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ISSN 2532-8913

Abuso del diritto ed elusione fiscale (parte II) (di Niccolò Rovai)

Come avevamo auspicato (in "Abuso del diritto ed elusione fiscale, su questa Rivista, consultabile qui), l’intervento del Legislatore in materia di imposta di registro era davvero necessario per fare un po’ di chiarezza in un contesto normativo, quello fiscale, pieno di lacune e incertezze.

Il problema, annoso, da cui prendevamo le mosse era la qualificazione giuridica del principio dell’abuso del diritto, un principio generale del nostro ordinamento, ma con risvolti applicativi e interpretativi ancora piuttosto indefiniti.

Per molto tempo la giurisprudenza ha interpretato l’art. 20 T.U.R come clausola generale anti elusiva. Si trattava di una norma di “qualificazione” degli assetti negoziali predisposti dalle parti. Con alcune sentenze recenti la Cassazione ha invece ritenuto che la norma avesse carattere interpretativo delle disposizioni in materia di elusione fiscale, estendendo il principio di abuso del diritto in materia di elusione fiscale (principio poi scolpito dall’art. 10- bis della l.n.212/2000, c.d. Statuto dei diritti del contribuente, introdotto dal d.lgs. n. 128/2015), anche all’imposta di registro (Cassazione n. 228/2016). Il classico caso era quello del conferimento di ramo di azienda con successivo trasferimento di quote che veniva tassato come cessione di azienda, applicando l’imposta prevista per quest’ultimo atto.

In tale contesto, gli Uffici tributari – con l’avallo della giurisprudenza di merito – erano soliti riqualificare gli atti soggetti alla registrazione in base agli effetti economici complessivamente raggiunti, anche attraverso più atti collegati. Il risultato è stato un sistema impositivo del tutto improntato alla libera valutazione degli Uffici che hanno fatto letteralmente “il bello e il cattivo tempo”, con non poche oscillazioni e, quindi, producendo incertezza.

L’art. 1, comma 87 della l. n. 205/2017 ha modificato gli artt. 20 e 53-bis del D.P.R. n. 131/1986, introducendo semplici regole che - si spera - possano rendere più agevole il compito sia dell’amministrazione finanziaria che del contribuente nell’adempiere ai propri doveri fiscali. In seguito alla modifica, l’art. 20 del DPR n. 131/1986 prevede che “L’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra-testuali e dagli atti a esso collegati…”. La norma introduce, quindi, dei limiti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie.

In materia d’imposta di registro, più specificatamente, la novella afferma un doppio principio: 1) il carattere non elusivo dell’art. 20 T.U.R, utilizzato solo ai fini dell’interpretazione dell’atto in sede di registrazione, superando così la “teoria degli atti collegati”, secondo cui l’imposta di registro viene calcolata non solo in base all’atto presentato alla registrazione, ma anche in funzione degli atti a esso collegati (il che portava, come sopra detto, l’amministrazione a riqualificare l’atto soggetto a registrazione); 2) la separata applicazione della disciplina dell’abuso del diritto: sicché si supera l’interpretazione che rendeva non opponibili al Fisco le operazioni disciplinate sia dall’atto registrato sia eventualmente da altri negozi, i quali siano privi della connotazione della “sostanza economica” diversa dal mero riferimento al c.d. vantaggio fiscale. Così facendo il Legislatore ha sancito che l’imposta di registro è “un’imposta d’atto”, per cui le operazioni da tassare sono solo quelle contenute negli atti presentati alla registrazione. L’indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, è stato quindi scardinato dalla nuova disciplina normativa la quale mira a rendere certo il confine impositivo e lo identifica nell’“effetto giuridico”, e non più economico (come sembra aver concluso Cassazione n. 2054/2017, per cui l’Amministrazione finanziaria non deve “ricercare un presunto effetto economico” dell’atto).

L’amministrazione finanziaria avrà dunque, d’ora in poi, l’obbligo di valutare e valorizzare solo gli effetti giuridici di un atto e non i risultati economici ad esso collegati. È in questo contesto che la modifica dell’art. 53- bis prende forma. Le attribuzioni e i poteri dell’amministrazione finanziaria, in materia di abuso del diritto, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale. Pertanto, qualora l’operazione posta in essere dal contribuente sia priva di sostanza economica e realizzi un vantaggio fiscale indebito, l’amministrazione potrà contestarla per abuso del diritto ai sensi dell’art. 10-bis L. 212/2000.

Se, da un lato, la norma (art. 1, comma 87, l. n. 205/2017) compie un salto in avanti rispetto al passato, dando un segnale di innovazione; dall’altro sembra rimanere incerto il regime degli effetti. La Cassazione si è espressa recentemente con la sentenza n. 2007/2018 sancendo la irretroattività della norma in questione, sul presupposto che non si tratti di norma interpretativa ma innovativa; pertanto gli atti antecedenti alla riforma sarebbero assoggettati a imposta di registro secondo la disciplina del vecchio art. 20 DPR 131/1986. Il Legislatore, però, non si è ancora espresso sulla retroattività o meno della norma: problema, come s’intuisce, di non poco conto in quanto la retroattività renderebbe la nuova disciplina applicabile a tutti quei casi “passati” nei quali si sarebbe mal applicato l’art. 20. In tal caso, l’amministrazione finanziaria dovrebbe compiere un’opera di revisione generale di tutti gli atti soggetti a registrazione che hanno avuto un trattamento “di favore” rispetto a quelli che invece verranno registrati dall’entrata in vigore della nuova norma.

È vero che l’opera di revisione assumerebbe proporzioni non indifferenti, ma è altrettanto vero che un ricalcolo delle imposte dovute in base alle nuove norme contribuirebbe al recupero di una serie di cespiti utili anche, tramite il reimpiego, al finanziamento di opere di innovazione fiscale.

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La separazione tra banche d’affari e banche commerciali tra ipotesi nazionale e realtà delle scelte sovranazionali. (Parte Terza) (di Michele Cossa)

Nel mio precedente intervento su questa Rivista - La separazione tra banche d’affari e banche commerciali tra ipotesi nazionale e realtà delle scelte sovranazionali (Parte Seconda) -, si è dato conto dei tentativi di riforma maturati in prossimità della crisi economica, del 2008, sia negli ordinamenti dei singoli Stati, sia, almeno al grado embrionale di proposta normativa, a livello sovranazionale, con la proposta UE di Regolamento BSR.

Anche in Italia – ed è questo l’oggetto del presente, conclusivo, intervento - l’ampio dibattito innescato dalle virulente conseguenze della crisi nel settore bancario ha lambito il tema della separazione strutturale tra le banche commerciali e le banche d’affari.

Invero, al di là dei vari interventi emergenziali relativi a singoli intermediari investiti dalla turbolenza in modo severo, tanto da risultarne espulsi dal mercato, lo sforzo riformatore si è concentrato principalmente nel recepimento delle copernicane modifiche intervenute a livello europeo, sia su aspetti sostanziali, che soprattutto, su quelli istituzionali, concernenti la creazione della (non ancora perfezionata) Unione Bancaria, e l’introduzione di un nuovo assetto di vigilanza che trova ora il proprio baricentro nella sede unica europea.

La disciplina unionale sostanziale, come detto nella precedente parte di questo scritto, non si è preoccupata di recuperare direttamente una norma analoga a quella sancita dalla Volcker Rule statunitense. Invero, anzi, le principali fonti di disciplina introdotte, ovvero il Regolamento CRR e la Direttiva CRD IV[1], proseguono un percorso già avviato dai precedenti atti normativi, mediante una direttrice di maggiore uniformità ed armonizzazione (in questo senso dovendosi leggere la novità assoluta dello strumento del regolamento per gran parte della disciplina più puntuale), contestualmente sottraendo spazio alle discrezionalità nazionali. Tuttavia, non muta lo spirito della regolamentazione, che continua a rifuggire interventi strutturali ex ante e punta, piuttosto che a conformare il mercato, ad assecondarlo, correggendolo ab intra solo ove lo reputi necessario ai fini del bene primario della stabilità. Il modello è dunque quello “prudenziale”, sommariamente descritto nella prima parte di questo scritto, che rinuncia in via di principio a divieti preventivi e riconosce nell’autonomia imprenditoriale degli intermediari un valore di per sé, che va compresso solo ove necessario.

Non di meno, come descritto, la Commissione Liikanen aveva suggerito anche in sede europea un ripensamento del modello di banca “universale”, in grado cioè di assommare ogni attività bancaria e finanziaria ritenuta coerente al proprio programma imprenditoriale. La proposta di Regolamento che ne era scaturita, analizzata nel precedente intervento, ha da subito incontrato rilevanti opposizioni e atteggiamenti di chiusura da parte del mercato ed anche da parte di alcuni Stati membri, che la giudicavano eccessivamente rigida, da una parte e non efficace nel prevenire i fenomeni più rischiosi, dall’altra.

Sul banco degli imputati, in particolare, era salito l’obbligo di separazione per attività diverse dal proprietary trading al ricorrere del superamento di soglie prefissate. Le modifiche alla bozza di regolamento, nel corso dei lavori preparatori, sono quindi andate nella direzione di attenuare fortemente gli automatismi che ex ante imponevano la sottrazione della facoltà di svolgere alcune attività di investimento al ricorrere dei presupposti, privilegiando la discrezionalità del soggetto titolare del potere di supervisione, al fine di valutare l’effettiva rischiosità di tali attività in concreto: ovvero, niente di diverso da un approccio prudenziale che rifugge divieti generali e astratti e conforma la reazione del controllo pubblico all’effettivo grado di pericolo per l’interesse tutelato (la stabilità finanziaria) ingenerato dall’operatività concreta del vigilato, in una logica ammantata di proporzionalità ed ideologicamente servente ad una volontà di non incisione dell’autonomia privata.

Era ovvio che questo itinerario formativo del Regolamento lo confinasse ad una sostanziale irrilevanza, non appena l’assenza di accordo politico su misure più stringenti ha costretto ad ammettere che una versione soft dell’atto finisse per replicare gli strumenti già esistenti nell’ordinamento e risultasse quindi, di fatto pleonastico. In termini semplici: già la CRD IV prevede (art. 104) che le autorità di vigilanza debbano disporre del potere, se necessario, di “restringere o limitare le attività, le operazioni o la rete degli enti o esigere la cessione di attività che presentano rischi eccessivi per la solidità dell'ente” (par. 1, lett. e). Del pari la normativa europea sulla crisi, quella del secondo Pilastro dell’Unione Bancaria, attribuisce alla Autorità di settore, poteri quali quelli di “imporre all’ente di spossessare attività specifiche”, di “limitare o impedire lo sviluppo di linee di business o la vendita di prodotti, sia nuovi che esistenti” e soprattutto, di “imporre modifiche alle strutture giuridiche o operative dell’ente o entità del gruppo, (direttamente o indirettamente sotto il suo controllo) in modo da ridurne la complessità, affinché le funzioni essenziali possano essere separate da altre funzioni, sul piano giuridico ed operativo, applicando gli strumenti di risoluzione” (cfr. Direttiva cd. BRRD, ovvero Direttiva 2014/59/UE).

Se ci si richiama a quanto osservato all’inizio di questo intervento si comprende come per vero la spinta alla modifica del Regolamento non è ancorata a mere ragioni tecniche o addirittura opportunistiche (almeno per quel che riguarda le voci istituzionali): l’opzione è per vero “filosofica”, attenendo ad una precisa scelta di conformazione dell’intervento pubblico nel settore bancario e finanziario, ispirata ai canoni di incentivazione dell’iniziativa privata, tutela della concorrenza, omogeneità con gli strumenti e le dinamiche di mercato. Una mano pubblica che non programma o irregimenta il mercato, ma che lo corregge ove necessario e per il resto ne permette (ed anzi auspica ed incentiva) il pieno dispiegarsi delle sue potenzialità.

Ma se ciò è vero e se pure il Regolamento BSR, che partiva almeno con un’idea – sia pure costellata di limiti – di conformazione allogena dell’attività dei soggetti privati, vietandone alcune attività, ma che approdava, nel dibattito istituzionale, a rimettere poteri di separazione sostanzialmente discrezionali all’Autorità diveniva pleonastico, quando non addirittura fonte di indebita confusione tra poteri e di superfetazione degli obblighi in capo ai soggetti vigilati.

Il risultato, abbastanza scontato, di questo iter di ridimensionamento della carica “strutturale” della proposta è stato il suo accantonamento. Nel programma di attività della Commissione Europea per il 2018[2], infatti, quest’ultima include la proposta BSR tra gli atti che vengono ritirati, non solo per l’assenza di progressi sulla proposta, ma soprattutto perché “the main financial stability rationale of the proposal has in the meantime been addressed by other regulatory measures in the banking sector and most notably the entry into force of the Banking Union's supervisory and resolution arms, ovvero i fini di tutela della stabilità che la stessa si prefiggeva possono essere raggiunti con gli strumenti della vigilanza prudenziale, che non è semplicemente un complemento o un accessorio, ma è un modello alternativo per la supervisione pubblica sul comparto finanziario più affine allo Zeitgeist, rapidamente ricompattatosi dopo la grande paura della crisi. E non è un caso, si aggiunga, che dagli USA sono quotidiane le voci su una modifica, un allentamento o addirittura una eliminazione della Volcker Rule, di cui dà conto costantemente la stampa specializzata.

Come si disse all’alba di questo intervento: la caratteristica principale di questa crisi è stata quella per cui la sua reazione – almeno nel settore bancario e finanziario – non ha portato ad una complessiva riconsiderazione delle ideologie e delle metodologie di fondo, ma, ferme queste, ne ha potenziato gli strumenti e ne ha corretto – o tentato di correggere – le disfunzioni più evidenti. Ed in questo contesto, anche per elementari ragioni di coerenza ed organicità del sistema, è dubbio che elementi estranei ai presupposti fondativi dell’intera impalcatura del sistema dei controlli possano trovare in esso spazio utile (o vita sufficientemente lunga).

Se questa è la parabola delle misure strutturali sulle banche, almeno nell’ordinamento europeo, è finalmente il momento di passare ad analizzare la situazione italiana. Come noto, nel nostro Paese gli effetti più aggressivi della crisi economica e finanziaria si sono prodotti sul sistema bancario non nell’immediato erompere di essa, ma successivamente, principalmente (anche se non solo) in forza dell’erosione della qualità degli assets delle banche, in riflesso della prolungata contrazione dell’economia reale.

Anche a livello nazionale sono stati prospettati, da più parti, interventi volti ad assicurare, per usare una formula sloganistica, che “le banche tornassero a fare le banche”. Queste proposte, varie nella fonte e nel contenuto, sono approdate in Commissione Finanze della Camera per un esame congiunto a marzo 2017, ma non sono andate oltre. Mutuando la ripartizione effettuata dal Servizio Studi della Camera, tali disegni di legge potevano suddividersi in tre gruppi: 1) modifica dell’art. 10 TUB (sull’attività bancaria e creditizia), con esclusione del commercio in proprio di strumenti finanziari dall’attività bancaria e creditizia; 2) delega al Governo per la riforma del TUB, sempre per introdurre la separazione tra banche commerciali e banche d’affari; 3) introduzione di un’apposita disciplina, ma ancora nel TUB, per la separazione delle attività finanziarie di deposito e di credito relative all’economia reale e quelle di investimenti speculativi e rischiosi.

Come detto, nessuno di questi disegni di legge ha visto il proprio iter avanzare. Al che, si potrebbe pensare, vista anche la corrente temperie internazionale, che sembra ormai aver rinunciato a percorrere il sentiero della introduzione deroghe al principio della banca universale, che il discorso sia ormai chiuso.

Ma non è così. Molti dei firmatari delle proposte di legge in questione, infatti, sono esponenti, anche rilevanti, delle attuali forze politiche di governo[3]. Per di più, sulla separazione tra banche d’affari e banche d’investimento ha preso posizione anche la Commissione Parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, che come noto ha reso pubblici i risultati dei suoi lavori ad inizio 2018[4]. Nella Relazione di maggioranza, sul punto si notava, in termini sostanzialmente neutri, come “il futuro parlamento potrebbe tornare ad esaminare l'argomento alla luce del nuovo contesto normativo e regolamentare europeo, e della considerazione che nel caso si ritenesse di riproporla come posizione del Parlamento italiano, andrebbe discussa e adottata in ambito europeo, dal momento che una decisione di un solo paese risulterebbe inefficace, in regime di libera prestazione di servizi in ambito europeo” (punto 21). Ben più incisive erano sul tema le Relazioni di minoranza, che peraltro provenivano da esponenti dei partiti politici attualmente investiti del governo del Paese: nella Relazione Brunetta e altri, si parla chiaramente di “necessità” di introdurre siffatte misure al fine di tutelare la clientela, il mercato e le risorse pubbliche (e si traccia anche uno scheletro di disciplina; punto 10.5); nella Relazione Sibilia e altri, è pure predicata la separazione tra banche d’affari e banche d’investimento come intervento auspicabile (punto 1.3).

Ed infatti, nel cd. “contratto di governo” tra Lega e Movimento 5 Stelle è espressamente indicato come “bisogna andare verso un sistema in cui la banca di credito al pubblico e la banca di investimento siano separate per quanto riguarda la loro tipologia di attività sia per quanto riguarda i livelli di sorveglianza”. Infatti, nel discorso programmatico tenuto alla Camera, il neo Presidente del Consiglio Conte ha espressamente fatto riferimento alla separazione come punto che il suo Governo si impegnerà a realizzare; ancora qualche giorno fa, il viceministro all’Economia, Garavaglia, ha risposto ad un’interrogazione parlamentare relativa alla riforma del credito cooperativo, prospettando l’intendimento di rivedere la riforma e garantire, soprattutto a livello territoriale, una netta differenziazione tra banche commerciali e banche autorizzate ad eseguire attività più compiutamente speculative.

Naturalmente, non è possibile commentare una riforma per ora solo annunciata e men che meno esprimere al riguardo alcun giudizio. Sicuramente, questa (futura) iniziativa si inscrive nel tentativo di dare concrete risposte di riforma in un settore che negli ultimi anni ha occupato insistentemente le cronache, e non per motivi onorevoli. Questo scritto volutamente si è occupato solo dell’impostazione generale della politica regolamentare della vigilanza bancaria[5]; poiché al momento, come detto, vi sono soltanto manifestazioni di volontà di modifiche normative, è apparso almeno utile fornire un inquadramento generale del fenomeno, soprattutto in un settore, quale quello bancario, estremamente interrelato a livello globale (e tanto più europeo), in cui lo spazio per iniziative isolate dei legislatori nazionali si è ristretto, anche solo per la necessità pratica di non arrecare pregiudizi concorrenziali agli intermediari interni rispetto a quelli di altri paesi.

In attesa quindi di nuove su questo fronte, si spera almeno di aver precisato alcuni punti fermi, che non dovrebbero essere obliterati se davvero si vorrà mettere mano ad una riforma in senso strutturale del mercato bancario:

- il legislatore europeo ha rinunciato expressis verbis all’adozione di misure strutturali ed ha optato in modo chiaro per il potenziamento e l’affinamento delle misure prudenziali discrezionali, ritenendole necessarie e sufficienti per la tutela dei rilevanti interessi pubblici coinvolti nel sistema bancario e finanziario;

- questa scelta non è contingente, ma è frutto di una precisa ideologia che permea il sistema almeno dagli inizi degli anni ’90, con la privatizzazione del settore bancario, l’apertura dei mercati, l’adozione convinta del modello “banca universale”, l’individuazione di un ruolo ortopedico – correttivo delle Autorità di vigilanza, non mere traspositrici di precetti cogenti indicati dalla legge, ma regolatori dotati di ampi poteri discrezionali da usare con il minimo sacrificio degli attori del settore in vista degli interessi tutelati.

Questa è l’impostazione accolta dall’ordinamento di cui il nostro sistema fa parte; di questo non potrà non tenersi conto nell’adozione della futura ed eventuale normativa, che, salve opzioni ben più radicali, dovrà coordinarsi armonicamente con l’esistente ed evitare superfetazioni di precetti e poteri, in modo da non pregiudicare efficienza del mercato ed efficacia della vigilanza, senza che in concreto si raggiungano nuovi livelli di tutela per i risparmiatori.

 

(17 luglio 2018)

 

[1] Rispettivamente, il Regolamento UE n. 575/2013 del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, e la Direttiva 2013/36/UE, sull'accesso all'attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento.

[2] Reperibile sul sito della Commissione.

[3] Si pensi ad esempio alle proposte A.C. 1605 (Giorgetti), A.C. 2000 (Sibilia), A.C. 488 (Caparini).

[4] Il testo delle Relazioni conclusive, di maggioranza e di minoranza, è disponibile sul sito www.senato.it.

[5] Per una sintetica visione di insieme sulle cause della crisi bancaria degli ultimi anni, la cui ricognizione dovrebbe guidare l’analisi dei rimedi, può rimandarsi, ex multis, in particolare l’audizione del Governatore della Banca d’Italia alla Commissione parlamentare d’inchiesta “Le crisi bancarie e l’azione della Vigilanza “ del 19.12.2017, disponibile su www.bancaditalia.it.

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La separazione tra banche d’affari e banche commerciali tra ipotesi nazionale e realtà delle scelte sovranazionali. (Parte Seconda) (di Michele Cossa)

Come visto nel primo intervento, la grave crisi finanziaria che a partire dal 2008 ha colpito, in pratica, l’intero sistema finanziario mondiale ha spinto ad un ripensamento delle politiche di sostanziale deregulation del settore finanziario, che, indulgendo ad un laissez-faire fondato su una generale fiducia sull’autodisciplina del mercato e dei suoi operatori, aveva finito anche per permettere l’adozione di comportamenti rischiosi, che avevano innescato, o concorso a propagare, gli effetti della congiuntura negativa.

L’esame in dettaglio delle singole iniziative legislative nazionali e sovranazionali volte a contenere gli effetti della crisi e, soprattutto, ad evitarne una ripetizione, è opera che ormai, a dieci anni di distanza, richiederebbe più che uno sforzo monografico, una vera e propria collana di scritti, tanto variegato e articolato appare il quadro.

Appare ai nostri fini più interessante, oltre che più realistico, soffermarsi sul dibattito che quasi istantaneamente è sorto in ordine alla necessità di rivedere il modello di banca universale e di individuare dei limiti alla possibilità per gli istituti che raccolgono fondi presso la generalità indistinta del pubblico di investire tali fondi in attività speculative ad alto rischio, finendo per metterne a repentaglio la restituzione[1].

Partendo dal Paese in cui la crisi era esplosa, gli Stati Uniti, fu proprio per rimarginare il vulnus alla fiducia dei risparmiatori che venne adottato nel 2010 il Dodd-Frank Act, un intervento di riforma estremamente elaborato e complesso, di cui qui va ricordata soprattutto la cd. Volcker Rule. Quest’ultima è la comune denominazione che viene conferita a quella parte della riforma, ideata appunto dall’ex Presidente della Federal Reserve, l’economista Paul Volcker, che recupera alcuni aspetti dello storico Glass-Steagall Act, imponendo un intervento di tipo strutturale sul mercato bancario. L’intento, in generale, era infatti quello di evitare che le banche che raccolgono depositi “protetti”, cioè soggetti alla tutela del sistema di garanzia dei depositi statunitense, svolgessero attività (speculativa) di trading proprietario e attività di investimento in fondi ad operatività particolarmente rischiosa (gli hedge funds, in particolare); e la Volcker Rule pone un esplicito divieto al riguardo.

Il ritorno al passato sembra quasi testuale; senonché, la (apparentemente) chiara previsione del §619 del Dodd-Frank Act è temperata, nella stessa parte dell’atto, da una serie di rilevanti precisazioni ed eccezioni. E, soprattutto, la regola presuppone esplicitamente un’attività regolamentare ed attuativa di tale vastità e complessità che sembra davvero difficile individuare in essa qualcosa di più di una, sia pure rilevante, enunciazione di principio, mentre il contenuto sostanziale-precettivo, ed in particolare il perimetro del divieto, è sostanzialmente rimesso all’apporto delle varie autorità di regolazione. La disciplina attuativa esiste, ed è di una mole tale da scoraggiare lo studioso che vi si accosti in assenza di necessità pratiche. In estrema sintesi, si può notare che il modello del Glass-Steagall Act, rigido ed inflessibile, sia lontano: la regola generale si frammenta in una serie di casistiche, esenzioni, eccezioni che, in un comprensibile empito di proporzionalità, cerca di bilanciare gli interessi in gioco e di destreggiarsi nella complessità delle attività di investimento, spesso caratterizzate da una “ibridazione” delle finalità (speculative congiunte a quelle di copertura) che risulta apparentemente insofferente a divieti astratti dal sapore manicheo.

Ma, dettagli a parte, il messaggio dell’introduzione nell’ordinamento statunitense di una norma che – con i vari limiti soggettivi (solo banche commerciali) e oggettivi (riferiti alle attività di investimento alle stesse vietate, con una disciplina quasi puntiforme su ciò che deve e ciò che non deve rientrare nel divieto) – per la prima volta in un ventennio segna una decisa inversione di tendenza nelle politiche pubbliche di intervento nel settore finanziario è significativo.

Né l’Europa è rimasta a guardare. Innanzitutto, il Regno Unito: Paese che ospita uno dei mercati finanziari più importanti del mondo e in cui duramente la crisi ha fatto sentire la propria morsa. In questo caso, la  risposta normativa scaturisce da una proposta formulata da una Commissione indipendente sulle banche, nominata dal Governo britannico e presieduta dall’economista di Oxford John Vickers. E “Vickers Rule” è, anche qui, chiamato volgarmente l’intervento normativo confluito nel Financial Services Act 2013 (in particolare, la parte cd. Banking Reform Act), che introduce, sulla scia di quanto concluso dalla Commissione, riforme strutturali nel mercato bancario. Il metodo potrebbe apparire differente da quello praticato negli Stati Uniti, ma il risultato è analogo. Il Regno Unito ha infatti privilegiato la soluzione di “recintare” (secondo la traduzione appunto della locuzione “Ring-fencing”) l’entità che svolge attività bancaria tradizionale, ovvero l’attività “core” per eccellenza, la raccolta di fondi tra il pubblico. Ed è proprio questa attività “core” che va difesa, nell’ottica del legislatore UK, impedendo a chi è abilitato a svolgerla di porre in essere attività nominativamente individuate come rischiose. Tra queste, spicca nuovamente l’attività di trading per conto proprio; compare inoltre anche il divieto di avere esposizioni nei confronti di alcune financial institution. Se peraltro, a prima vista, la normativa inglese appare anche più restrittiva di quella statunitense, questa conclusione non può accogliersi acriticamente. Non mancano, anche in questo caso, eccezioni ed esclusioni (tra cui quella de minimis, relativa ad intermediari creditizi più piccoli), che ammorbidiscono il rigore del divieto generale. Inoltre, è interessante notare come in generale la legislazione inglese, a differenza di quella britannica, ammetta la coesistenza nello stesso gruppo della banca commerciale e della società di investimento; una regola che però impone apposite regole di governance e prudenziali (oltre che appositi poteri dell’Autorità di vigilanza) per evitare che l’appartenenza al medesimo conglomerato non si traduca in condivisione dei rischi e quindi di contagio della prima entità in caso di crisi della seconda.

Ancora, si può menzionare – ma per brevità non spingersi oltre- il caso della Francia e della Germania. Entrambe, estremamente semplificando, con due leggi nazionali hanno previsto l’impermeabilizzazione delle banche commerciali – che superino certi limiti dimensionali - dai rischi di alcune attività speculative (ancora una volta, in primis, il proprietary trading).

Ma il dibattito si è presto spostato a livello europeo, per due ragioni dirimenti. In primis, una delle linee fondamentali di reazione del vecchio Continente alla crisi che lo ha squassato è stata quello di elevare a livello di istituzioni eurounitarie il maggior numero possibile di responsabilità in tema di regolazione e vigilanza dei mercati bancari e finanziari. Nella temperie che ha portato all’(ancora incompleta) Unione Bancaria, la discussione sulle cause della crisi e sugli strumenti regolamentari e amministrativi per fornirvi rimedio e scongiurarne una ripetizione in futuro non ha potuto allora disinteressarsi del tema delle riforme strutturali. Ancora, sotto un profilo sostanziale, l’adozione di regole penetranti che ex ante disciplinino ciò che una banca può o non può fare, ponendo limiti all’autonomia imprenditoriale della stessa e mettendo in crisi un modello – quello della banca universale – che proprio nell’integrazione europea aveva trovato la propria consacrazione, non poteva sfuggire alle maglie del legislatore sovranazionale. D’altronde, se il Mercato Unico deve essere davvero tale, non sembra possano essere ammesse (o comunque non sembra che possano esserlo in assenza di un vaglio generale delle istituzioni preordinate a garantire il funzionamento di detto mercato) regole che incidono pesantemente sulla possibilità degli intermediari di operare in determinati territori, imponendone modifiche strutturali od organizzative ed ostacolandone l’ampliamento dell’attività in considerazione della necessità di assicurare la compliance a discipline diverse, Stato per Stato. Le ricadute in tema di concorrenza (uno dei pilastri della costruzione europea) sono peraltro evidenti: discipline diverse in senso all’Unione giustificano fenomeni di arbitraggio normativo e tentativi dei singoli Stati di giocare “al ribasso” per attirare attività economiche sul proprio territorio, assoggettandole alla propria tassazione.

Nel 2012 è dunque stato reso noto il cd. Rapporto Liikanen, ovvero il documento conclusivo dell’High Level Group di esperti (presieduto dal Governatore della Banca Centrale di Finlandia, Liikanen, appunto) costituito l’anno precedente dalla Commissione Europea proprio per valutare la necessità di misure strutturali per il mercato bancario europeo. Del documento, peraltro, si consiglia la lettura anche al di là dello specifico interesse per i temi in questione, perché, nella prima parte, concilia sintesi e precisione nell’esame della più grave crisi finanziaria e sociale del nostro tempo[2].

Il Rapporto si produce in una spietata analisi delle problematiche emerse nel settore bancario in occasione della crisi (eccessiva assunzione di rischi incentivata da sussidi infragruppo; aumentate complessità, dimensione e operatività; supervisione inadeguata e eccessiva confidenza nel management e nella market discipline; aumentata interconnessione tra operatori e mercati, rischio sistemico e limiti alla “risolvibilità” delle banche, ecc….), evidenziando le storture e le miopie che, accumulandosi nel tempo, ne hanno amplificato gli effetti in modo dirompente. Per il punto in esame, merita citare quanto affermato a pag. 89, testualmente: “In Europa, il modello di banca universale ha una storia relativamente lunga di combinazione della banca  commerciale della banca d'investimento sotto lo stesso tetto. Tuttavia, c’è stata una tendenza prima della crisi tra le più grandi banche europee, di concentrarsi sempre più sull’investment banking, incluse operazioni trading, e di aumentare la propria dipendenza dai finanziamenti all'ingrosso’’.

Da siffatte premesse, sgorgano coerenti conclusioni, che si articolano in due opzioni da sottoporre al legislatore UE: a) una, più “soft”, suggeriva l’introduzione di un requisito di capitale non ponderato per il rischio, per le attività di investimento e una possibile separazione funzionale delle attività di investimento significative, a seguito di una valutazione di vigilanza sulla sostenibilità del piano di risoluzione e recupero; b) l’altra, più tranchant, prospettava una separazione funzionale immediata delle attività di investimento, eccedenti un certo limite,  da quelle bancarie commerciali e retail, senza una previa valutazione di vigilanza (la trading entity e il resto del gruppo avrebbero poi dovuto essere economicamente, legalmente e operativamente indipendenti).

Sulla scorta di queste proposte, la Commissione ha varato, nel 2014, una proposta di Regolamento sulle misure strutturali delle banche (2014/043) mirante dichiaratamente a “prevenire il rischio sistemico, lo stress finanziario o il fallimento di entità grandi, complesse e interconnesse del sistema finanziario, in particolare enti creditizi”. Nella sua versione originaria, il Regolamento BSR (Banking Structural Reform) prevedeva un divieto generale di trading per conto proprio e di operare con o tramite fondi di investimento alternativi (FIA) nonché la separazione funzionale di altre attività di negoziazione (tra cui, principalmente, il market-making), qualora, in esito ad uno scrutinio della competente autorità di vigilanza, risultassero superati alcuni parametri fissati dal Regolamento e da una emananda disciplina attuativa. La disciplina avrebbe dovuto riguardare solo entità di dimensione particolarmente rilevante (i cd. enti too big to fail) e, come ormai ci si attenderà, conteneva una serie di esenzioni volte a conformare i divieti all’effettiva rischiosità delle diverse attività, in ossequio al principio di proporzionalità. Anche in questo caso, peraltro, come già in alcune discipline nazionali sopra sinteticamente passate in rassegna, la compresenza nella stessa articolazione di gruppo dell’entità bancaria tradizionale con quella deputata alle attività di investimento era ammessa, ma con una serie di prescrizioni volte a porre un diaframma tra le due, al fine di preservare la prima dalle vicende dell’altra.

Senza indugiare sulle cd. technicalities, quello che rileva sottolineare è che anche l’Unione Europea sembrava avviata verso una rimeditazione del modello di banca universale, di cui veniva paventata la rischiosità o la difficile compatibilità con le finalità di vigilanza, allorchè l’intermediario fosse di grandi dimensioni ed avesse una struttura organizzativa, patrimoniale o finanziaria di particolare complessità. In  questo processo, la soluzione ipotizzata era quella di recuperare, sia pure in un formato meno esteso e più aggiornato, alcuni stilemi antecedenti all’adozione del modello di vigilanza prudenziale, che sommariamente si è tratteggiato nella prima parte di questo intervento. In particolare, ci si riferisce all’introduzione di un divieto in astratto ed ex ante di svolgere alcune attività finanziarie non legate a quella bancaria tradizionale da un nesso di strumentalità e che anzi rischiano di accrescerne i rischi e vanificarne funzioni e risultati.

Tuttavia, non è questa la fine della storia. Il Regolamento BSR non è mai stato approvato; e mai lo sarà, per le ragioni che vedremo nella prossima ed ultima parte. In quell’occasione, ci si dovrà anche confrontare con gli opposti spunti che nascono dal dibattito politico nazionale, in cui invece l’adozione di misure strutturali è  è di stretta attualità, come dimostra, tra l’altro e da ultimo, il testo del cd. Contratto di governo stipulato dalle due forze politiche che dovrebbero assumere a breve le responsabilità di conduzione del Paese.

 

[1] Per tutto quanto segue, e per ben più approfonditi riferimenti, si rinvia al volume Il tramonto della banca universale? a cura di M. Rispoli Farina e M. Porzio, Napoli, 2017, ed in particolare agli scritti della seconda parte, relativi alle leggi nazionali sulla separazione tra attività bancarie e attività di investimento (di SCALCIONE, LIDDELL, CAPDEVILLE).

[2] Il documento è pubblico e facilmente reperibile su internet.

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Power players have no power anymore (di Murad Harasheh)

The observer of the latest advancements at the international level regarding climate change actions can conclude that those actions taken at policy levels have counter effects on the oil, gas, and fossil power generators.

Following the global climate summit (COP21) in Paris in 2015, a Task Force on Climate Change and Financial Reporting (TCFD) was born lead by Michael Bloomberg, the establishment of the TCFD came as proposed by the Financial Stability Board (FSB) which was created by the G20 as a prudent response to the 2008 global financial crisis.

The TCFD recommends companies to disclose their risk exposures related to climate hazards and to be part of their routine financial reporting. Furthermore, The TCFD expands its reporting requirement to banks; banks now should disclose the lending to companies with carbon related risks. In this regard, most G20 countries require businesses to disclose material climate-related risks in their financial reports. These requirements have, in fact, two mains goals, first is to ensure the climate and sustainability governance by companies and banks to stay within the 2C degrees warming limit, and second is to ensure more transparent financial environment for financial market investors. The guidelines were directed specially to companies with high climate risks and those are involved in the transition to “Low-Carbon Economy” such as energy, transportation, construction and agricultural-related sectors, with a special attention given to the financial and banking sectors.

In another response to the global actions to mitigate climate risks, the World Bank has decided to end the financial support for oil and gas exploration after 2019 in developing countries, with some exceptional conditions to support oil and gas in very poor countries to ensure energy accessibility and local development, however the support has to have no conflict with 2015 Paris climate accords. The decision was originally taken in 2010 but under the pressure from lobby groups, the bank continued to support $1 billion a year for coal-fired stations.

At the European level, and in addition to the international requirements, power generators are facing a more stringent regulatory environment in which market players with power contracts exceeding a certain limit have to comply with various energy and financial regulations:

  • 1- REMIT (Regulation on Energy Markets Integrity & Transparency) of 2011 aims at monitoring the wholesale European energy markets and enhances EU markets’ integrity, requires that physical power contacts has to be reported to competent energy authorities.
  • 2- MIFID-II: (Markets in Financial Instruments Directive) of 2014 intends to enhance markets’ transparency and resilience, requires that certain classes of physically settled derivatives to be reported to the competent financial authorities.
  • 3- EMIR: (European Market Infrastructure Regulation) of 2012, intends to increase the transparency and reduce risk in the Over-The-Counter (OTC) market, requires that power contracts negotiated on the OTC market (not on standard regular platforms) has to be reported the competent financial authorities.

In this context, figures show that the financial situation of the main power players in Europe is being affected by the more stringent regulatory environment; for example in 2015, 11 companies out of top 20 EU power companies reported a net loss equal to 13 Billion euros compared to 10 Billion euros for other 9 companies, out of the 13 billion losses, E.ON and ENGIE reported about 11.5 billion euro losses.

Seems that tough market conditions are hitting EU power companies due to the drop in the wholesale power price in Europe’s major markets. At the EU level, various factors may contribute to this tough situation, it can be the supply side related to  low fuel and emission allowance prices, on the demand side related to low demand caused by the down economics activity, the growth of renewables, and the EU market integration which may bring power prices to its competitive levels. Another important issue related the European Emission Trading Scheme (EU-ETS); since its initiation in 2005, power companies were granted free allocations and they were able to pass-through the price of the allowance to the wholesale price, means that making windfall profits. However, since the beginning of the 3rd trading phase in 2013, power companies are not any more receiving free allocations which contributes to losing part of their market power to pass the cost of free allowance to final customers, this also proves that as we move to further trading phases, power sector’s profits and share prices are in decline.

The story does not stop on huge negative earnings but also to bank borrowing, the shocking data released by big American and European banks revealing the huge size of loans granted to energy companies and many of these are facing the risk of default after the oil and natural gas price drops. To give a glimpse on this, reports reveal that $123 billion is the US banks’ loan portfolio to energy sector; EU banks are also engaged in such huge amounts that exceed $100 billion and in both areas significant portions of these loans are unfunded which makes the default risk to rise to alerting levels. Therefore, European banks are under pressure to raise capital ratios in order to offset troubled loans.   

At the end, the last decade shows that ambiguity is surrounding the power sector, and many structural changes have been happening due to stringent regulations, climate issue policies, and the economic downturns. However, policy makers have to be alert by concluding this article by the following questions:

  • 1- Is it the right time to penalize the power players for the market power exercised during the last decades?
  • 2- Are they really losing power, or they are just gaining power in another shape (in non-conventional generation market)?
  • 3- Are we heading to a power crisis in the near future? In which main power players to be acquired by their national governments?

 (3 gennaio 2018)

*Murad Harasheh, University of Milan-Bicocca. The views expressed herein are from the author’s perspective and do not necessarily reflect those of the institutions to which he belongs.

 

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