Sul concetto di pratica commerciale nell’ordinamento comunitario e nell’ordinamento nazionale: considerazioni attuali alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia (di Cristiano Artizzu)
Sul concetto di pratica commerciale nell’ordinamento comunitario e nell’ordinamento nazionale: considerazioni attuali alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia
(di Cristiano Artizzu)
1.- Le previsioni della dir. 2005/29/Ce in materia di pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori
“Le pratiche commerciali sleali sono vietate”: così recita l’art. 5, primo comma, della dir. 2005/29/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio. Una pratica commerciale, posta in essere da un professionista, è sleale se è contraria alle norme di diligenza professionale e se falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio che essa raggiunge o al quale essa è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.
Non sono secondarie, per la comprensione della previsione ricordata, le definizioni formulate all’art. 2 della direttiva. E’ pratica commerciale, in accordo a tale disposizione, qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale, compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista e direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori. Per diligenza professionale deve invece intendersi – rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista - il normale grado della speciale competenza ed attenzione che ragionevolmente si può presumere che siano esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori. Una pratica commerciale non necessariamente assume le vesti di una dichiarazione negoziale: essa può consistere in un mero comportamento materiale o in una omissione.
Sono sleali le pratiche commerciali ingannevoli e le pratiche commerciali aggressive. Ai sensi dell’art. 6 della dir. 2005/29/Ce, è considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio - anche se l’informazione è di fatto corretta - riguardo ad uno o più elementi (si pensi all’esistenza o alla natura del prodotto o alle caratteristiche principali dello stesso) e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. L’art. 7, primo paragrafo, considera inoltre omissione ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induca o sia idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
E’ invece aggressiva, ai sensi dell’art.8, una pratica che, in concreto e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o un condizionamento indebito, limiti o sia idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto, e lo induca o sia idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Per decisione di natura commerciale deve intendersi, esemplificando, una decisione relativa a se acquistare o non acquistare un prodotto, a quali condizioni farlo, se tenere un prodotto o disfarsene o se esercitare un diritto contrattuale in relazione al prodotto stesso. In sintesi, tale decisione può condurre il consumatore a compiere un’azione oppure ad astenersi dal compierla.
Non sono rilevanti le caratteristiche della condotta del professionista: come ricordato, può trattarsi di dichiarazioni anche non negoziali, di comportamenti materiali privi di contenuto dichiarativo o di semplici omissioni; di condotte aventi come destinatari singoli consumatori o tenuti nei confronti della generalità dei soggetti. Può trattarsi, inoltre, di comunicazioni commerciali senza che sia necessariamente richiesta una diretta connessione con un rapporto contrattuale (G.De Cristofaro, La Direttiva 2005/29/CE. Contenuti, rationes, caratteristiche, in Le <<pratiche commerciali sleali>> tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di G.De Cristofaro, Torino, Giappichelli, 2007, pag. 8).
La correttezza “esprime il cuore della nozione di pratiche commerciali scorrette e permea di sé l’intera disciplina (F.Lucchesi, Pratiche commerciali scorrette: definizioni e ambito di applicazione (Artt. 18-19), in Contratto e responsabilità. Il contratto dei consumatori, dei turisti, dei clienti, degli investitori e delle imprese deboli. Oltre il consumatore, a cura di G.Vettori, Padova, Cedam, 2013, pag. 160). Essa è regola di condotta alla quale il professionista deve attenersi e canone rispetto al quale verrà valutata l’attenzione e la competenza del professionista stesso (F.Lucchesi, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 160 s.).
Ai fini della qualificazione della slealtà della pratica, rileva altrettanto significativamente la nozione di diligenza professionale: ai sensi della Direttiva, con tale espressione deve intendersi - rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista - il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori. E il principio della buona fede viene indicato quale criterio aggiuntivo e indipendente rispetto a quello – ambiguo, e scomparso nel recepimento nell’ordinamento italiano - delle pratiche di mercato oneste (G.De Cristofaro G., La nozione generale di pratica commerciale <<scorretta>>, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di G.De Cristofaro, Torino, Giappichelli, 2008, pag. 147): un criterio “idoneo ad imporre anche comportamenti che, in atto, sono diversi da tutte le pratiche di mercato esistenti, ma sono conformi ad un dovere di solidarietà che, nella specie, non può che essere solidarietà verso il consumatore” (M.Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, a cura di A.Genovese, Padova, Cedam, 2008, pag. 49), senza che il richiamo al ricordato principio possa comportare un rinvio al modo in cui esso è inteso e applicato dagli operatori del settore (M.Libertini, Clausola generale, cit., pag. 49).
2.- Le previsioni del Codice del consumo ed il concetto di pratica commerciale
Il recepimento della dir. 2005/29/Ce nell’ordinamento italiano, nell’ambito del Codice del consumo, ha comportato l’introduzione di un nuovo illecito, sanzionabile dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. La pratica commerciale scorretta rappresenta e sostanzia un illecito amministrativo senza che le nuove previsioni escludano, comunque, che la stessa possa costituire nel contempo un illecito di natura civilistica.
L’art. 19 definisce l’ambito di applicazione della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette: essa trova applicazione alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un'operazione commerciale relativa a un prodotto, nonché alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e microimprese. Per le microimprese la tutela in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa illecita è assicurata in via esclusiva dal d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145.
Come sancito dall’art. 20 del Codice, le pratiche commerciali scorrette sono vietate. Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed “è falsa” (più correttamente, “falsa”) o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto (termine con il quale l’art. 18 del Codice del consumo indica “qualsiasi bene o servizio, compresi beni immobili, i diritti e le obbligazioni”), del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.
Una pratica commerciale non potrà essere considerata scorretta al solo ricorrere della contrarietà alla diligenza professionale: dovrà risultare, in aggiunta, la sua attitudine a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio; varrà comunque anche l’inverso, visto che non sarà sufficiente l’attitudine a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore perché la pratica sia considerata scorretta, ma risulterà necessaria anche la contrarietà alla diligenza professionale (G.De Cristofaro, La nozione generale di pratica commerciale <<scorretta>>, in G.De Cristofaro, La nozione generale, cit., pag. 145).
Il bene giuridico tutelato dalla normativa comunitaria, così come dagli artt. 20 e 21 del Codice del consumo, è la libertà di scelta consapevole del consumatore, che, qualora alterata, produce effetti in ambito economico (Cons. st., sez. VI, 5 settembre 2001, n. 5000, in FA: Consiglio di Stato, 2011, pag. 2826). Ancor più significativamente, nel caso di pratiche commerciali scorrette il bene giuridico tutelato è soltanto indirettamente a contenuto patrimoniale, rilevando primariamente e immediatamente la tutela della libertà di scelta del consumatore. Sarebbe infatti riduttivo ritenere che la nozione di pregiudizio per il comportamento economico del consumatore venisse fatta coincidere con la nozione di danno economico (che implica una diminuzione patrimoniale). Essa va invece intesa nel senso di influenza sul comportamento economico del consumatore nel quadro della tutela della sua libertà di scelta (Cons. st., sez. VI, 24 marzo 2011, n. 1810, in FA: Consiglio di Stato, 2011, pag. 988).
La disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette è posta a tutela dell’interesse generale: essa è preventiva e si distingue da quella successiva infracontrattuale rimessa all’azione civile individuale (Cons. st., sez. VI, n. 3763/2011, cit., pag. 2092); non persegue inoltre – si pensi all’art. 20 del Codice del consumo – l’obiettivo di assicurare una reazione alle lesioni effettivamente arrecate agli interessi patrimoniali del singolo consumatore, ma interviene in una fase antecedente e a livello generale (Cons. st., sez. VI, n. 3763/2011, cit., pag. 2094). Ciò, ovviamente, non esclude la rilevanza della pratica commerciale scorretta per lo stesso diritto privato e per l’applicazione dei rimedi da esso previsti a tutela del singolo consumatore.
Il terreno sul quale il Codice del consumo ha collocato la reazione nei confronti delle pratiche commerciali scorrette “non è quello della tutela individuale (invalidatoria e/o risarcitoria), bensì quello della tutela dell’interesse collettivo dei consumatori (e, più ampiamente ancora, dell’interesse generale del mercato), come dimostra altresì l’attribuzione che il nostro legislatore (sciogliendo l’alternativa prevista dall’art. 11 direttiva n. 2005/29/Ce, cit.) ha fatto all’Autorità garante della concorrenza e del mercato” (G.D’Amico, Profili del nuovo diritto dei contratti, Milano, Giuffré, 2014, pag. 43 s.).
La sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 21 settembre 2011, n. 5297 (in FA: Consiglio di Stato, 2011, pag. 2872), per quanto relativa a fatti (messaggio pubblicitario) occorsi prima dell’entrata in vigore delle disposizioni del Codice del consumo in materia di pratiche commerciali scorrette, aiuta ad inquadrare il concetto di pratica, caratterizzata dall’abitualità o serialità, a loro volta escluse dall’unicità dell’episodio. Ciò non nega che, nel caso in cui il comportamento scorretto consista in un modello organizzativo replicabile, sarà più agevole provare che si è in presenza di una pratica. Negli altri casi sarà necessaria un’adeguata istruttoria e motivazione. L’Antitrust, è stato ricordato (N.Zorzi Galgano, Il contratto di consumo e la libertà del consumatore, Padova, Cedam, 2012, pag. 254), ritiene che il concetto di pratica prescinda da un criterio statistico o quantitativo dei reclami dei consumatori. Gli stessi giudici amministrativi rilevano che non occorre guardare al danno per il singolo consumatore – nel caso di specie un interesse di mora esiguo per mancato pagamento nei termini di bolletta recapitata oltre la data di scadenza – comparato a quello per il professionista, ma al danno per la massa dei clienti (Cons. st., sez. VI, 12 giugno 2012, n. 3429, in www.giustizia-amministrativa.it).
3.- Ulteriori considerazioni circa gli effetti della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette nell’ordinamento domestico
Tra i profili di maggior interesse per i riflessi della nuova disciplina sull’ordinamento nazionale, emerge indubbiamente quello della (eventuale) invalidità di un contratto concluso a valle di una pratica commerciale scorretta. Le posizioni di cui si darà a breve conto appaiono comunque utili per meglio definire il ruolo della correttezza della condotta del professionista nell’esercizio della propria iniziativa economica (correttezza consistente nella inclusione, nel raggio d’azione del soggetto agente, dell’interesse di un soggetto terzo, vale a dire il consumatore); e saranno in particolare utili per valutare se un comportamento isolato possa essere considerato pratica commerciale scorretta.
Concentrando l’attenzione sulla categoria dell’annullamento, si è detto che “la sostituzione del dolo-vizio con la fattispecie, neutra sotto il profilo soggettivo, delle azioni ingannevoli finisce col dar manforte al già esaminato filone interpretativo a mente del quale l’illecito contemplato negli artt. 1439 e 1440 c.c. può essere determinato anche dalla mera negligenza del contraente là dove egli, pur non proponendosi il fine dell’inganno, abbia ciò nonostante indotto in errore l’altro stipulante a cagione della propria noncuranza” (R.Calvo, Le pratiche commerciali <<ingannevoli>>, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce, cit., pag. 218).
In tal senso, e lo si capirà meglio in seguito, non sarà necessario, per potersi dire inverata una pratica commerciale scorretta, che una informazione erronea sia stata veicolata con l’intenzione di ingannare il consumatore. Ma procediamo per gradi. La dottrina ha ricordato che “la novella vieta, se dotate di capacità decettiva nei confronti del “consumatore medio”, le «informazioni non rispondenti al vero»”, vale a dire, “il semplice mendacio. La scelta normativa di derivazione comunitaria sembra porsi in rotta di collisione - almeno per quel che riguarda i contratti dei consumatori - con la prudenza con cui la giurisprudenza riconosce rilevanza, ai fini dell'annullabilità del contratto, alla mera affermazione del falso od alla mera negazione del vero, non ulteriormente circostanziate; e, di contro, si rivela in significativa sintonia con il sempre più diffuso orientamento, specie dottrinale, che - con riferimento al contratto di diritto comune - proclama la rilevanza, ai fini dell'impugnativa per dolo, della semplice menzogna che, in concreto, risulti determinante del consenso del deceptus” (C.Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbligazioni e contratti, 2007, pag. 783).
E così, ottimisticamente, pur mancando una espressa previsione legislativa, la direttiva in materia di pratiche commerciali sleali potrebbe rappresentare l’occasione per ampliare i confini, stretti, all’interno dei quali i giudici italiani hanno ricondotto l’annullamento per dolo. In tal senso, ponendo attenzione all’esigenza di armonizzare il dolo-vizio alle linee guida del diritto privato europeo, potrebbero aversi pronunce che considerano come raggiro, ai sensi dell’art. 1439 c.c., l’utilizzo di una pratica commerciale ingannevole (G.Magri, Gli effetti della pubblicità ingannevole sul contratto concluso dal consumatore. Alcune riflessioni alla luce dell’attuazione della Direttiva 05/29 CE nel nostro ordinamento, in Riv.dir.civ., II, 2011, pag. 295). Ma non si dimentichi che più aderente al dato normativo è la soluzione in accordo alla quale il consumatore, per ottenere l’annullamento di un contratto concluso a seguito di una pratica commerciale scorretta, dovrà dimostrare che si sono realizzati tutti i presupposti previsti dagli artt. 1434-1439 c.c.; e non potrà essere sufficiente la prova che la pratica è idonea ad ingannare un consumatore medio, dovendo invece essere data prova del fatto che la predetta pratica ha ingannato quel consumatore ed è stata determinante del suo consenso (C.Camardi, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Le invalidità nel diritto privato, a cura di A.Bellavista e A.Plaia, Milano, Giuffré, pag. 164, che ritiene che il consumatore debba, in aggiunta, dimostrare l’intenzionalità dell’inganno).
Ma perché questa lunga digressione circa il carattere non intenzionale della pratica commerciale scorretta? Le riflessioni riportate confermano, innanzitutto, che l’intenzione di indurre il destinatario in errore non rientra tra i presupposti richiesti dalla disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette, ove rileva che la pratica sia, anche non intenzionalmente, idonea ad indurre in errore il destinatario della stessa (S.Tommasi, Pratiche commerciali scorrette e disciplina dell’attività negoziale, Bari, Cacucci Editore, 2012, pag. 150). La dottrina (G.D’Amico, Profili del nuovo diritto dei contratti, cit., pag. 41 ss.) ha infatti segnalato l’irrilevanza del carattere intenzionale o meramente colposo della ingannevolezza o aggressività della pratica commerciale: circostanza che avrebbe portato alcuni autori a prospettare l’allargamento dell’area entro la quale ritenere sussistenti i vizi del consenso.
Ma basterebbe ciò per dirsi inverata una pratica commerciale scorretta? La dottrina si è concentrata, giustamente, sull’obbligo di informazione non adempiuto. Nel caso venuto all’esame della Corte di Giustizia, che esamineremo a breve, il professionista aveva trasmesso un elemento informativo errato al consumatore, incidendo sulla sua libertà di scelta. Ma poteva tale condotta essere considerata non conforme a diligenza professionale? E al di là della non intenzione di indurre in errore il consumatore, poteva essere considerata sleale la condotta del professionista nel caso specifico?
4.- Gli effetti della pronuncia della Corte di Giustizia
Non possono essere passate sotto silenzio le conseguenze – su imprese e consumatori, oltre che su autorità preposte all’applicazione della direttiva – derivanti dalla stessa incertezza definitoria circa il concetto - o l'estensione del concetto - di pratica commerciale. Infatti, nella recente pronuncia della Corte di Giustizia, Prima Sezione, 16 aprile 2015 - C-388/13 (reperibile nella sezione “Documenti e studi” di questa Rivista), si ritiene applicabile ad un caso isolato la direttiva in materia di pratiche commerciali, senza che la motivazione della decisione si soffermi sulla replicabilità della condotta ed in generale sulle caratteristiche della pratica per potersi dire tale. Diversamente, e si avrà modo di darne conto alla luce delle previsioni della stessa direttiva, il singolo isolato comportamento, oggetto di questa indagine, rileverà nel rapporto tra cliente e professionista alla stregua, però, di informazione erronea mentre non dovrebbe poter operare come presupposto per l’irrogazione di una sanzione per illecito amministrativo consistente in pratica commerciale scorretta (ovviamente, qualora non risulti che si siano verificati tutti i presupposti richiesti dalla normativa).
La soluzione della Corte di Giustizia appare in tal senso inopinata e foriera di nuovi dubbi.
Nel caso in esame, non sembra emergere alcuna violazione della buona fede, contemplata nel dettato normativo quale elemento costituente il nuovo, ampio, concetto di diligenza professionale. Il professionista ha commesso un mero errore e non ha agito in violazione della correttezza; non ha agito, infatti, facendo prevalere il proprio interesse senza tener conto di quello del consumatore. Ma anche se la stessa comunicazione avesse interessato più clienti, essa non avrebbe potuto essere “incriminata” come pratica commerciale scorretta.
Veniamo ad ogni modo alla descrizione dei fatti e alla, seppur breve, analisi del caso, affinché il lettore non cada vittima di precomprensione.
La decisione (consultabile in I Contratti, 2015, pag. 770 ss.) si è pronunciata sulla seguente questione pregiudiziale: “se la comunicazione commerciale di un’informazione non veritiera a un solo consumatore debba essere considerata come una pratica commerciale” ai sensi della sir. 2005/29/Ce.
La questione potrebbe apparire mal posta poiché non dovrebbe rilevare tanto l’aspetto statistico, quanto la replicabilità o meno di una pratica, a prescindere dal numero di consumatori raggiunti.
Il caso è molto semplice: a seguito di una comunicazione dell’operatore che conteneva una data errata (rilevante per conoscere la durata residua del rapporto contrattuale in corso), il consumatore – parte di un contratto di abbonamento a servizi televisivi - aveva esercitato il recesso dal contratto con effetto a partire (solo) da una certa data, ciò comportando una spesa aggiuntiva: tale spesa era stata causata dal pagamento di altro canone, da parte del consumatore, per i medesimi servizi offerti da un altro professionista.
La Corte chiarisce innanzitutto che “la circostanza che la condotta del professionista coinvolto sia stata tenuta una sola volta e abbia interessato un solo consumatore è del tutto irrilevante in questo contesto”: la direttiva non contiene indizi in accordo ai quali l’azione o l’omissione debba presentare carattere reiterato. Ciò è senz’altro vero.
La direttiva, continuano i giudici, affida “alla discrezionalità degli Stati membri la scelta delle misure nazionali destinate a combattere” le pratiche commerciali sleali; e “spetta agli Stati membri prevedere un regime adeguato di sanzioni nei confronti dei professionisti”, assicurando “che tali sanzioni rispondano, in particolare, al principio di proporzionalità. E’ in tale contesto che potranno essere presi in debita considerazione fattori quali la frequenza della pratica addebitata, la sua intenzionalità o meno e l’importanza del danno che ha cagionato al consumatore”.
La Corte ritiene pertanto che anche la comunicazione diretta ad un solo consumatore costituisca (ma andrebbe usato più correttamente l’indicativo in questo caso) pratica commerciale scorretta. E lo fa nel timore che la tesi contraria sia foriera di “seri inconvenienti”, quasi in ossequio ad un imperativo categorico. In tal senso, “è sufficiente che il professionista abbia comunicato un’informazione oggettivamente errata, tale da esercitare un’influenza sfavorevole sulla decisione commerciale del consumatore”. Tra l’altro, sempre a detta dei giudici, “l’articolo 11 della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, infatti, prevede espressamente che l’applicazione delle misure adottate dagli Stati membri per lottare contro simili pratiche prescinde dalla prova dell’intenzionalità o della negligenza del professionista, così come da quella di un danno effettivamente subito dal consumatore”.
Ma in questo modo la Corte estende la nozione di pratica commerciale anche a comportamenti occasionali ed episodici, rivolti ad un unico consumatore; e non può che rilevarsi come l’informazione, non veritiera, che aveva falsato il comportamento economico del consumatore, non si fosse iscritta in una prassi abituale o reiterata dell’impresa rivolta al pubblico dei consumatori: essa, diversamente, si era limitata ad una lettera indirizzata ad un singolo consumatore (A.Genovese, Pratiche sleali, diligenza professionale e regola de minimis, in I Contratti, 2015, pag. 777). Si era infatti trattato di un errore isolato, di un occasionale disguido di carattere gestionale-amministrativo.
La direttiva dovrebbe trovare applicazione qualora la condotta sia rivolta ad un gruppo indeterminato di destinatari e venga ripetuta nei confronti di più di un consumatore; nel caso in cui la condotta non sia diretta ad un gruppo indeterminato di consumatori, ma in ipotesi ad un singolo consumatore, la stessa dovrà essere quanto meno ripetibile, vale a dire “potenzialmente reiterabile” (A.Genovese, Pratiche sleali, cit., pag. 783).
Sembra appunto questo il concetto di pratica posto a base della direttiva, il cui art, 6, tra l’altro, in accordo al principio di proporzionalità, ne prevede l’applicazione per la tutela dei consumatori dalle conseguenze delle pratiche commerciali sleali quando queste sono rilevanti, riconoscendo che in alcuni casi l’impatto sui consumatori possa essere trascurabile.
Volendo individuare l’approccio della stessa Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato italiana, in recenti provvedimenti è stato ricordato che la definizione di pratica commerciale contenuta nel Codice del consumo – che “prescinde da un criterio statistico o quantitativo” – ricomprende ogni condotta che possa “essere astrattamente replicata a prescindere dal numero di soggetti che in concreto ne siano stati destinatari” (Provvedimento n. 20295, in Bollettino n. 37/2009); che si connoti, pertanto, per una “astratta replicabilità nei confronti di una categoria generalizzata di consumatori, a prescindere dal numero di soggetti che in concreto ne siano stati destinatari” (Provvedimento n. 22450, in Bollettino n. 21/2011).
5.- La diligenza professionale: un concetto composito per la valutazione della sussistenza della pratica
Riflettendo sulle previsioni nazionali, che possono essere prese a riferimento per la stessa comprensione della normativa comunitaria, l’interprete può affermare che il concetto di diligenza rappresenta il fulcro attorno al quale ruota la previsione generale dell’art. 20, secondo e terzo comma, del Codice del consumo, dovendo però il quadro normativo essere integrato dalla disposizione definitoria di cui all’art. 18, primo comma, lettera h): formulazione, quest’ultima, infelice perché affianca, in un medesimo contesto, figure per tradizione distinte, quali la diligenza, la buona fede e la ragionevolezza, quest’ultima estranea alla tradizione giuridica italiana (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Europa e diritto privato, 2010, pag. 1122 s.).
La nozione di diligenza professionale è “una nozione specificamente propria della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, una nozione dotata di piena autonomia rispetto alla nozione civilistica di diligenza (nell’inadempimento delle obbligazioni) e di colpa (nell’illecito vile)” (G.De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 150 s.); ed essa non va confusa con i principi di generali di correttezza e buona fede “che affondano le proprie radici” nella correttezza e nella buona fede in senso oggettivo (G.De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 151 s.). E ne viene fatto discendere che “le regole della diligenza professionale sono, essenzialmente, regole oggettive di comportamento corrispondenti ad un determinato grado/livello di conoscenze specialistiche, di cura e d’attenzione (alla sfera degli interessi patrimoniali dei consumatori e primariamente all’interesse dei consumatori ad assumere <<decisioni di natura commerciale>> consapevoli ed informate) che il professionista è tenuto ad osservare nelle pratiche commerciali che pone in essere nei confronti dei consumatori” (G.De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 151).
Nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali scorrette la diligenza assume allora il ruolo di fonte che determina il contenuto dell’obbligo del professionista nei confronti del consumatore al fine di preservarne o comunque favorirne la libertà di scelta e la sua consapevolezza (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza, cit., pag. 1151). La stessa dottrina ritiene che buona fede e correttezza non abbiano portata autonoma rispetto al concetto di diligenza e che non sia un errore redazionale l’aver compreso correttezza e buona fede nella definizione di diligenza professionale, dovendo la condotta del professionista essere considerata diligente solo se risulta anche rispettosa delle regole desunte in via di concretizzazione dalla correttezza/buona fede (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza, cit., pag., 1153). Diligenza e buona fede non assumono pertanto ruoli distinti ed autonomi, ma la buona fede opera delineando il contenuto della diligenza, da intendersi come perizia o ancor meglio come l’insieme delle regole di condotta professionali cui il professionista deve conformarsi; ed il contenuto della diligenza deve calibrarsi anche in relazione all’interesse da proteggere (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza, cit., pag. 1160).
Acquisito un bagaglio minimo di riflessioni utili, ritorniamo all’analisi della pronuncia della Corte. “Il problema riguarda l’individuazione del discrimen tra atto singolo irrilevante (episodico, accidentale) per la trascurabilità degli effetti generati (o generabili) e atto singolo rilevante ai fini della repressione delle pratiche sleali perché astrattamente “ripetibile” e per la apprezzabilità degli effetti generati (o generabili)”; qui però viene in evidenza il criterio della diligenza professionale perché la regola de minimis non troverà applicazione qualora una pratica, d’impatto pur esiguo, abbia caratteristiche tali – sia in termini strutturali sia di continuità nel tempo – da risultare reiterabile nei confronti di un numero significativo di destinatari; diversamente, ci si troverebbe di fronte a fenomeni poco rilevanti, episodici, occasionali (A.Genovese, Pratiche sleali, cit., pag. 785, anche per la dottrina richiamata).
Le conclusioni dell’Avvocato Generale presentate il 23 ottobre 2014, dallo stile asciutto e diretto, aiutano a meglio inquadrare il caso e si caratterizzano perché colgono in pieno lo spirito della direttiva: l’informazione erronea fornita da una impresa ad un abbonato, causando costi aggiuntivi a quest’ultimo, non può essere considerata pratica commerciale ai fini della direttiva. Le conclusioni fanno d’altronde leva sul ricordato principio di proporzionalità e sullo scopo stesso della direttiva, enunciato all’art. 1. Viene precisato che la direttiva non esclude dal proprio ambito di applicazione un atto isolato diretto ad un solo consumatore; tuttavia, il termine pratica – da intendersi come comportamento abituale - aiuta a circoscrivere i tipi di condotta che possono essere ricompresi dalla direttiva. Ed almeno una o entrambe delle seguenti condizioni devono essere soddisfatte: “ii) la condotta è diretta contro un gruppo indeterminato di destinatari; ii) la condotta si ripete nei confronti di più di un consumatore”. Pertanto, anche qualora diretta ad un solo consumatore, la condotta “deve essere ripetuta dal professionista in modo da poter corrispondere al termine di <<pratica>>”.
La direttiva, continua l’Avvocato Generale, “mira a tutelare gli interessi collettivi dei consumatori e non a fornire rimedi giuridici nei singoli casi”; ai sensi dell’art. 13 della direttiva, inoltre, le sanzioni che gli stati membri devono infliggere nel caso di pratiche commerciali scorrette, afferiscono alla sfera del diritto pubblico: “se l’ambito di applicazione della direttiva fosse, ciononostante, esteso a condotte isolate, come del tipo in oggetto nel procedimento principale, ciò comporterebbe, in pratica, la possibilità di imporre a un professionista una sanzione di diritto pubblico (nella forma di un’ammenda) per qualsiasi violazione contrattuale”.
Ma si sarebbe inverata una pratica commerciale scorretta qualora una comunicazione erronea fosse stata indirizzata ad un gruppo di consumatori? In realtà, anche in questo caso, sarebbe stato necessario valutare la correttezza del comportamento del soggetto agente, nell’esercizio della sua iniziativa economica, quale sintomo dell’inclusione dell’interesse di un soggetto terzo, il cliente, nell’adozione di determinate modalità di condotta. Per quanto riguarda il caso specifico, non pare che la comunicazione, seppur erronea, sia indice di un modello di comportamento contrario a buona fede (non potendosi comunque escludere una responsabilità del professionista ad altro titolo).
Il professionista non solo non ha agito sulla base di un modello di comportamento, ma non ha agito neppure abusando della propria posizione: in sintesi, non ha agito con modalità scorrette. Pur volendo individuare, nel caso di specie, un comportamento non diligente - in senso atecnico e non nel senso ampio di diligenza professionale -, non sono ravvisabili gli estremi della violazione della correttezza.
E non spaventi il confronto con i canoni della diligenza e della correttezza (da intendersi come buona fede in senso oggettivo), i quali non coincidono né in ambito contrattuale né in ambito extracontrattuale. Tanto che, anche nel contesto delle pratiche commerciali scorrette, possono sempre considerarsi preziose le parole di chi, seppur con riferimento all’attuazione del rapporto obbligatorio, ha ricordato che la correttezza “può consentire una valutazione globale del comportamento, capace, per così dire, di reagire sulle regole di condotta ispirate alla diligenza” (U.Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, Giuffré, 1968, pag. 51).
6.- Brevi conclusioni di natura sistematica
Muovendo, con approccio induttivo, dall’osservazione del caso di specie a riflessioni di teoria generale del diritto, deve rilevarsi come la pronuncia della Corte di Giustizia scardini alcune certezze ormai date per acquisite nonostante la giovane età della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette.
Evaporata la certezza circa la nozione di pratica, fino ad oggi delineata nei suo contorni, con mano sicura, dall’interprete e dall’operatore chiamati all’applicazione del nuovo apparato normativo, si addensa sul sistema una minaccia alla certezza del diritto: quest’ultima, valore cardine dell’ordinamento giuridico, rileva primariamente in presenza di consistenti interessi economici e di esigenze di prevedibilità delle conseguenze delle condotte degli operatori di mercato.
Ancor di più: se la pronuncia della Corte dovesse diversamente apparire come portatrice di una nuova certezza, quest’ultima non potrebbe che essere aggettivata come “paralizzante”. Anche solo pensando che la stessa figura di consumatore medio appare creata per bilanciare la tutela del consumatore con la tutela dell’esplicarsi dell’iniziativa economica e dell’autonomia imprenditoriale, il principio espresso dalla Corte potrebbe addirittura riverberarsi negativamente sulla libertà di espressione del professionista: segnatamente, essa impatterebbe in maniera preoccupante sulla strategia in senso lato comunicativa, e non solo commerciale, del professionista che ricorra a flussi di informazione comunque idonei a ravvivare l’interesse del consumatore e ad informare lo stesso in ragione del suo nuovo ruolo di attore del mercato (per spunti in tal senso e per interessanti considerazioni sulla nozione di consumatore medio e sulla relativa ratio, anche nell’ottica dello sviluppo di un mercato competitivo, si veda M.Libertini, Clausola generale, cit., pagg. 63 ss., 101).
(24 febbraio 2016)