Pubblica Amministrazione
Acquisti di energia da parte delle P.A.: tra centralizzazione e esigenze di riduzione della spesa
di Giannalberto Mazzei
In materia di contratti pubblici, la necessità di utilizzare metodologie semplificate ed il bisogno di una maggior riduzione della spesa pubblica hanno condotto inevitabilmente all’affermarsi del nuovo sistema di approvvigionamento pubblico “a rete” di beni e servizi, nel quale le stazioni appaltanti sono chiamate, ancor più che in passato, a collaborare su più livelli.
Al previgente sistema atomistico, caratterizzato dalla possibilità per ogni stazione appaltante di configurare il proprio ruolo in modo autonomo, è andato a sostituirsi il nuovo metodo di acquisizione orientato alla centralizzazione delle committenze. Il passaggio per le stazioni appaltanti dalla mera facoltà al più stringente obbligo di rivolgersi alle centrali di committenza è dovuta infatti ad un’escalation normativa che, dalla fine degli anni novanta con l’introduzione del “Programma per la razionalizzazione degli acquisti della P.A.”, ha condotto gli operatori a fronteggiarsi in via sempre minore con il singolo ente a fronte di nuove occasioni di dialogo con strutture centralizzate ed aggregatrici. La disciplina delle modalità di acquisto in tal modo configurata si rivela così nel tempo la principale risposta alle crescenti esigenze di semplificazione e riduzione degli esborsi pubblici.
Le centrali di committenza, definibili come moduli organizzativi gestionali centralizzati che si avvalgono delle regole dell’evidenza pubblica, cui si rivolgono le altre amministrazioni per stipulare contratti di acquisto, sono sia amministrazioni sia enti aggiudicatori che forniscono attività di centralizzazione. Tali attività sono svolte su base permanente e consistono nell’acquisizione di forniture e/o servizi ovvero nella conclusione di accordi quadro per i lavori, servizi o forniture destinati ad amministrazioni aggiudicatrici. In questa seconda ipotesi la Centrale di committenza si limita ad aggiudicare un appalto (o concludere un accordo quadro) senza acquistare direttamente il bene od il servizio e la sua attività si può estendere anche all’ambito dei lavori pubblici.
In aggiunta a tali attività proprie della Centrale di committenza, con il nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 50/2016) sono introdotte espressamente ed in via innovativa le attività ausiliarie (attività di committenza ausiliarie, art. 3, comma 1, lett. m), di supporto alle attività di committenza, quali: la consulenza sullo svolgimento e sulla progettazione, nonchè la preparazione/gestione delle procedure di appalto per conto della stazione appaltante. Tali attività ausiliarie sono solamente eventuali: possono essere svolte solamente da Centrali di Committenza qualificate e non su base permanente.
L’ambito entro cui ciascuna amministrazione può svolgere funzioni di stazione appaltante viene nel nuovo codice appalti circoscritto sul piano soggettivo: è infatti imposto l’onere per le Centrali di Committenza di conseguire una specifica qualificazione, così come è imposto un limite agli importi per gli approvvigionamenti che possono essere conclusi da amministrazioni non qualificate. Così, l’utilizzo del modello centralizzato di approvvigionamento trova anche nel nuovo codice appalti compiuta espressione.
Gli acquisti di energia da parte della P.A. ed enti locali si inseriscono in questa articolata stratificazione di norme nazionali sugli Acquisti Pubblici ed in tale sistema di centralizzazione degli approvvigionamenti, pur con le dovute eccezioni.
Con riferimento agli acquisti di energia elettrica, gas naturale, combustibili per riscaldamento, è disposto l'obbligo, per le tutte le P.A. e le società a totale partecipazione pubblica inserite nel conto consolidato Istat, di procedere ai propri approvvigionamenti esclusivamente per il tramite degli strumenti predisposti a tal fine da Consip (convenzioni o accordi quadro) o dalle centrali di committenza regionali di riferimento, ovvero di esperire proprie autonome procedure, nel rispetto della normativa vigente, per il tramite dei sistemi telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti sopra indicati. Fermi quindi gli obblighi di acquisizione centralizzata previsti in generale per i beni ed i servizi dalla normativa vigente, il sistema speciale di approvvigionamento specifico per tali categorie di beni rende obbligatorio il ricorso alle alternative sopra menzionate (art. 1, comma 7, del d.l. n. 95/2012, convertito con modificazioni in legge n. 135/2012, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 494, legge n. 208/2015 (i.e. legge di Stabilità 2016)).
E’ da evidenziarsi, d’altro canto, che fino al 31 dicembre 2016 per tali soggetti era possibile in via alternativa procedere anche al di fuori di queste modalità (c.d. outside option) alla presenza di due condizioni cumulative: gli affidamenti dovevano derivare da approvvigionamenti effettuati in base a procedure ad evidenza pubblica e prevedere corrispettivi inferiori almeno al 3% (per le categorie di energia elettrica e gas) rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni messe a disposizione. Tale modalità permetteva così alle stazioni appaltanti ed alle società a partecipazione pubblica di potersi approvvigionare autonomamente in deroga a quanto sopra.
Il legislatore, per le motivazioni espresse nella relazione illustrativa di accompagnamento alla legge di Stabilità 2016 (Tit. VI Misure di razionalizzazione della spesa pubblica, art. 28) e quindi al fine di concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso una razionalizzazione delle spese delle pubbliche amministrazioni, ha invece preferito sospenderne in via sperimentale l’applicazione fino al 31 dicembre 2019.
Tale sospensione rientra nel più generale intento di riduzione della spesa e semplificazione delle procedure poc’anzi evidenziato, per il tramite di sempre più stringenti limitazioni agli approvvigionamenti autonomi a fronte di un sempre maggiore sviluppo del sistema di acquisti a rete centralizzato. Secondo il legislatore “l'evidenza deriva” infatti “dalla circostanza che fattivamente le P.A., per acquisti autonomi, ottengono generalmente prezzi più alti di quelli spuntati da Consip nelle procedure di acquisto centralizzate, come confermato dagli esiti stessi dell'Indagine MefIstat. Infine, si ritiene che il processo di centralizzazione determini un risparmio di processo a livello di sistema, dal momento che ogni processo di gara ha dei costi effettivi in termini di risorse impiegate nella stesura delle documentazioni, nelle commissioni, costi di pubblicazione, costi derivanti dall'attività di contenzioso, ecc.”.
In realtà, le implicazioni di tale sistema a livello di concorrenza e di risparmio di spesa saranno visibili non nel breve periodo quanto invece nel corso della sperimentazione. Gli effetti reali, sperando che ve ne siano di positivi, andranno quindi valutati non solo per le P.A. ma anche e soprattutto per i soggetti privati obbligati ormai a confrontarsi con realtà pubbliche agglomerate, i quali vengono toccati ancor più profondamente da questo ulteriore giro di vite normativo verso la centralizzazione degli approvvigionamenti. D’altro canto, per coniugare le esigenze di flessibilità con i nuovi vincoli procedurali, è necessario che le stesse P.A. si attivino per conseguire, in forma aggregata, le qualificazioni per poter procedere ad acquisti personalizzati in linea con la normativa e con le meritevoli finalità di riduzione della spesa pubblica.
In tal senso l’esternalizzazione non deve essere intesa come l’obiettivo finale, ma piuttosto come lo strumento che, a seguito di comparazioni fra soluzioni alternative, dovrebbe portare a determinati vantaggi: l’utilizzo di una struttura esterna che si occupi della gestione dei vari processi di approvvigionamento svincolerebbe infatti le amministrazioni dalla necessità di indire, con tutti gli oneri burocratici che ne comporta, le gare per proprio conto. Inoltre il meccanismo di accentramento delle gare in poche strutture consentirebbero di concentrare in queste ultime risorse maggiormente specializzate, con risultati attesi in termini di maggiore efficienza dei procedimenti.
In altre parole, le procedure si rivelerebbero più snelle, le modalità e gli strumenti di acquisto più standardizzati, l’impiego efficiente delle risorse di più facile verifica. Le strutture, qualificate sulla base del nuovo codice degli appalti secondo standard ancora da definire, sarebbero così in grado di accumulare esperienza nella gestione dei rapporti sia con le singole amministrazioni sia con i fornitori di beni e servizi, accrescendo in termini generali la propria affidabilità e competenza.
A tali vantaggi corrispondono, d’altro canto, alcuni profili di criticità. Al beneficio per le P.A. di ottenere significativi risparmi di spesa sui costi unitari dei prodotti corrisponde, ad esempio, il rischio di precludere l’accesso al mercato alle imprese di piccole dimensioni. Quest’ultime, impossibilitate dalle minori capacità produttive e distributive, risulterebbero svantaggiate dalle economie di scala atte a favorire le imprese più grandi.
Inoltre: i chiari vantaggi per le singole P.A. in termini di diminuzione dei costi interni di gestione e pubblicizzazione e della riduzione dei tempi di approvvigionamento potrebbero accompagnarsi ad un abbassamento generale della qualità del servizio fornito, in regime di “oligopolio”, dalle centrali di committenza alle stesse amministrazioni. Il garantire la disponibilità di convenzioni sempre aggiornate, al fine di non lasciare nell’incertezza gli enti fruitori delle stesse, potrebbe comportare da parte delle Centrali una minore attenzione allo sviluppo di capitolati di alta qualità e alla ricerca di migliori condizioni di acquisto.
Si auspica dunque che, nell’ottica di questo rinnovamento, le strutture coinvolte siano chiamate non solo a presidiare la corretta definizione delle procedure ma anche ad ascoltarsi vicendevolmente nelle fasi di programmazione dei fabbisogni e di riscontro sulla corretta esecuzione dei contratti, al fine di acquistare beni e servizi sempre più rispondenti alle effettive esigenze del variegato mondo delle pubbliche amministrazioni.
30 gennaio 2017
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Pubblica Amministrazione
Pubblico impiego: da una riforma all’altra. E non sempre la giurisprudenza è di aiuto per gli operatori
di Luca Busico
SOMMARIO: 1) Il pubblico impiego in continua riforma. - 2) Giurisprudenza oscillante: a) le incompatibilità assolute per il dipendente pubblico; b) la mobilità pre-concorsuale. - 3) Conclusioni.
1) Il pubblico impiego in continua riforma
Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ha conosciuto altalenanti vicende dal 1992 ad oggi, passando attraverso ben quattro riforme, vale a dire la “prima privatizzazione” del biennio 1992-93, la “seconda privatizzazione” del biennio 1997-98, la cosiddetta “Riforma Brunetta” del 2009 e la cosiddetta “Riforma Madia”, tuttora in corso.
La “prima privatizzazione”, iniziata col d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (attuativo della l. 23 ottobre 1992, n. 421), ha comportato un importante processo di delegificazione delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro pubblico, caratterizzato dall’estensione tendenzialmente generalizzata delle norme sul rapporto di lavoro privato e dall’individuazione del contratto collettivo quale strumento cardine per superare il previgente regime pubblicistico[1]. Tale processo di sottrazione della disciplina del rapporto di lavoro pubblico alla regolamentazione di tipo autoritativo e di affermazione del primato della contrattazione collettiva è stato ribadito ed implementato con la “seconda privatizzazione”, realizzata con i decreti legislativi 4 novembre 1997, n. 396, 31 marzo 1998, n. 80 e 29 ottobre 1998, n. 387[2], attuativi della legge delega 15 marzo 1997, n. 59 (nota come “Bassanini 1”).
A partire dall’estate del 2008 il legislatore ha promosso un profondo intervento di ristrutturazione normativa del rapporto di lavoro pubblico, che trova il proprio fulcro nella legge 4 marzo 2009, n. 15, recante delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e all’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni[3], attuata ad opera del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. Con tale riforma si assiste ad un processo di ricentralizzazione normativa e di prevalente rilegificazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici[4].
E’ imminente l’ennesima riforma della materia ad opera dei decreti attuativi della legge delega 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. “Riforma Madia”)[5].
Come è stato efficacemente evidenziato[6], la sensazione del giurista, ma ancor più dell’operatore professionale, è quella di trovarsi in un cantiere aperto, che varianti in corso d’opera, suggerite dalle ambizioni riformatrici dei policy makers o più spesso provocate dalla perdurante crisi finanziaria, concorrono a rendere non già dinamicamente incompiuto, ma piuttosto di difficile decifrazione.
2) Giurisprudenza oscillante: a) le Incompatibilità assolute per il dipendente pubblico
Nella sinteticamente descritta situazione di riforma continua è spesso intervenuta in soccorso dell’operatore la giurisprudenza, che per molti profili del pubblico impiego ha fissato dei fondamentali punti fermi. Non mancano tuttavia i casi, in cui anche la giurisprudenza con ondivaghi indirizzi, anche degli organi nomofilattici (Cassazione e Consiglio di Stato), mette davvero in crisi l’operatore, che quotidianamente deve applicare le norme di legge. A titolo esemplificativo si farà riferimento agli indirizzi giurisprudenziali della Cassazione in tema di incompatibilità assolute per il dipendente pubblico e del Consiglio di Stato in tema di mobilità pre-concorsuale.
2a) le incompatibilità assolute per il dipendente pubblico
Come è noto, la norma di legge che nell’attuale regime di pubblico impiego contrattualizzato disciplina le incompatibilità per i dipendenti pubblici è l’art.53, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, secondo il cui comma 1 resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt.60 e seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3[7], salve le deroghe previste dalla legge[8], tra cui quella per i rapporti di lavoro a tempo parziale.
La disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt.60-65 del d.P.R. n. 3 del 1957 risulta, pertanto, estesa a tutti i dipendenti pubblici.
In base all’art.60 il dipendente pubblico non può esercitare attività industriali, commerciali e professionali: secondo la giurisprudenza il divieto opera quando le citate attività vengono svolte in modo continuativo, intenso, nonché adeguatamente lucrativo[9]. Inoltre, sempre secondo la citata norma, lo status di pubblico dipendente è incompatibile con l’assunzione di cariche gestionali in società costituite a fini di lucro (amministratore, consigliere, sindaco, liquidatore). Come è stato efficacemente evidenziato dal Consiglio di Stato, la ratio di tale incompatibilità è nell’opportunità di evitare le disfunzioni e gli inconvenienti che deriverebbero all’amministrazione dal fatto che il proprio personale si dedichi ad attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso inscindibile tra lavoro, rischio e profitto[10].
L’inosservanza del divieto di cui all’art.60 del d.P.R. n. 3 del 1957 comporta, in base all’art.63 del d.P.R. medesimo, una previa diffida datoriale volta a far cessare l’incompatibilità e, quindi, in caso di inottemperanza alla diffida, la decadenza dall’impiego. La diffida, determinando l’obbligo di far cessare entro un breve termine una supposta situazione di incompatibilità, pena la decadenza dall’impiego, presuppone il serio e scrupoloso accertamento della sussistenza della situazione suddetta[11].
In caso di inottemperanza alla diffida a cessare dall’attività incompatibile entro il termine perentorio di quindici giorni segue la dichiarazione di decadenza dall’impiego. La permanenza di tale istituto pubblicistico, in forza del richiamo contenuto nell’art.53, co. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, anche in un sistema “contrattualizzato”, evidenzia la specialità del rapporto di lavoro pubblico più volte rimarcata dalla Corte Costituzionale[12].
Per la giurisprudenza della Corte di Cassazione la decadenza ex art.63 del d.P.R. n. 3 del 1957 non ha natura sanzionatoria o disciplinare, in quanto non è la conseguenza di un inadempimento, bensì scaturisce dalla perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità, che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la costituzione del rapporto di lavoro[13]. A ciò consegue il carattere automatico della decadenza nel caso di inottemperanza alla diffida: da siffatto automatismo espulsivo deriva, secondo la richiamata giurisprudenza di legittimità, la non necessità di un previo contraddittorio con l’interessato.
Qualora, invece, il dipendente ottemperi alla diffida, cessando dalla situazione di incompatibilità, non scatta l’automatismo espulsivo descritto. L’art.63 del d.P.R. n. 3 del 1957 prevede, tuttavia, che la temporanea inosservanza del divieto di esercizio di attività incompatibile, seppur rimossa a seguito di ottemperanza alla diffida, “non preclude l'eventuale azione disciplinare”. Secondo la Corte di Cassazione da tale dettato normativo si desume che solo nel caso in cui il dipendente abbia ottemperato alla diffida, facendo cessare la causa di incompatibilità, il suo comportamento assume rilievo disciplinare e rientra nelle previsioni degli artt.55 e segg. del d.lgs. n. 165 del 2001[14].
Non sono, però, mancate pronunce in cui la Suprema Corte ha, invece, sostenuto che a fronte di una condotta riconducibile alle ipotesi di incompatibilità assoluta sia possibile una contestazione avente natura essenzialmente disciplinare[15]. Benché si possa discutere sulla permanenza in vita di un istituto tipicamente pubblicistico, quale la decadenza ex art.63 del d.P.R. n. 3 del 1957, in un sistema di pubblico impiego contrattualizzato[16], quest’ultima soluzione lascia perplesso chi scrive, in quanto la lettera della norma è molto chiara nel senso che l’azione disciplinare postula l’invio della diffida e la rimozione, per avvenuta ottemperanza alla medesima, della causa di incompatibilità. Occorre, a tal proposito, rilevare che il richiamo alla responsabilità disciplinare contenuto nell’art.53, co. 7 del d.lgs. n. 165 del 2001 si riferisce alle violazioni della normativa sulle attività relativamente incompatibili (soggette ad autorizzazione) e non alle attività assolutamente incompatibili, per le quali il medesimo art.53, al co. 1, rimanda espressamente agli artt.60 e segg. del d.P.R. n. 3 del 1957[17].
La semplice domanda, che a questo punto l’operatore in servizio presso gli uffici del personale di un’amministrazione pubblica si pone, è la seguente: in caso di accertato espletamento da parte di un dipendente di attività commerciale (o industriale o professionale) si deve attivare la procedura dell’art.63 del d.P.R. n. 3 del 1957 o il procedimento disciplinare? Il rischio è che alla fine il timore di sbagliare conduca a non attivare né l’una né l’altra procedura.
2b) la mobilità pre-concorsuale
Come è noto, l’art.30, co. 2-bis del d.lgs. n. 165/ del 2001 dispone che le amministrazioni, prima di procedere all'espletamento di procedure concorsuali, finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità, provvedendo, in via prioritaria, all'immissione in ruolo dei dipendenti, provenienti da altre amministrazioni, in posizione di comando o di fuori ruolo, appartenenti alla stessa area funzionale, che facciano domanda di trasferimento nei ruoli delle amministrazioni in cui prestano servizio.
La previsione risponde a generali esigenze costituzionali di finanza pubblica, in quanto la procedura di mobilità comporta un’ampia contrazione dei costi e dei tempi, sicuramente meno onerosi e durevoli rispetto a quelli necessari all’espletamento di un concorso, nonché una corretta distribuzione del personale, spostando le eccedenze di talune amministrazioni in enti aventi carenze di personale, senza costi retributivi (e, in futuro, pensionistici).
Come è stato evidenziato dalla giurisprudenza[18], il previo esperimento di procedure di trasferimento mediante mobilità da altre amministrazioni rispetto all’indizione dei concorsi pubblici per la copertura dei posti disponibili, risponde sia agli interessi delle amministrazioni, sia agli interessi dei dipendenti: per le amministrazioni l’istituto è idoneo a garantire economie di spesa ed utilizzare il personale nel modo più razionale, evitando di effettuare nuove assunzioni quando sia possibile riallocare diversamente i dipendenti non più indispensabili in un determinato ente o comparto; i dipendenti, a loro volta, possono far fronte alle loro aspirazioni di espletare la propria attività presso altre amministrazioni per ragioni professionali, ma anche più semplicemente logistiche, come l’avvicinamento alla propria residenza.
In termini più sintetici, il Consiglio di Stato in sede consultiva ha sottolineato che “la mobilità consente varie finalità quali l’acquisizione del personale già formato, l’immediata operatività delle scelte, l’assorbimento di eventuale personale eccedentario ed i risparmi di spesa conseguenti a tutte le ricordate situazioni”[19].
Tenuto conto dell’evidente favor legis per la mobilità espresso dall’art.30, co. 2-bis del d.lgs. n. 165, la consolidata giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che la doverosa attivazione della mobilità anteriormente al concorso costituisce la regola generale per tutte le amministrazioni e che la sua inosservanza comporta l’annullamento delle procedure concorsuali indette[20].
Di recente il Consiglio di Stato, in una controversia relativa il personale amministrativo (ergo non magistratuale) del Consiglio Superiore della Magistratura, ha affermato, in modo del tutto innovativo ed in assenza di un avallo normativo in tal senso, che dal citato art.30, co. 2-bis si ricava un principio non di inderogabilità, ma di preferenzialità, della mobilità, tenuto anche conto delle numerose pronunce della Corte Costituzionale in tema di accesso alla pubblica amministrazione mediante concorso pubblico[21].
A supporto di tale affermazione la sentenza richiama, in modo poco convincente ad avviso di chi scrive, l’orientamento giurisprudenziale sulla questione, peraltro assai discussa, del rapporto tra scorrimento di graduatoria concorsuale vigente e mobilità[22], che afferma la preferenza per il primo, data la maggiore celerità con cui consente di addivenire all’assunzione[23].
Occorre, anzitutto, rilevare che vi sono state pronunce, anche del Consiglio di Stato stesso, di segno contrario favorevoli alla procedura di mobilità rispetto allo scorrimento[24]. Ma, comunque, la preferenza per lo scorrimento non può condurre de plano ad escludere l’obbligo di preventiva mobilità rispetto all’indizione di nuovo concorso, da sempre punto fermo nella giurisprudenza amministrativa[25] alla luce del chiaro dettato dal più volte citato art.30, co. 2-bis, espressivo di valori costituzionali di salvaguardia delle casse pubbliche, compatibili e prevalenti rispetto al concorso, comunque già sostenuto dal personale interessato alla mobilità.
Il principio di accesso concorsuale all’impiego pubblico, su cui il Consiglio di Stato argomenta, è compatibile con la previa mobilità, riservata a chi ha già superato un concorso. Tale concetto lineare, semplice e conforme a Costituzione è fatto proprio, da sempre, dallo stesso Consiglio di Stato, che ha sistematicamente evidenziato che il reclutamento dei dipendenti pubblici avviene attraverso un procedimento complesso nell’ambito del quale la procedura concorsuale non è affatto soppressa, ma è subordinata alla previa obbligatoria attivazione della mobilità, in attuazione dei fondamentali principi di imparzialità e buon andamento, predicati dall’art.97 della Costituzione[26].
Il medesimo operatore professionale, dopo la lettura della citata pronuncia del Consiglio di Stato, si domanda se a questo punto operi il principio “di preferenzialità della mobilità” e non più quello consolidato “di inderogabilità della mobilità” e se anche altre amministrazioni meno “autorevoli” del Consiglio Superiore della Magistratura (aziende sanitarie, camere di commercio, enti di ricerca, enti locali) possano adottare legittimamente previsioni regolamentari volte ad escludere la mobilità ed a svolgere esclusivamente e direttamente i concorsi.
3) Conclusioni
In una situazione di riforma perenne e, almeno per alcuni ambiti (come quelli richiamati al precedente paragrafo), di giurisprudenza oscillante ed ondivaga l'incertezza applicativa regna sovrana.
Per il futuro del pubblico impiego l’auspicio di chi scrive (nella duplice veste, di operatore professionale, anzitutto, e, a tempo perso, di studioso) è duplice: 1) che il legislatore intervenga il meno possibile, al fine di evitare quella situazione, che autorevole dottrina, più di sessanta anni addietro, qualificava come “analogia tra l’inflazione legislativa e l’inflazione monetaria”[27]; 2) che le supreme magistrature tengano sempre in considerazione la fondamentale funzione nomofilattica. La speranza è che l’operatore, con riferimento al principio di certezza del diritto[28], non debba recitare i versi di un grande poeta “E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera”[29].
*Coordinatore Direzione del personale dell’Università di Pisa.
[1] Cfr.: ORSI BATTAGLINI, Fonti normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, in Dir. lav. rel. ind., 1993,470; D’ANTONA, Le fonti privatistiche. L’autonomia contrattuale delle pubbliche amministrazioni in materia di rapporti di lavoro, in Foro it., 1995,V,41; MARESCA, La trasformazione del rapporto di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, in Dir. lav. rel. ind., 1996,2183.
[2] Cfr.: D’ORTA, La seconda fase di riforma dell’impiego pubblico: verso la fine del guado,cercando di evitare gli scogli, in Il lav. nelle P.A., 1998,347; D’ANTONA, Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la seconda privatizzazione del pubblico impiego (osservazioni sui d.lg. n. 396 del 1997, n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998), in Foro it., 1999,I,625.
[3] Cfr.: ROMEO, La controriforma del pubblico impiego, in Lav. giur., 2009,761; PESSI, Ripensando alla riforma della pubblica amministrazione: manutenzione o restaurazione?, in Mass. giur. lav., 2009,294; D’AMORE, Impiego pubblico privatizzato: evoluzione normativa, in Dir. prat. lav., 2009,1625.
[4] Cfr.: TALAMO, Pubblico e privato nella legge delega per la riforma del lavoro pubblico, in Giorn. dir. amm., 2009,469; GARILLI-BELLAVISTA, Riregolazione legale e decontrattualizzazione: la neoibridazione normativa del lavoro nella pubbliche amministrazioni, in Il lav. nelle P.A., 2010,1.
[5] Cfr. l’ampia analisi della legge sul n. 3/2015 di Riv. giur. lav., con i contributi di BARBIERI, BELLAVISTA, D’AURIA, REALFONZO, VISCIONE, ZOPPOLI, BORGOGELLI, GARILLI, VETTOR e D’ONGHIA.
[6] Cfr. VISCOMI, Lavoro pubblico: cose fatte, disfatte e da fare, in Il lav. nelle P.A., 2015,195.
[7] Si riportano gli artt.60-63 del d.P.R. n. 3 del 1957:
Art.60 (Casi di incompatibilità) L'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all'uopo intervenuta l'autorizzazione del Ministro competente.
Art.61 (Limiti dell'incompatibilità) Il divieto di cui all'articolo precedente non si applica nei casi di società cooperative. L'impiegato può essere prescelto come perito od arbitro previa autorizzazione del Ministro o del capo ufficio da lui delegato.
Art.62 (Partecipazione all'amministrazione di enti e società) Nei casi stabiliti dalla legge o quando ne sia autorizzato con deliberazione del Consiglio dei Ministri, l'impiegato può partecipare all'amministrazione o far parte di collegi sindacali in società o enti ai quali lo Stato partecipi o comunque contribuisca, in quelli che siano concessionari dell'amministrazione di cui l'impiegato fa parte o che siano sottoposti alla vigilanza di questa. Nei casi di rilascio dell'autorizzazione del Consiglio dei Ministri prevista dal presente comma l'incarico si intende svolto nell'interesse dell'amministrazione di appartenenza del dipendente ed i compensi dovuti dalla società o dall'ente sono corrisposti direttamente alla predetta amministrazione per confluire nelle risorse destinate al trattamento economico accessorio della dirigenza o del personale non dirigenziale.
Art.63 (Provvedimenti per casi di incompatibilità) L'impiegato che contravvenga ai divieti posti dagli artt.60 e 62 viene diffidato dal Ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità. La circostanza che l'impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l'eventuale azione disciplinare. Decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che l'incompatibilità sia cessata, l'impiegato decade dall'impiego. La decadenza è dichiarata con decreto del Ministro competente, sentito il Consiglio di amministrazione.
[8] Cfr.: l’art.23-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, che consente ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni di essere collocati in aspettativa senza assegni per lo svolgimento di attività presso strutture pubbliche o private; l’art.18, co. 1 della legge 4 novembre 2010, n. 183, secondo cui i dipendenti pubblici possono essere collocati in aspettativa, senza assegni e senza decorrenza dell’anzianità di servizio, per un periodo massimo di dodici mesi, anche per avviare attività professionali e imprenditoriali.
[9] Cfr.: TAR Puglia-Bari, sez. I, 15 maggio 1998 n. 310, in TAR, 1998,I,2745; Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2001 n. 2386, in Cons. St., 2001,I,435; TAR Campania-Napoli, sez. II, 22 gennaio 2002 n. 389, in Foro amm. TAR, 2002,202; Cons. St., sez. I, 22 ottobre 2003 n. 3744/03, in www.giustizia-amministrativa.it; Cass., sez. lav., 11 giugno 2015 n. 12120, in Lexitalia, n. 6/2015. In senso contrario e non condivisibile Cass., sez. lav., 26 novembre 2012 n. 20857, in Dir. & giust., 26 novembre 2012, secondo cui il divieto di cui all’art.60 del d.P.R. n. 3 del 1957 ricorre anche nel caso di attività non continuativa e non remunerata.
[10] Cfr. Cons. St., sez. IV, 7 giugno 2004 n. 3618, in Foro amm. CDS, 2004,2561.
[11] Cfr. Cons. St., sez. I, 22 ottobre 2003 n. 3744/03, cit. alla nota n. 9.
[12] Cfr.: C. Cost., 25 luglio 1996 n. 313, in Giur. cost., 1996,2584 con nota di PINELLI, Foro it., 1997,I,34 con nota di FALCONE; C. Cost., 16 ottobre 1997 n. 309, in Riv. it. dir. lav., 1998,II,33 con note di PERA, VALLEBONA; C. Cost., 27 marzo 2003 n. 89, in Lav. giur., 2003,831 con nota di SCIORTINO, Giust. civ., 2004,I,2901 con nota di MENEGATTI, Giur. it., 2004,19 con nota di MEZZACAPO; C. Cost., 5 giugno 2003 n. 199, in Mass. giur. lav., 2003,800 con nota di BARBIERI.
[13] Cfr.: Cass., sez. lav., 19 gennaio 2006 n. 967, in Foro it., 2006,I,2346 con nota di PERRINO; Cass., sez. lav., 21 agosto 2009 n. 18608, in Riv. it. dir. lav., 2010,413 con nota di SIOTTO; Cass., sez. lav., 12 ottobre 2012 n. 17437, in Il lav. nelle p.a., 2012,903; Cass., sez. lav., 11 giugno 2015 n. 12120, in Lexitalia.it, n. 6/2015. In tal senso anche Trib. Frosinone, ord. 12 dicembre 2013, in Riv. it. dir. lav., 2014,II,881 con nota di AVALLONE.
[14] Cfr.: Cass., sez. lav., 19 gennaio 2006 n. 967, 21 agosto 2009 n. 18608 e 12 ottobre 2012 n. 17437, cit. alla nota precedente.
[15] Cfr.: Cass., sez. lav., 8 luglio 2011 n. 15098, in Rep. foro it., 2011, voce Impiegato dello Stato, 459; Cass., sez. lav., 26 novembre 2012 n. 20857, cit. alla nota n. 9; Cass., sez. lav., 15 gennaio 2015 n. 617, in lexitalia.it, n. 1/2015; Cass., sez. lav., 25 giugno 2015 n. 13158, in Foro it., 2015,I,3531 con nota di PERRINO.
[16] Cfr.: PERRINO, nota a Cass., sez. lav., 19 gennaio 2006 n. 967, ivi, 2006,I,2346; PONTE, La risoluzione del rapporto per conflitto con il S.S.N., tra procedimento disciplinare e decadenza, in Arg. dir. lav., 2009,893; D’APONTE, L’autorizzazione dei dipendenti pubblici allo svolgimento di incarichi esterni dopo la riforma Brunetta, in Il lav. nelle p.a., 2011,971.
[17] Per un’efficace ed esaustiva esposizione della differenza tra incompatibilità assolute ed incompatibilità relative per il dipendente pubblico, cfr. C. conti, sez. giur. Lombardia, 25 novembre 2014 n. 216, ivi, 2015,336 con nota di DI ROLLO.
[18] Cfr.: Cons. St., sez. V, 18 agosto 2010 n. 5830, in Giust. civ., 2011,I,239; TAR Campania-Napoli, sez. V, 17 settembre 2012 n. 3886, in Foro amm. TAR, 2012,2832; C. Conti, sez. contr. Piemonte, 30 luglio 2013 n. 280, in www.corteconti.it.
[19] Cfr. Cons. St., sez. I, 7 novembre 2012 n. 5017, in Il lav. nelle P.A., 2013,883 con nota di BOLOGNINO.
[20] Cfr.: TAR Campania-Napoli, sez. V, 18 ottobre 2006 n. 8616, in Foro amm. TAR, 2006,3301; TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. I, 2 dicembre 2009 n. 2634, in Corr. merito, 2010,200; Cons. St., sez. V, 18 agosto 2010 n. 5830, cit. alla nota n. 18; Cons. St., sez. V, 17 gennaio 2014 n. 178, in Lexitalia.it, n. 1/2014 con nota di NIGLIO.
[21] Cfr. Cons. St., sez. IV, 1 giugno 2016 n. 2318, ivi, n. 6/2016 con nota di chi scrive.
[22] Cfr.: ROSSI, Reclutamento dei dipendenti pubblici e prevalenza della mobilità pre-concorso sullo scorrimento di una graduatoria concorsuale, in questa Rivista, n. 3/2014; RICCI, L’Adunanza plenaria del Consiglio di stato in funzione nomofilattica: il caso dello scorrimento delle graduatorie concorsuali, in Il lav. nelle P.A., 2015,447.
[23] Cfr.: Cons. St., sez. V, 31 luglio 2012 n. 4329, in Giust civ., 2013,I,241; Cons. St., sez. V, 27 agosto 2014 n. 4361, in Foro amm., 2014,2051; Cons. St., sez. V, 6 novembre 2015 n. 5078, in questa Rivista, n. 11/2015 con nota di NIGLO; TAR Puglia-Bari, sez. II, 14 gennaio 2016 n. 30, ivi, n. 1/2016.
[24] Cfr.: Cons. St., sez. I, 7 novembre 2012 n. 5017, cit. alla nota n. 19; TAR Sardegna, sez. I, 26 giugno 2013 n. 478, in Foro amm. TAR, 2013,2162; TAR Basilicata, sez. I, 3 febbraio 2014, n. 107, in Foro amm., 2014,692.
[25] Cfr.: Cons. St., sez. V, 18 agosto 2010 n. 5830, cit. alla nota n. 18; Cons. St., sez. V, 28 novembre 2014 n. 5903, in Foro amm., 2014,2750.
[26] Cfr.: Cons. St., sez. V, 18 agosto 2010 n. 5830, cit. alla nota n. 18; Cons. St., sez. V, 17 gennaio 2014 n. 178, cit. alla nota n. 20.
[27] Cfr. CARNELUTTI, La morte del diritto, in Balladore Pallieri, Calamandrei, Capograssi, Carnelutti, Delitala, Jemolo, Rava, Ripert, La crisi del diritto, Padova, 1953,180.
[28] Cfr. COSSA, Tra mitologia e concretezza: alcuni spunti storico-comparatistici in tema di certezza del diritto, in questa Rivista.
[29] Cfr. Dino CAMPANA, La Chimera.
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Pubblica Amministrazione
Semplificazione amministrativa e tempi del procedimento
di Antonio Colavecchio*
Sommario: 1.Premesse generali: il rapporto tra “semplificazione” e “tempestività” dell’azione amministrativa e la sua evoluzione nell’attuale contesto socio-economico. – 2. Il “decreto Semplifica Italia” e il “decreto Sviluppo”. La trasmissione obbligatoria alla Corte dei conti delle sentenze passate in giudicato di accoglimento dei ricorsi contro il silenzio-inadempimento. – 2.1. (Segue) La “ricognizione” delle forme di responsabilità da omissione o ritardo nella conclusione del procedimento. – 2.2. (Segue) Il meccanismo di “sostituzione interna” per la conclusione del procedimento. – 3. La “legge anti-corruzione”. La conclusione del procedimento “in forma semplificata”. – 4. Il “decreto del Fare”. Gli indennizzi da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premesse generali: il rapporto tra “semplificazione” e “tempestività” dell’azione amministrativa e la sua evoluzione nell’attuale contesto socio-economico
Gli istituti volti ad assicurare la conclusione in tempi certi e celeri del procedimento amministrativo sono entrati a far parte, ormai, dello strumentario “classico” della semplificazione amministrativa.
Tutti i più recenti interventi di revisione dell’art. 2 della l. n. 241/1990 – che, come noto, sancisce il generale obbligo di provvedere della P.A., disciplinando i termini di conclusione del procedimento amministrativo – pongono, infatti, in stretto rapporto la semplificazione procedimentale con la garanzia del conseguimento di “risposte” in tempi certi e rapidi alle istanze avanzate dai cittadini: nel senso che gli strumenti con cui tale garanzia viene apprestata, nella misura in cui consentono di superare eventuali inerzie o rallentamenti dell’Amministrazione nel provvedere, conferendo certezza e celerità ai tempi procedimentali, vengono configurati come altrettanti istituti attuativi di quell’indirizzo legislativo, affermatosi in modo “sistematico” nell’ordinamento italiano a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, verso la maggiore semplificazione dell’attività amministrativa.
In effetti, prima ancora che sul piano della politica legislativa, il rapporto tra semplificazione amministrativa, da un lato, e certezza e celerità dei tempi del procedimento (ciò che, anche per comodità espositiva, può riassumersi nel concetto di “tempestività”), dall’altro, si rinviene sul piano, più elevato, dei principi: sia il principio di semplificazione, sia quello di tempestività, infatti, risultano tra loro accomunati dalla stessa origine, discendendo dal più generale principio del “buon andamento” di cui all’art. 97 Cost., soprattutto inteso come “efficienza” dell’azione amministrativa.
Stante il loro “ceppo” comune, i principi di semplificazione e tempestività seguono le sorti evolutive del principio da cui, per rimanere nella metafora, essi si dipanano e si sviluppano come “rami”: è così che quando il principio di buon andamento – ancor più sotto la spinta delle esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica – viene ad essere assimilato al criterio di efficienza dell’operato della P.A., ed anzi, con esso identificato, semplificazione e tempestività cessano di essere soltanto principi di indirizzo o di orientamento, ma divengono principi dotati di precettività, ovvero parametri generali giuridicamente vincolanti, a tal segno da essere sussunti, quali fattori essenziali per la produzione del “risultato amministrativo”, nella sfera della “legalità”, ovvero, nella specie,della c.d. “legalità di risultato”.
Ciò che comporta, in termini più concreti, che la prestazione amministrativa deve essere resa nell’ambito di modelli comportamentali i cui parametri di riferimento sono costituiti, per quanto qui interessa, dalla tempestività e dalla semplicità delle procedure.
Si tratta, in sintesi, della “qualità” della prestazione amministrativa, con riguardo alla quale il rispetto dei parametri temporali propri di ciascun procedimento amministrativo costituisce certamente uno degli “indicatori” di maggior “peso”. Il “tempo” rappresenta, dunque, già in se stesso, un fondamentale fattore di valutazione del risultato, tanto più rilevante quando semplicemente si consideri che una parte non piccola delle più recenti misure di semplificazione amministrativa ha proprio ad oggetto il tempo, o meglio la sua misurazione.
In effetti, è nella legislazione più recente che il rapporto tra semplificazione e tempestività si fa particolarmente stretto, tanto da apparire, ormai, indissolubile, sino, quasi, a formare un’endiade.
In un momento di crisi economico-finanziaria come quello attuale, si afferma, infatti, una legislative public opinion, che, percependo più fortemente il “tempo” quale fattore cruciale dell’economia, richiede e promuove un processo di tutela e valorizzazione di tale fattore anche nei rapporti tra privati e pubbliche Amministrazioni; e ciò, a maggior ragione, in quanto tali rapporti appaiono ancora svolgersi secondo procedure eccessivamente lente e farraginose. In questa prospettiva, quando non addirittura obliterati (si pensi agli istituti del silenzio-assenso e della S.C.I.A.), gli “ordinari” moduli procedimentali vengono “semplificati”, per esempio mediante la riduzione delle fasi procedimentali e delle amministrazioni intervenienti, ma anche attraverso la prefissione di termini resi certi con meccanismi automatici e sostitutivi nel caso di mancato rispetto. Procedimenti con un grado di complessità “alleggerito” dovrebbero prestarsi, infatti, ad una loro più sicura e rapida conclusione, con vantaggi economicamente valutabili non solo per i soggetti privati interessati, ma anche per le stesse pubbliche Amministrazioni. In questa prospettiva, la “legislazione della crisi” tende marcatamente ad assegnare prevalenza all’esigenza di garantire che l’Amministrazione comunque “provveda” rispetto a quella – opposta – di completezza dell’istruttoria.
Sotto altro e connesso profilo, le condizioni socio-economiche di contesto sembrano rendere più vivida anche la percezione del carattere anti-giuridico che, di per sé, assume l’inerzia della P.A. o il ritardo nell’esercizio dell’attività amministrativa: a fronte della scarsità delle risorse finanziarie, che riduce anche la possibilità di accesso al credito da parte di cittadini e imprese, la capacità di programmare l’impiego dei (ridotti) mezzi finanziari disponibili diviene un elemento fondamentale per l’esito economicamente positivo delle scelte di investimento; e poiché il fattore tempo costituisce variabile essenziale di tale programmazione finanziaria privata, nonché dell’attuazione ad essa relativa, il tempo del procedimento amministrativo deve essere ragionevolmente “calcolabile”; altrimenti, quando la realizzazione dell’investimento sia condizionata all’adozione di un provvedimento da parte della P.A., verrebbe notevolmente ridotta la suddetta capacità di programmazione ed aumenterebbe, per converso, il c.d. “rischio amministrativo”. In più, va considerato che, quando i tempi per l’adozione del provvedimento finale, pur normativamente prefissati, non siano rispettati, si produce comunque un’alterazione dei piani finanziari predisposti dal soggetto privato e del percorso per la loro attuazione, con conseguenti maggiori costi da sostenere per far fronte a tale “imprevisto”. Ciò anzitutto in caso di ritardo nell’emanazione di un provvedimento favorevole (per esempio, un’autorizzazione), nella cui attesa, prolungatasi oltre il termine di conclusione del procedimento, il soggetto privato, non potendo avviare nei tempi previsti un’attività economica progettata, ha tenuto inattive le proprie maestranze e le proprie attrezzature e non ha potuto introitare le somme derivanti dall’esercizio dell’attività stessa. Ma anche, deve ritenersi, in caso di ritardo nell’adozione di un provvedimento sfavorevole (quindi, per rimanere all’esempio fatto, un diniego di autorizzazione), in quanto il privato, non avendo potuto conoscere, nei tempi prestabiliti, l’esito negativo del procedimento, non ha neppure potuto, con la rapidità richiesta dalle esigenze della moderna economia, ri-programmare l’utilizzo delle proprie risorse finanziarie verso la realizzazione di un diverso investimento, né impiegare in altra attività le risorse umane e strumentali a sua disposizione.
Nel contesto descritto, dunque, appare evidente come il tempo – o, meglio, la certezza dei tempi dell’azione amministrativa – costituisca in sé un autonomo bene della vita ed anche un bene particolarmente “prezioso”, la cui lesione, quindi, è suscettibile di produrre rilevanti conseguenze negative nella sfera giuridica patrimoniale (e, talvolta, anche personale) del privato che subisca l’inerzia o il ritardo dell’Amministrazione nel provvedere.
La certezza dei tempi di conclusione del procedimento amministrativo, unitamente alla celerità degli stessi, rappresenta, inoltre, un importante fattore di competitività del “sistema-Paese”: infatti, in uno scenario, ormai irreversibile, di “concorrenza tra ordinamenti giuridici”, non può sfuggire come gli investimenti in attività economiche e imprenditoriali vadano a concentrarsi – a maggior ragione nell’attuale congiuntura economica – su quegli ordinamenti in cui sia maggiormente garantita la certezza e la rapidità dei tempi di risposta alle istanze presentate all’Amministrazione per essere facoltizzati all’avvio di tali attività; in altri termini, in quegli ordinamenti laddove il “rischio amministrativo” sia minore e calcolabile. È questa una condizione di sviluppo che, nel nostro ordinamento, si è tentato di realizzare in particolare attraverso politiche di semplificazione procedimentale, caratterizzanti, in una prospettiva più ampia, gli ultimi due decenni di riforme amministrative, e tendenti a farsi anche più intense in periodi di crisi, quando diviene ancora più forte la richiesta di riduzione dei costi regolatori non necessari.
La tempestività dell’azione amministrativa è quindi esigenza che, pur se direttamente riferibile agli interessi del singolo, arriva anche a trascenderli, ponendosi come esigenza generale “di sistema”, ovvero come regola essenziale, cui deve conformarsi l’agire della pubblica Amministrazione: in questo senso appare evidente il carattere di principio generale della necessità che i procedimenti, una volta iniziati, debbano concludersi con provvedimenti espliciti, entro un tempo predeterminato.
Tale principio, come noto, è stato codificato per la prima volta nel 1990, ad opera dell’art. 2 della legge fondamentale sul procedimento, collegandolo, come in un rapporto “simbiotico”, all’obbligo di provvedere. Lo stesso art. 2, poi, si è trovato ripetutamente coinvolto nella messe di revisioni cui, in modo spasmodico, è stata sottoposta, sino ad oggi, la legge procedimentale, manifestamente ispirate, d’altra parte, ai principi di semplificazione e velocizzazione dell’azione della P.A.
L’economia del presente scritto non consente certo di operare una ricostruzione, neppure sommaria, degli svariati interventi di modifica – e sinanco di novellazione – che, in ormai un quarto di secolo di vigenza della legge procedimentale, hanno interessato il suo art. 2; in questa sede, merita piuttosto focalizzare l’attenzione su quegli interventi riformatori in cui il collegamento tra tempestività e semplificazione appare più evidente e viene, anzi, reso esplicito; tali interventi sono, d’altra parte, quelli più recenti. Il che può dirsi sintomatico del rilievo essenziale che i profili connessi al tempo del procedimento hanno assunto nella prospettiva della semplificazione amministrativa e, insieme a questa, nello scenario, di ancor più ampio respiro, della riforma della P.A., essendo ormai pienamente maturata (anche) nel Legislatore la consapevolezza che l’inerzia e i ritardi dell’Amministrazione rientrano tra le principali cause di arretratezza della macchina pubblica. Nell’attuale contesto socio-economico, culturale e istituzionale, infatti, si è ancor più diffusa e consolidata la convinzione dell’impatto negativo sulla competitività del “sistema Paese” del c.d. “rischio amministrativo”: orbene, il contenimento o, quanto meno, la “calcolabilità” di siffatto rischio passano necessariamente attraverso le regole e gli istituti che si prefiggono di sottrarre all’incertezza la determinazione del “quando” circa l’adozione dell’atto amministrativo richiesto.
In un quadro come quello appena tratteggiato, in cui anche la P.A. è, in misura sempre maggiore, sottoposta alle “leggi del mercato”, il tempo dell’attività amministrativa costituisce una dimensione essenziale del conseguimento del risultato della stessa. Difatti, il risultato implica la certezza del diritto, anche e sicuramente sotto l’aspetto della certezza dei tempi di conclusione dei procedimenti amministrativi.
Peraltro, non può sottacersi come, proprio dal momento in cui la P.A. – anche sotto la spinta del diritto europeo – è venuta a trovarsi maggiormente astretta dalle leggi del mercato, è andata, paradossalmente, sempre più divaricandosi la “forbice” tra tempo del procedimento e tempo dell’economia. E ciò non tanto (o non solo) per l’aggravarsi di “ataviche” inadeguatezze e inefficienze degli apparati amministrativi nella gestione dei procedimenti di loro competenza, quanto, piuttosto, a causa di quei fenomeni di trasformazione strutturale della società e dell’economia mondiale, quali la rivoluzione tecnologica e informatica e la (correlata) globalizzazione dei mercati e delle informazioni, che hanno reso il tempo dell’economia troppo veloce per l’Amministrazione pubblica. In altri termini, soprattutto a seguito dei cambiamenti epocali di fine secolo, la distanza tra tempo economico e tempo procedimentale si è fatta molto grande; troppo grande per non essere avvertita come un grave problema nella consapevolezza sociale e politica, così come è palesemente attestato dai ripetuti e insistiti tentativi del Legislatore di colmare o, quanto meno, ridurre tale distanza.
Il riferimento è, da ultimo e per quanto specificamente interessa in questa sede, a quella serie di innovazioni apportate all’art. 2 della l. n. 241/1990 – vale a dire, alla disciplina generale dei termini per la conclusione del procedimento amministrativo – con la “batteria” di provvedimenti legislativi messi in campo dal Governo per contrastare la crisi economica e favorire la ripresa della crescita, anche attraverso l’introduzione di (ulteriori) misure di semplificazione e di “efficientamento” dell’attività amministrativa.
2. Il “decreto Semplifica Italia” e il “decreto Sviluppo”. La trasmissione obbligatoria alla Corte dei conti delle sentenze passate in giudicato di accoglimento dei ricorsi contro il silenzio-inadempimento
Seguendo l’ordine cronologico di questi ultimi interventi legislativi, che apportano ulteriori “correzioni” a vari aspetti della disciplina dei termini procedimentali, vengono innanzitutto in rilievo alcune disposizioni del d.l. n. 5/2012 (c.d. “decreto Semplifica Italia”) e del d.l. n. 83/2012 (c.d. “decreto Sviluppo”). La finalità di questi interventi risulta duplice: da un lato, il rafforzamento degli strumenti di tutela a disposizione dei privati nei confronti delle pubbliche Amministrazioni; dall’altro, la semplificazione dei procedimenti amministrativi al fine di assicurare un più elevato livello di certezza e maggiore celerità per l’adozione del provvedimento finale.
Il d.l. n. 5 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 35/2012, è dichiaratamente diretto, come noto, alla semplificazione amministrativa e, quindi, finisce per collegare tale principio, che si riferisce alla complessiva riforma inerente a vari ambiti di disciplina, con la celerità e l’efficienza dell’azione amministrativa.
In particolare, il decreto “Semplifica Italia” contiene, al co. 1 dell’art. 1, una disposizione che sostituisce e integra i co. 8 e 9 dell’art. 2, l. n. 241/1990, con sei commi numerati da 8 a 9-quinquies.
Le novità introdotte riguardano, in primo luogo, una integrazione della tutela processuale nei confronti del silenzio-inadempimento, ora regolata dal Codice del processo amministrativo (cfr. artt. 31 e 117 c.p.a.). Si introduce, infatti, l’obbligo di trasmettere in via telematica alla Corte dei conti le sentenze di accoglimento del relativo ricorso, quando passate in giudicato. Ciò, verosimilmente, al fine di agevolare la possibilità di esercitare l’azione, ove se ne ravvisino i presupposti, per far valere la responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici a cui è imputabile l’omissione o il ritardo.
La norma in questione instaura così un collegamento strutturale tra il processo amministrativo in materia di silenzio ed il sistema della responsabilità amministrativo-contabile, che, in ipotesi, potrebbe portare all’istaurazione di un processo innanzi alla Corte dei conti per danno erariale nei confronti del dirigente o dipendente pubblico responsabile del ritardo.
La sentenza che accerta l’inadempimento dell’obbligo di concludere il procedimento nel termine normativamente determinato, può costituire, infatti, una «specifica e concreta notizia di danno», ossia una sorta di “notizia criminis”, che la Procura della Corte dei conti dovrà vagliare alla stregua della disciplina generale in materia di responsabilità amministrativa.
La funzione di questa denuncia “automatica” e “telematica” appare dunque quella di rendere effettivo il regime di responsabilità amministrativo-contabile dei funzionari e dirigenti pubblici nei casi di mancato o tardivo esercizio dell’attività provvedimentale. È del tutto evidente che la nuova previsione non istituisce un diverso regime di responsabilità amministrativo-contabile, ma piuttosto lo rafforza: in particolare, l’effetto rafforzativo su questa forma di responsabilità deriva dal fatto che l’accertamento della responsabilità stessa non viene più rimesso (unicamente) all’iniziativa autonoma del Procuratore regionale, di privati interessati (mediante esposti) o delle stesse Amministrazioni (spesso restie, per esigenze corporative, a rivolgersi al Magistrato contabile), ma collegato ad un preciso obbligo informativo, posto in capo al Giudice amministrativo.
La norma che riconosce il potere “officioso” del Giudice amministrativo di sollecitare le Procure regionali della Corte dei conti appare in sostanza orientata a dare effettività al regime di responsabilità amministrativo-contabile dei dirigenti e dei funzionari pubblici inadempienti rispetto ai termini procedimentali.
2.1. (Segue) La “ricognizione” delle forme di responsabilità da omissione o ritardo nella conclusione del procedimento
Un collegamento tra violazione dei termini di durata massima dei procedimenti amministrativi e responsabilità amministrativo-contabile emerge anche nella nuova versione del co. 9 dell’art. 2, l. n. 241/1990.
Giova ricordare che il co. 9, nel suo testo originario (introdotto dalla novella di cui alla l. n. 69/2009), aveva stabilito che la mancata emanazione del provvedimento nei termini previsti per la conclusione del procedimento costituisce elemento di valutazione ai fini della responsabilità dirigenziale. Questa previsione è stata “superata” dalla più recente novella apportata dal d.l. n. 5/2012, che – con una piena riformulazione del co. 9 medesimo – precisa che l’inerzia dell’Amministrazione costituisce elemento rilevante ai fini della valutazione della performance individuale, nonché della responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile (non solo del dirigente, ma anche del funzionario inadempiente).
Sul punto, a parte l’espressa precisazione che le fattispecie di responsabilità sorgono non unicamente nell’ipotesi di mancata emanazione del provvedimento nei termini, ma anche nel caso di tardiva adozione, la novella del 2012 non sembra, invero, particolarmente innovativa, operando una sorta di “ricognizione” delle forme di responsabilità ricollegabili all’inerzia. Tale osservazione vale anche per il riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile, essendo pacifico che essa può essere anche di tipo omissivo. Ad ogni modo, appare netta la scelta del Legislatore d’urgenza di far confluire la condotta inosservante del termine procedimentale nella valutazione della performance individuale, introdotta dalla legge-delega n. 15 del 2009 e disciplinata dal conseguente d.lgs. n. 150/2009 (c.d. “riforma Brunetta”).
2.2. (Segue) Il meccanismo di “sostituzione interna” per la conclusione del procedimento
Di più significativo impatto è, invece, il co. 9-bis che introduce la figura di un “garante di ultima istanza” del rispetto dei termini per la conclusione del procedimento. Tale disposizione prevede una misura di “pianificazione organizzativa”, in base alla quale, all’interno delle pubbliche Amministrazioni l’organo di governo deve individuare, tra le figure apicali, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia.
La medesima disposizione stabilisce in proposito alcuni criteri suppletivi ove l’organo di governo non provveda all’individuazione: infatti, in tal caso, il potere sostitutivo si intende attribuito al dirigente generale; in mancanza di questi, al dirigente preposto all’ufficio o, in mancanza, al funzionario di più elevato livello presente nell’Amministrazione.
Il co. 9-ter dell’art. 2 l. n. 241/1990 ha contenuto prettamente procedimentale: esso attribuisce al privato in attesa del provvedimento dell’Amministrazione, ove il termine per la conclusione del procedimento sia inutilmente decorso, la possibilità di rivolgersi direttamente al titolare del potere sostitutivo, affinché questi concluda il procedimento medesimo o avvalendosi delle strutture competenti, o ricorrendo alla nomina di un commissario. Il dirigente investito della competenza sostitutiva, dunque, può esercitare direttamente la funzione, emanando il provvedimento omesso, oppure designare un commissario per l’incombente.
In ogni caso, il provvedimento finale dovrà essere adottato, da parte del dirigente munito dei poteri sostitutivi, entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto.
La previsione del sopra descritto meccanismo sostitutivo per la conclusione dei procedimenti amministrativi (una sorta di “commissariamento interno” all’Amministrazione inadempiente) sembra offrire al privato in attesa del provvedimento, prima di ricorrere all’azione giudiziale, un ulteriore strumento esperibile a garanzia dell’effettività dell’azione amministrativa, che, in quanto da utilizzarsi direttamente nei confronti degli organi della P.A., è suscettibile di produrre effetti deflattivi in materia di contenzioso amministrativo. In assenza di previsioni dilatorie o sospensive, si tratta, evidentemente, di uno strumento facoltativo, nel senso che non impedisce all’interessato di attivare subito i rimedi giurisdizionali contro il silenzio-inadempimento, ma, offrendogli un rimedio sostanziale per “combattere” la “patologia” del(l’inosservanza del) termine procedimentale, non lo costringe necessariamente a ricercare l’accesso alla giurisdizione (mediante il rito del silenzio).
Tra le novità introdotte dal decreto “Semplifica Italia”, occorre richiamare, poi, il co. 9-quinquies dell’art. 2, l. n. 241, in base al quale, l’Amministrazione deve “riconoscere” l’eventuale ritardo nell’adempimento dell’obbligo di provvedere, indicando espressamente, in tutti i provvedimenti su istanza di parte tardivamente rilasciati, sia il termine previsto per disposizione di legge o regolamentare, sia quello effettivamente impiegato. Alla luce della nuova disposizione, intesa a “cristallizzare” anche documentalmente l’inadempimento perpetrato, sembra quindi che il provvedimento tardivo, a maggior ragione se adottato in via sostitutiva, contenga, quale “clausola” necessaria, una sorta di “ammissione di colpa” dell’Amministrazione, implicita nella dichiarazione del termine originario esistente e violato. Non può escludersi che l’inserimento espresso di una siffatta dichiarazione, per esempio, in un provvedimento favorevole al privato ma emanato con ritardo rispetto al termine previsto per quel determinato procedimento, sia suscettibile di contribuire ad “oggettivizzare” la colpa dell’Amministrazione nel ritardo stesso, inducendo il G.A. a concentrare il “fuoco” del proprio accertamento essenzialmente sulla verifica della sussistenza del nesso causale tra la condotta negativa dell’Amministrazione e il danno dedotto in giudizio.
3. La “legge anti-corruzione”. La conclusione del procedimento “in forma semplificata”
Un’ulteriore, ennesima modifica all’art. 2 della legge procedimentale è stata apportata dall’art. 1, co. 38, della l. n. 190 del 2012 (c.d. “anti-corruzione”), che ha aggiunto un nuovo periodo al co. 1, prevedendo la possibilità per le pubbliche Amministrazioni di concludere il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata qualora ravvisino «la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda». Anche questa norma risponde ad un’esigenza di semplificazione, che si realizza nel fatto che la motivazione del provvedimento può consistere «in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo». Nella norma si ritrova, inoltre, la già evidenziata applicazione del principio di semplificazione a fini acceleratori dell’azione amministrativa: il “risparmio” in termini di onere motivazionale dovrebbe, infatti, aiutare le Amministrazioni a comprimere i tempi delle proprie decisioni. In più, va osservato che la nuova disposizione vale certamente ad ampliare la sfera di operatività dell’art. 2 della l. n. 241/1990, così contribuendo, in modo decisivo, al superamento di quella giurisprudenza amministrativa che tende a limitare il carattere tendenzialmente incondizionato e assoluto dell’obbligo, incombente su ogni Amministrazione (ma anche sui soggetti privati nella misura in cui questi esercitino funzioni pubbliche che implichino l’adozione di provvedimenti amministrativi), di concludere i procedimenti con un provvedimento espresso ed entro un termine prestabilito.
Per quanto la sfera di operatività dell’obbligo di provvedere nel termine non appaia circoscrivibile né tramite l’esclusione dalla stessa di determinate pubbliche Amministrazioni, né mediante l’esclusione di determinate tipologie di procedimenti dal campo applicativo dell’art. 2 della l. n. 241, la giurisprudenza amministrativa, individuando una serie di casi in cui si deve ritenere che l’Amministrazione, in concreto, non sia nemmeno tenuta, a monte, ad aprire il procedimento, ha tuttavia determinato una criticabile restrizione di detta sfera, suscettibile di relativizzare la portata del “precetto principale” contenuto nello stesso art. 2.
In particolare, anche in relazione ad «ineludibili esigenze di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa» (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3824/2007), la giurisprudenza ritiene che l’obbligo della P.A. di concludere il procedimento con un provvedimento espresso venga meno: a) in presenza di richieste aventi il medesimo contenuto, qualora sia già stata adottata una formale risoluzione amministrativa in oppugnata (Cons. Stato, Sez. IV, n. 6181/2000), e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di diritto (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3256/2002); b) in presenza di domande manifestamente assurde Cons. Stato, Sez. IV, n. 950/1994), o totalmente infondate (Cons. Stato, Sez. V, n. 418/1994); c) al cospetto di pretese illegali, non potendosi dare corso alla tutela di interessi illegittimi (Cons. Stato, Sez. IV, n. 6181/2000, cit.).
Invero, occorre segnalare che alla giurisprudenza appena ricordata, si giustappone un altro filone giurisprudenziale, in via di sempre maggiore affermazione, che, in presenza di particolari circostanze e in diretta applicazione dei principi generali dell’azione amministrativa (quali, soprattutto, i principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.), ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di procedere e, quindi, di provvedere, attribuisce autonomo e decisivo rilievo alle istanze di determinati soggetti, anche con riguardo a procedimenti che le norme vigenti tipizzano come procedimenti ad iniziativa d’ufficio e non di parte. In sintesi, secondo quest’ultimo orientamento, ove non esista una specifica norma di legge che preveda l’obbligo della P.A. di provvedere, non può dubitarsi che l’obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati sussista ogni qual volta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso e, quindi, «tutte le volte in cui, in ossequio ai principi, di portata generale, di affidamento, chiarezza e leale collaborazione tra P.A. e privato, nonché correttezza e buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni dell’amministrazione» (da ultimo, T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. III, n. 1994/2012).
Sembra agevole prevedere che la “contro-spinta” già esercitata dal filone giurisprudenziale da ultimo richiamato, in senso inverso alla giurisprudenza che porta a circoscrivere la sfera di operatività dell’obbligo di provvedere nel termine, riceverà, ora, una “forza propulsiva” determinante dalla nuova previsione inserita nell’art. 2, co. 1, della legge procedimentale. Per effetto di tale previsione, infatti, l’ambito di applicazione oggettivo dell’obbligo in parola risulta esteso anche ai casi di domande manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o infondate, ciò che dovrebbe consentire non solo il pieno superamento delle limitazioni giurisprudenziali sopra ricordate, ma anche di affermare l’ormai avvenuta generalizzazione dell’obbligo della P.A. di concludere i procedimenti amministrativi con un provvedimento esplicito in tempi certi.
Se è pur vero che l’atto conclusivo del procedimento nelle ipotesi contemplate dal nuovo periodo del citato co. 1 non corrisponde ad un provvedimento di diniego “classico”, ovvero, in termini più precisi, ad un provvedimento di rigetto sostanziale, è altrettanto vero, però, che si tratta comunque di una decisione finale di cui non può dubitarsi la natura formalmente e sostanzialmente amministrativa, che, sebbene in forma semplificata, deve intervenire in modo espresso ed entro un termine predeterminato.
Ciò significa che l’innovazione introdotta dalla l. n. 190/2012 comporta la sostanziale elisione dei margini di discrezionalità del soggetto pubblico in ordine all’an e al quando del provvedere anche nei casi in cui si riscontri l’assoluta mancanza dei presupposti per l’avvio della stessa istruttoria procedimentale. Anche in tali casi, infatti, l’Amministrazione dovrà comunque adottare un provvedimento espresso, evidentemente di segno negativo, e dovrà farlo nei termini previsti, con la sola differenza, rispetto ai casi di “idoneità” dell’atto di iniziativa procedimentale, che essa concluderà il procedimento in forma semplificata (ma pur sempre con un provvedimento). D’altra parte, il procedimento stesso, attesa la complessità minima – se non nulla – della relativa istruttoria, dovrebbe poter essere condotto, anche in ossequio al principio di proporzionalità ed al criterio (suo corollario) di economia procedimentale, in termini di maggiore snellezza e semplicità.
4. Il “decreto del Fare”. Gli indennizzi da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte
Viene infine in rilievo, quale intervento legislativo volto ad elevare ulteriormente il grado di rispetto dei termini di conclusione del procedimento da parte delle pubbliche Amministrazioni, l’art. 28 del d.l. n. 69/2013 (c.d. “decreto del Fare”), che, con salvezza delle norme che già oggi consentono la risarcibilità del danno da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo, istituisce un regime di indennizzo (la cui misura, a differenza del risarcimento, è, come noto, sganciata dall’effettivo danno subito), connesso al silenzio-inadempimento.
Più in dettaglio, il citato art. 28, aggiungendo un co. 1-bis all’art. 2-bis della l. n. 241/1990, introduce il diritto di chiedere un «indennizzo da ritardo» della P.A. nella conclusione dei procedimenti amministrativi iniziati ad istanza di parte, con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato (silenzio-assenso e silenzio-rigetto). La norma così introdotta precisa che, in caso di indennizzo, le somme corrisposte o da corrispondere a tale titolo sono detratte dal risarcimento del danno derivante dall’inosservanza del termine per provvedere. In questo modo, si ribadisce che la richiesta di indennizzo non esclude, ricorrendone i presupposti, di chiedere anche il risarcimento del danno da ritardo ai sensi dell’art. 2-bis, co. 1, l. n. 241/1990. In tale ipotesi, quindi, il risarcimento sarà dovuto solo per la misura maggiore, tenuto conto della cifra corrisposta o da corrispondere (ancorché quantificata) a titolo di indennizzo.
Lo stesso art. 28 detta un’articolata disciplina dell’istituto dell’indennizzo da ritardo nel provvedere.
Tale disciplina innanzitutto definisce i criteri per la quantificazione degli indennizzi da ritardo della P.A.: la misura dell’indennizzo è stabilita in una somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo; è fissato anche un tetto massimo, in base al quale l’indennizzo non può essere superiore in ogni caso alla somma di 2.000 euro; il diritto all’indennizzo decorre dalla data di scadenza del termine di conclusione del procedimento (cfr. co 1).
Soggetto passivo dell’obbligo indennitario è l’Amministrazione procedente ovvero, in caso di partecipazione di più Amministrazioni all’iter procedimentale, quella responsabile del ritardo nell’adozione del provvedimento finale.
Si tratta di una forma di indennizzo forfettario, di natura sanzionatoria, parametrato alla durata del ritardo, che, invero, solo a fini meramente descrittivi può essere definito come “automatico”. Va infatti osservato che, seppure il diritto dell’interessato all’indennizzo sorga per il «mero ritardo» dell’Amministrazione (co. 1, art. 28 d.l. n. 69/2013), e, quindi, in conseguenza della semplice inosservanza del termine di conclusione del procedimento (indipendentemente, cioè, dalla spettanza del c.d. “bene della vita” per l’ottenimento del quale è stato avviato il procedimento stesso), la possibilità di soddisfare tale diritto (di credito) è tuttavia subordinata al previo esperimento di un rimedio di tipo sostanziale contro l’inerzia della P.A., e precisamente all’attivazione del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 2, co. 9-bis, della l. n. 241/1990. Tale onere procedurale posto a carico del soggetto avente titolo all’indennizzo finisce per atteggiarsi come una sorta di “pregiudiziale procedimentale” rispetto alla domanda di corresponsione dell’indennizzo, nel senso che il mancato adempimento di tale onere, preclude l’accoglimento della domanda stessa. Peraltro, il richiamato congegno procedurale deve essere attivato dal soggetto interessato nel termine – espressamente qualificato dalla norma come «perentorio» – di venti giorni dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
Introducendo una serie di norme di natura processuale, il “decreto del Fare” ha anche disciplinato i rimedi giudiziari esperibili in caso di perdurante inerzia (cfr. co. 3, art. 28 d.l. n. 69/2013), in particolare prevedendo che, qualora il titolare del potere sostitutivo non emani il provvedimento nel termine dimidiato ad esso assegnato e/o non provveda alla liquidazione dell’indennizzo, l’interessato potrà, alternativamente:
- proporre ricorso avverso il silenzio della pubblica Amministrazione ai sensi dell’art. 117 c.p.a., chiedendo, dunque, al Giudice amministrativo l’emanazione di una sentenza che accerti l’obbligo di provvedere della P.A., accompagnata dalla eventuale nomina di un commissario ad acta nell’ipotesi di ulteriore e successiva mancata adozione del provvedimento richiesto;
- presentare ricorso per decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 118 c.p.a., per ottenere la sola condanna al pagamento della somma dovuta a titolo di indennizzo.
Nella prima ipotesi, può proporsi, congiuntamente al ricorso contro il silenzio, la domanda per ottenere il relativo indennizzo, che, al pari di quella sul silenzio, sarà trattata con rito camerale e decisa in forma semplificata (co. 4 del citato art. 28).
Peraltro, ove il ricorso (sul silenzio o per decreto ingiuntivo) sia dichiarato inammissibile o respinto in relazione alla inammissibilità o manifesta infondatezza dell’istanza di avvio del procedimento amministrativo, il G.A. condannerà il ricorrente a pagare, in favore dell’Amministrazione resistente, una somma variabile tra il doppio e il quadruplo del contributo unificato (co. 6). Invero, tale previsione presta il fianco ad una duplice critica.
In primo luogo, infatti, essa sembra estendere oltremodo e inutilmente l’oggetto del giudizio instaurato per l’omessa liquidazione dell’indennizzo, che dovrebbe rimanere circoscritto all’accertamento del diritto all’indennizzo per la mancata conclusione in termini di un procedimento amministrativo, ciò per cui sarebbe sufficiente che il G.A. verificasse l’esistenza di un’istanza, la data della sua presentazione, la durata del termine legalmente previsto per la conclusione del procedimento in questione e l’avvenuto decorso di tale termine senza l’emanazione del provvedimento finale. La nuova norma viene per converso ad affermare, implicitamente, la competenza del Giudice adito col “ricorso sull’indennizzo” ad entrare “nel merito” del procedimento amministrativo, conferendogli, nella sostanza, il potere di vagliare la fondatezza dell’istanza sottostante la richiesta di indennizzo.
In secondo luogo, anche i poteri decisori attribuiti al G.A. – oltre che quelli cognitori – appaiono sproporzionati rispetto al tipo di giudizio previsto dall’art. 28 del “decreto del Fare” e non coerenti con la logica stessa dell’introduzione del diritto all’indennizzo da «mero ritardo» nel provvedere. Il ridetto co. 6, infatti, in caso di reiezione del ricorso per inammissibilità o manifesta infondatezza della suddetta istanza, conferisce al Giudice amministrativo il potere di andare ben oltre la (ordinaria) condanna della parte soccombente alla refusione delle spese di lite, abilitandolo, di fatto, all’esercizio di un potere sanzionatorio amministrativo nei confronti del soggetto privato, consistente nella condanna del ricorrente al pagamento di una somma fino a quattro volte superiore l’importo del contributo unificato dovuto per la proposizione del ricorso, la quale potrebbe quindi superare anche l’effettivo valore della controversia. Sembra trattarsi, dunque, di una sanzione amministrativa da “disturbo della P.A.”, che, per quanto prevista «allo scopo di evitare speculazioni o sviamenti nell’utilizzo della norma» di cui all’art. 28 (relazione illustrativa al d.d.l. di conversione del d.l. n. 69/2013), tradisce la ratio primaria della norma stessa, la quale non mira certo a far ottenere al privato un provvedimento positivo, ma, più semplicemente, è diretta a consentirgli di ottenere un provvedimento “tempestivo”, indipendentemente dal suo contenuto.
In compenso, qualora il ricorso venga accolto, è fatto obbligo al G.A. di trasmettere la pronuncia di condanna dell’Amministrazione alla Corte dei conti («al fine del controllo di gestione sulla pubblica amministrazione»), al Procuratore regionale della Corte dei conti («per le valutazioni di competenza»), nonché al titolare dell’azione disciplinare verso i dipendenti pubblici interessati dal procedimento amministrativo (co. 7 dello stesso art. 28).
Un opportuno coordinamento sistematico con la legge procedimentale è operato dal successivo co. 8, che prevede che, nella comunicazione di avvio del procedimento, sia fatta menzione del diritto all’indennizzo, nonché delle modalità e dei termini per conseguirlo, e siano altresì indicati il soggetto titolare del potere sostitutivo e i termini a questo assegnati per la conclusione del procedimento.
Infine, l’art. 28 (co. 10) del d.l. n. 69/2013 circoscrive l’ambito di applicazione (oggettivo) della disciplina dell’indennizzo da ritardo ai soli procedimenti relativi all’avvio e all’esercizio dell’attività di impresa, iniziati dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto medesimo (21 agosto 2013). Sebbene tale limitazione della sfera applicativa della nuova disciplina non appaia del tutto ragionevole (in quanto “salva” ingiustamente gli eventuali ulteriori ritardi perpetrati dopo la stessa data nella conclusione di procedimenti già in corso), va comunque osservato che la disciplina de qua ha carattere programmatico e sperimentale, potendo, dunque, dopo una fase di “rodaggio”, essere integrata e perfezionata. Si è infatti previsto che, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 69/2013 e a seguito di un monitoraggio sull’applicazione, la disposizione in esame – salva la remota ipotesi di «cessazione» – sarà confermata, rimodulata, estesa, anche gradualmente, ad altri procedimenti amministrativi, mediante un regolamento governativo “di delegificazione” (cfr. art. 28, co. 12; tale regolamento, peraltro, non è stato ancora adottato).
Invero, nonostante la disciplina ora esaminata sollevi qualche rilevante perplessità, soprattutto – come evidenziato – sul piano processuale, va almeno riconosciuto che l’introduzione dell’«indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento», che è cosa diversa e ulteriore rispetto al risarcimento (essendo il pagamento dell’indennizzo dovuto «anche nell’eventualità in cui la mancata emanazione del provvedimento sia riconducibile ad un comportamento “scusabile”, e astrattamente “lecito”, dell’Amministrazione»: direttiva Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dip. funz. pubbl., 9 gennaio 2014), amplia il sistema delle garanzie contro il silenzio non qualificato, apprestando agli “amministrati” un nuovo strumento di tutela nei confronti della P.A. inadempiente all’obbligo di provvedere nel termine e contribuendo, per questa via, ad aumentare l’effettività del principio di tempestività dell’azione amministrativa.
5. Considerazioni conclusive
All’esito dell’analisi qui svolta sui più recenti interventi di revisione della disciplina relativa all’obbligo di provvedere tempestivamente, accomunati tra loro dall’introdurre misure di semplificazione del procedimento tendenti a configurarlo sempre più come “via scortata” verso il provvedimento finale, può certamente dirsi che la garanzia di una risposta temporalmente certa (poco importa – in questa prospettiva – se positiva o negativa) alle istanze del privato sia stata significativamente rafforzata, pur se a costo di una complicazione dell’asset normativo in materia.
A differenza delle precedenti riforme, le norme introdotte con l’ultima “tornata” di interventi di revisione della suddetta disciplina si sono spinte a prevedere conseguenze anche “procedimentali” dell’inutile spirare del termine di conclusione del procedimento: il riferimento è al già esaminato meccanismo di sostituzione che opera all’interno dell’Amministrazione “dormiente”, consentendo al dirigente investito della competenza sostitutiva di esercitare direttamente la funzione, emanando il provvedimento omesso entro un termine dimezzato rispetto a quello originario (cfr. i co. 9-bis e 9-ter dell’art. 2, l. n. 241/1990, nel testo risultante dalla novella di cui al d.l. n. 5/2012).
Peraltro, neppure le nuove previsioni hanno fornito una esplicita qualificazione dei termini procedimentali nel senso della loro perentorietà. Cionondimeno, esse, definendo ulteriori conseguenze (recte: sanzioni) del mancato rispetto dei tempi procedimentali (le più rilevanti delle quali, oltre alla sopra ricordata sostituzione interna alla P.A. inadempiente, sono la trasmissione obbligatoria alla Corte dei conti delle sentenze passate in giudicato che accolgono i ricorsi contro il silenzio-inadempimento, e gli indennizzi forfettari dovuti in caso di inosservanza dei termini nei procedimenti ad istanza di parte), potrebbero offrire nuovi argomenti per sostenere che il termine per la conclusione del procedimento assume le caratteristiche della perentorietà: per superare, quindi, il costante orientamento giurisprudenziale, che, in mancanza di una specifica prescrizione in ordine alla perentorietà del termine in questione, nega tanto la decadenza della potestà amministrativa in caso di inutile decorso dello stesso, quanto l’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato (da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, n. 2964/2014).
In ogni caso, laddove il G.A. non pervenisse ad operare un revirement del proprio indirizzo tradizionale, sarebbe – a questo punto – senz’altro auspicabile un intervento diretto del Legislatore, che indichi espressamente come perentori i termini per la conclusione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2 l. n. 241/1990, facendo discendere dalla loro violazione sia l’esaurirsi del potere della P.A. di provvedere, sia l’illegittimità (se non la nullità) dell’atto conclusivo comunque emanato. Ciò che, peraltro, onde evitare effetti paradossali, non dovrebbe evidentemente valere per i procedimenti che sfociano in un provvedimento ampliativo per il privato, ma soltanto per i procedimenti ad iniziativa d’ufficio forieri di misure restrittive della sfera giuridica dello stesso (quali, per esempio, i procedimenti revocatori o sanzionatori). Un passo deciso nella direzione auspicata è stato finalmente compiuto con la novella dell’art. 21-nonies della legge procedimentale, operata dalla legge n. 124/2015 (c.d. “riforma Madia”), che, predeterminando normativamente in diciotto mesi il limite del «termine ragionevole» (espressione contenuta nella versione originaria dell’art. 21-nonies) entro cui l’Amministrazione può intervenire in autotutela, configura come perentorio tale termine, con la inevitabile conseguenza dell’illegittimità del provvedimento di secondo grado tardivamente adottato (in tal senso, chiaramente, Tar Puglia, Bari, Sez. III, n. 351/2016).
(27 luglio 2016)
* Professore associato di Diritto amministrativo, abilitato alle funzioni di professore ordinario – Università degli Studi di Foggia, Dipartimento di Economia – Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
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