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ISSN 2532-8913

La separazione tra banche d’affari e banche commerciali tra ipotesi nazionale e realtà delle scelte sovranazionali. (Parte Prima) (di Michele Cossa)

Da qualche mese è disponibile la versione italiana di Realismo capitalista, una delle opere principali di Mark Fisher, filosofo e critico culturale inglese scomparso ad inizio 2017[1]. Una delle argomentazioni più interessanti che Fisher utilizza per sviluppare la sua analisi (che, sintetizzate in modo ingeneroso verso la ricchezza dell’opera in questione, qui in alcun modo sfiorabile, si rivolge all’affermazione del sistema capitalista come sistema “necessario” ed insuscettibile di alternativa) è quella secondo cui la risposta alla grande crisi bancaria del 2008 (rectius: iniziata nel 2008) non sia scaturita da una analisi profonda, ed eventualmente da una revisione critica dei fondamenti stessi del sistema economico-finanziario esistente, insomma da un ripensamento delle scelte fondamentali. Piuttosto, si è trattato di una serie di interventi – non sempre coordinati tra di loro, si aggiungerebbe, almeno avendo riguardo alla realtà europea – che miravano a correggere, migliorare, potenziare gli strumenti vigenti, rafforzandone l’efficacia e cercando di porre rimedio alle storture più evidenti emerse nella crisi, ovvero quelle che la avevano generata nel concreto o, per lo meno, avevano contribuito a renderne tanto devastanti ed invasivi gli effetti.

Fisher non era un esperto del settore bancario – o, in ogni caso, non era quello il suo terreno di elezione – ma, a dieci anni di distanza dell’erompere di una delle più violente crisi finanziarie della storia moderna, è difficile, sia pure in termini oggettivi e senza alcuna volontà di formulare giudizi di valore, smentire questa tesi. Eppure, almeno nell’immediato, la storia sembrava poter andare diversamente. Quante volte, nel periodo successivo all’inizio della contingenza negativa, si è sentito sbandierare su giornali più o meno specializzati, il richiamo alle banche di “tornare a fare le banche”? Fuori dagli slogan e dalle riduzioni giornalistiche, e molto semplificando, l’idea sottesa a questi inviti sembrava essere quella di una contenimento, o anche di un divieto, per la banche commerciali di svolgere attività diverse da quelle tradizionali, ed in particolare attività di investimento. D’altronde, il germe della crisi allignava, come noto, in fenomeni speculativi degli istituti creditizi, culminati con l’esplosione della bolla nel mercato immobiliare statunitense. Ed è stato il collasso di una delle più grandi banche di investimento del mondo, Lehman Brothers, fortemente esposta sul mercato dei titoli cartolarizzati incorporanti mutui subprime, protagonista della più grande bancarotta della storia, ad aver trasformato, secondo moltissima, una turbolenza ancora contenibile in una gravissima crisi “sistemica”, propagatasi a macchia d’olio anche in paesi i cui intermediari erano stati ben meno aggressivi sui mercati finanziari.

Peraltro, nihil sub sole novi; la storia è nota e qui se ne seguirà la cadenza in modo necessariamente sintetico. A seguito della crisi del ’29, negli Stati Uniti è stato varato il cd. Glass-Steagall Act il cui contenuto qualificante era proprio quello della separazione tra le banche che svolgevano attività bancaria tradizionale (raccolta di depositi, erogazione di crediti) e quelle di investimento, che invece operavano sui mercati finanziari e da essi traevano i propri profitti. La ratio è chiara: evitare che i fondi raccolti presso la clientela al dettaglio venissero investiti (e persi, nell’eventualità) in attività speculative, la cui promessa di alti guadagni si accompagnava ad un altrettanto forte, se non maggiore, rischio di perdite.

Il legislatore italiano non fu da meno. La legge bancaria del 1936 risente di analoga visione del mondo, quella in cui ogni attività economica è sottoposta al controllo pubblico, affinché sia orientato ai generali obiettivi imposti dall’autorità governativa; nonché di un clima di significativa diffidenza nei confronti del mercato.

La vigilanza nasce quindi come “strutturale”, ovvero incidente sulla struttura delle banche e del mercato. Essa trovava i principali riflessi nei limiti all’accesso, nei vincoli alla specializzazione operativa, in alcuni divieti. Lo strumento cardine era l’autorizzazione, il provvedimento amministrativo che permette un vaglio preventivo e discrezionale all’autorità pubblica. Dal punto di vista dei soggetti, a cristallizzazione di una situazione precedente, i principi erano quelli della pluralità di soggetti e quello, connesso, della specializzazione riguardo le attività permesse. Questo significa che il mercato del credito era popolato da una serie di soggetti diversi, alcuni a matrice pubblicistica, altri a matrice privatistica. La frammentazione operativa si concretizzava nella distinzione generale tra aziende di credito, cui era rimessa l’attività ordinaria, e istituti di credito (che non potevano raccogliere depositi a vista e potevano erogare credito solo a lunga durata). Anche se erano presenti banche a proprietà privata, fortissima era la presenza di soggetti pubblici nel settore (istituti di diritto pubblico, banche di interesse nazionale). L’articolato sistema di riserve segregava settori di attività, sostanzialmente li rimetteva a pochi particolari soggetti, e, pur rispondendo alle esigenze di stabilità, finiva per contenere in modo incisivo la concorrenza tra gli operatori. Il tutto, con il contributo rilevantissimo delle stesse autorità di vigilanza, che hanno usato per lungo tempo un metro estremamente restrittivo nel permettere l’accesso al mercato e nel concedere aperture di nuovi sportelli[2].

Quella legge, ben lungi dal mostrarsi esclusivo precipitato della temperie politico-ideologica in cui è stata partorita, ha trovato albergo anche sotto il nuovo quadro costituzionale, governando il mercato del credito italiano per quasi 60 anni. Non ha potuto evitare, come naturale, crisi di intermediari creditizi, in alcuni casi anche rilevanti, ma ha comunque fornito validi strumenti per la supervisione bancaria. Con ciò probabilmente dimostrando che una vigilanza di natura “strutturale” è compatibile anche con il perseguimento per obiettivi endogeni al mercato, ovvero può essere utilizzata anche raggiungere la stabilità e la sana prudente gestione degli intermediari, e non obiettivi di politica economica eteroimposti.

Ed infatti tale sistema, come si diceva, è venuto a cadere non nel 1945, ma molto tempo dopo, sotto i colpi, principalmente, dell’integrazione europea, dell’innovazione finanziaria e della competizione internazionale. L’apertura delle frontiere ha spezzato il disegno di parcellizzazione dei singoli settori del mercato bancario ed ha imposto di confrontarsi con intermediari caratterizzati da un funzionamento snello, improntato a logiche schiettamente imprenditoriali e, se vogliamo, da una maggiore aggressività sul mercato. L’apertura del mercato comune, inoltre, ha imposto una forte tendenza all’uniformazione degli ordinamenti, allo scopo, principalmente, di evitare fenomeni di arbitraggio regolamentare. La stessa, continua, innovazione finanziaria ha richiesto moduli operativi più moderni ed in grado di sfruttare le indubbie opportunità che progressivamente vengono aprendosi. Né è derivata un’istanza di semplificazione strutturale e organizzativa e una spinta propulsiva verso un ampliamento a vasto raggio dell’operatività, che uscisse dai canali tradizionali alla ricerca di nuove occasioni di redditività. Si viene quindi affermando il modello della banca universale (ovvero la banca che, oltre all’attività bancaria tradizionale, può svolgere ogni altra attività finanziaria, art. 10 co. 3), alternativo a quello del gruppo polifunzionale, in una competizione paritaria assicurata dal principio dell’indifferenza della regolazione, che rimette la scelta della soluzione organizzativa alle autonomie strategie degli intermediari e cura di non penalizzare o favorire l’una o l’altra opzione. Ovviamente il punto di svolta del processo è la privatizzazione del sistema bancario, avviata ad inizio anni ’90, in cui gli enti creditizi pubblici, con un processo complesso e non privo di asperità sono stati trasformati in società per azioni private. Oggi le banche sono appunto società private, che esercitano attività di impresa ai sensi del codice civile, regolate dalle norme del diritto commerciale salve le (sempre maggiori) deroghe imposte, per la particolare attività svolta, dalla disciplina bancaria e finanziaria.

Che tipo di vigilanza si è affermata in questo sistema? Quella che possiamo definire la vigilanza per obiettivi[3].

Dagli anni ottanta gli strumenti di vigilanza sugli intermediari bancari hanno subito cambiamenti rilevanti. Il modello è quello in cui gli obiettivi delle autorità sono definiti in modo univoco e sono necessariamente interni all’impresa bancaria e ai mercati. Non c’è alcuna volontà di conformare il mercato secondo un precostituito disegno di politica economica, ma il tentativo è quello di rimediare ai fisiologici fallimenti del mercato stesso, al contempo non creando una sovrastruttura onerosa di controlli, che sia fonte di inefficienze. Si veda l’articolo 5 del Testo Unico Bancario: “Le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presente decreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all'efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all'osservanza delle disposizioni in materia creditizia”. Obiettivi endogeni al mercato e che dovrebbero rappresentare in realtà condizioni essenziali di ogni attività economica: la stabilità, l’efficienza, la competitività. Manca del tutto ogni riferimento a finalità esterne, fissate in sede politica e mediate dalla contingenza delle ideologie prevalenti.

La vigilanza si orienta su una regolamentazione aperta, flessibile, per obiettivi, non su divieti e limiti preventivi. Viene valorizzata l’autonomia degli intermediari, cui è rimessa una libertà d’azione nella scelta delle strategie migliori contemperare la ricerca del profitto con la realizzazione degli obiettivi di interesse generale. La supervisione “prudenziale” non si sostituisce al mercato, ne corregge gli errori e pertanto l’intervento pubblico è limitato secondo il canone fondamentale della proporzionalità, non può in alcun modo eccedere le ragioni per cui è posto. Oltre, lo spazio è quello dell’autonomia dell’attività imprenditoriale. Ma se è così, anche gli strumenti della vigilanza vengono a cambiare; i controlli strutturali si attenuano in modo evidente e perdono perso gran parte della loro precedente importanza. In tal senso, si ricorda, in primo luogo, l’evoluzione della disciplina relativa all’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e all’apertura di sportelli. Attraverso la limitazione della discrezionalità delle autorità di vigilanza in queste materie è stata accresciuta la possibilità di accesso al mercato e di espansione territoriale delle banche. La prima direttiva banche (77/780/CEE) stabiliva che le autorità creditizie di ciascun paese, nel valutare le domande di costituzione di enti creditizi, non potessero tenere conto del bisogno economico del mercato. L’art. 15 del TUB decreta oggi l’autonomia incomprimibile (almeno in principio e salvi i poteri dell’Autorità di vigilanza) delle banche nella scelta della propria articolazione territoriale. Cadono i pilastri del sistema precedente (ad es. specializzazione temporale, vincoli di portafoglio…); dopo non molto cade anche il tradizionale presidio, formulato in via assoluta e preventiva, della separatezza banca-industria. L’attività di vigilanza si esplica nella regolazione per obiettivi e negli incentivi all’adozione di pratiche di gestioni ricalcate sulle migliori riscontrabili sul mercato (le cd. best practices, che si chiede informino le scelte gestionali dei soggetti vigilati, integrandone un parametro di confronto essenziale); l’Autorità di controllo si limita ad un’attività di verifica ex post, salvo i residui casi in cui la necessità di correggere i fallimenti di mercato più rilevanti non imponga al legislatore una disciplina più incisiva e rigorosa. Tra i tipici strumenti della vigilanza prudenziale figurano i coefficienti patrimoniali, ovvero requisiti costruiti sulla relazione tra l’ammontare dei fondi della banca e i rischi che questa assume nella propria attività: la banca deve mantenere un determinato ammontare di risorse proprie, con determinate caratteristiche, per fronteggiare le eventuali perdite derivanti dall’attività svolta.

In questo direzione, peraltro conduce non solo la normativa europea, ma, e forse ancora prima, anche il soft law sovranazionale, quello cioè elaborato nei più importanti fora mondiali, primo tra tutti il Comitato di Basilea, costituito nell’ambito della Banca dei Regolamenti Internazionali e deputato alla formulazione di approcci, linee guida, standard, per il coordinamento delle legislazioni e delle prassi nazionali. Il trend, d’altronde, è mondiale; è la cd. deregulation attrae in massima parte di paesi anglosassoni, con in testa gli USA, dove, nel 1999, anche il glorioso Glass-Steagall Act, sopravvissuto ad oltre 60 anni di servizio, cede il passo e viene definitivamente abrogato. Poi, come detto, sopraggiunge la crisi, e con essa i richiami al passato che fu e al ritorno delle banche nel loro alveo originario. Che questi richiami siano stati accolti, tuttavia, è veramente difficile da sostenere. E la vicenda del Regolamento UE 2014/43, che costituisce oggetto della seconda parte di questo intervento, è in questo senso paradigmatica. (SEGUE)

(16 aprile 2018)

 

[1] M.FISHER, Realismo capitalista, Ed. Produzioni Nero, ed. it. 2018.

[2] Sarebbe ovviamente utopico proporre una bibliografia completa degli Autori che hanno studiato la storia della legislazione bancaria italiana. Si rimanda per comodità al volume curato da E.GALANTI, Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Padova, 2008, spec. Cap. I (a cura di E.GALANTI) e Cap. V (a cura di G.ARTALE – L.CRISCUOLO – P.PANICO); a R.COSTI, L’ordinamento bancario, Bologna 2012, spec. Cap. I; e soprattutto al volume a cura di E. GALANTI – R.D’AMBROSIO – GUCCIONE, Storia della legislazione bancaria, finanziaria e assicurativa dall’Unità d’Italia al 2012, in Collana storica della Banca d’Italia, Venezia, 2012, con particolare alla parte I (Banche), curata ancora da E.GALANTI.

[3] Su tutto quanto segue, cfr. i il Cap. IX (La vigilanza sulle banche; a cura D. ALBAMONTE, R. BASSO, D. CAPONE, M. MARANGONI) in Diritto delle banche cit.

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