto ai fini dell’esistenza e dell’efficacia della norma richiamante” (Corte cost., 25 ottobre 2004, n. 315): cfr., per un’applicazione, Cass., Sez. I, 28 gennaio 2016, n. 1618.

Lo scopo perseguito dal legislatore regionale (Cass., Sez. V, 17 dicembre 2001, n. 15926) e la ragionevolezza del risultato ermeneutico cui s’approda (Corte cost., 26 gennaio 1994, n. 6, punto 5 del “Considerato in diritto”) inducono a ritenere dinamico il rinvio operato dall’art. 28, comma 1, della legge n. 29/1997 all’art. 13 della legge n. 394/1991: il legislatore regionale ha voluto ancorarsi ad una normativa organica, in tema di aree naturali protette, dove è il bilanciamento complessivo degli interessi coinvolti a prevedere l’assegnazione o meno al silenzio dell’Ente parco del valore legale tipico di assenso, come risultato di una valutazione d’insieme del legislatore statale, che può anche mutare nel tempo e che il legislatore regionale, però, non ha alcuna intenzione di alterare.

([30]) A ciò la Plenaria n. 17/2016 si riferisce allorché osserva, sempre nelle prime battute del punto 10, che la “previsione regionale del resto non intende spiegare alcun effetto utile ai fini della risoluzione della questione, perché solo fa rinvio all’art. 13 l. n. 394 del 1991”.

([31]) Cfr. Corte cost., 4 dicembre 2009, n. 315, sub 4.1 e 4.2, nonché sub 9 e 9.1 del “Considerato in diritto”; Corte cost., 18 luglio 2014, n. 209, sub 7 del “Considerato in diritto”.

([32]) Piano e regolamento “disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via”. “A differenza di una valutazione di compatibilità, la detta verifica di conformità – che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite – non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante” il piano e il regolamento del parco. Detti strumenti “assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile dall’assenza, rispetto all’interesse naturalistico, di spazi per valutazioni di tipo qualitativo circa l’intervento immaginato: si tratta qui infatti, secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare l’ ‘ambiente-quantità’, il che tecnicamente consente questo assorbimento, negli atti generali e pianificatori, della cura dell’interesse generale. Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o i limiti di accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia”. Non vi è dunque, nel silenzio-assenso di cui all’art. 13 cit., alcuna “rinuncia alla cura concreta del prevalente interesse generale” (rectius: interesse pubblico alla tutela della natura): “quella cura è realizzato mediante l’approvazione” del piano e del regolamento del parco, “che del resto sono il presupposto indefettibile per l’operatività dello stesso silenzio-assenso” (ad. plen., n. 17/2016, punto 13).

([33]) Cfr. le precedenti note 28 e 29.

([34]) Cfr. Corte cost., 19 ottobre 1992, n. 393, che dichiarò bensì incostituzionale alcune norme (statali: art. 16, commi 3, 4, 5 e 6, della legge 17 febbraio 1992, n. 179) che, nel loro insieme, prefiguravano la possibilità di significative deroghe agli strumenti urbanistici generali da parte di uno strumento urbanistico attuativo (programma integrato di intervento) adottato dal consiglio comunale e suscettibile di approvazione regionale tacita, per di più con valore di concessione edilizia, ma solo perché il complesso di tali norme ridondava negativamente sulla competenza legislativa regionale (concorrente) in materia di urbanistica ed edilizia. Non è dato rinvenire una sola riga di motivazione dedicata a tratteggiare, anche solo fugacemente, i limiti costituzionali del silenzio-assenso: né rileva a tale scopo, come già notato, l’ (immancabile) accenno alla “alterazione del quadro dei rapporti tra competenze attribuite alle regioni ed agli enti locali nel vigente sistema di programmazione urbanistica”.

([35]) Non desta pertanto particolari preoccupazioni, sotto questo profilo, l’art. 17-bis, comma 3, della legge n. 241/1990, ivi inserito dall’art. 3, comma 1, della legge 7 agosto 2015, n. 124, che stabilisce l’applicazione del “silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche”, laddove sia “prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta, comunque denominati … per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di altre amministrazioni pubbliche”, “anche ai casi in cui” gli assensi, i concerti o i nulla osta comunque denominati debbano essere resi da “amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini”. Identica è la logica sottesa all’art. 14-bis, comma 4, della legge n. 241/1990, come riformulato dall’art. 1, comma 1, del d. lgs. 30 giugno 2016, n. 127, laddove attrae nel meccanismo del silenzio-assenso nell’ambito della conferenza di servizi decisoria anche le “amministrazioni preposte alla tutela ambientale”.

([36]) Cfr. Corte cost., 1 luglio 1992, n. 306, Corte cost., 13 novembre 1992, n. 437 e Corte cost., 27 aprile 1993, n. 194 che, su ricorsi dello Stato, dichiarano incostituzionali leggi regionali che introducevano ipotesi di silenzio-assenso in relazione all’autorizzazione allo stoccaggio provvisorio di rifiuti tossici e nocivi, in violazione di (norme statali di recepimento di) direttive comunitarie che, prescrivendo un’autorizzazione “espressa e specifica”, per “l’accertamento della sussistenza di alcuni requisiti” puntali e “affinché sia garantita l’eliminazione di ogni pericolo per la salute e il degrado ambientale”, “escludono … che per le fasi dello smaltimento dei rifiuti tossici e nocivi si possa fare ricorso all’istituto del silenzio-assenso e, cioè, all’autorizzazione tacita”.

([37]) Così pure nell’art. 17-bis, comma 4, della legge n. 241/1990, ivi inserito dall’art. 3, comma 1, della legge n. 124/2015, che esclude l’applicazione del “silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche”, laddove sia “prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati … per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di altre amministrazioni pubbliche”, ai “casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedano l’adozione di provvedimenti espressi”. Identica è la logica sottesa all’incipit del comma 4 dell’art. 14-bis della legge n. 241/1990, come riformulato dall’art. 1, comma 1, del d. lgs. n. 127/2016, che sottrae al meccanismo del silenzio-assenso nell’ambito della conferenza di servizi decisoria i “casi in cui disposizioni del diritto dell’Unione europea richiedano l’adozione dei provvedimenti espressi”.

([38]) Ed anche di Corte di giustizia CE, 10 giugno 2004, C-87/02, laddove – al di là del caso concreto e della relativa decisione, qui non rilevanti – afferma che, “qualunque sia il metodo adottato da uno Stato membro per stabilire se uno specifico progetto richieda o meno una valutazione d’impatto ambientale … tale metodo non deve ledere l’obiettivo perseguito dalla direttiva, con la quale si vuole fare in modo che non sfugga alla valutazione d’impatto nessun progetto idoneo ad avere un notevole impatto sull’ambiente” (par. 44): ciò che, invece, potrebbe più facilmente accadere con il silenzio-assenso.

([39]) Come già notato sopra (sub paragrafo 6), la coerenza dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 con le coordinate costituzionali ed europee (rispettivamente: assenza di divieto costituzionale di silenzio-assenso in materia ambientale e divieto di silenzio-assenso solo in relazione a titoli abilitativi di matrice europea, tra i quali non rientra quello contemplato dall’art. 13 cit.) rende il diritto costituzionale e quello europeo ininfluenti per dirimere la questione del rapporto tra art. 13, comma 1, cit. e art. 20, comma 4, della legge n. 241/1990 come novellato nel 2005.

([40]) Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 2 ottobre 2015, n. 4612.

([41]) In questi casi il termine di diciotto mesi decorre dal perfezionamento del silenzio-assenso, anziché dalla “adozione” del (l’inesistente) provvedimento espresso.

([42]) In mancanza di disposizione derogatoria del principio generale tempus regit actum, il limite temporale introdotto nel 2015 incombe anche sull’annullamento d’ufficio di provvedimenti di autorizzazione risalenti ad epoca anteriore all’entrata in vigore della novella.

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