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ISSN 2532-8913

Mercato vitivinicolo e distretti culturali. Intervista a Enrico Viglierchio (Banfi S.r.l.) (di Simone Lucattini)

Mercato vitivinicolo e distretti culturali. Intervista a Enrico Viglierchio (Banfi S.r.l.)

di Simone Lucattini

Nel più puro spirito de "Il Merito. Pratica per lo sviluppo" c’interessa guardare la realtà "dal basso", dal caso concreto. Piedi per terra. E qui – è proprio il caso di dirlo – terra e territorio sono alla base di tutto. Si parla di eccellenze del vino. Ne parliamo con Enrico Viglierchio, presidente e amministratore delegato di Banfi S.r.l., la più grande cantina vinicola di Montalcino con 2.830 ettari di vigneto. Banfi S.r.l. è stata una delle promotrici del marchio Brunello nel mondo, aprendo il mercato USA e puntando, per prima, sull’incoming sviluppando un progetto di accoglienza di alto livello sul territorio.

  • La nostra Rivista è sempre attenta ai percorsi professionali e di carriera di chi riesce ad arrivare al vertice di importanti realtà imprenditoriali del nostro Paese. Ci racconti la sua storia.

 

Nato a Savona il 3 Dicembre 1965, ho fatto tutti i miei studi in Liguria e mi sono laureato in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Genova nel 1990. Dal 1990 al 1998 ho poi maturato un’esperienza variegata presso la 3M Italia, inizialmente come Controller per finire come Responsabile Unità Produttiva dei Prodotti Fotografici di Ferrania (SV). Dall’agosto del 1998 sono entrato in Banfi prima come Responsabile della Cantina di Strevi (Alessandria) e dal gennaio 2001 ricopro la posizione di Direttore Generale – Amministratore Delegato di Banfi.

  • Ecco, la prima cosa che mi viene in mente quando sento "Banfi" sono Montalcino, Siena e il loro territorio che sembrano davvero possedere tutti gli elementi per costituire un forte distretto culturale: un ricco tessuto socio-culturale e ambientale da cui far partire l'integrazione delle risorse, dei servizi di accoglienza e di fruizione, dei centri di competenza e di ricerca, delle filiere dei prodotti tipici e artigianali …

 

Il vino è prodotto ma allo stesso tempo storia, sapere, scienza … cultura! Montalcino ha in sé tutti gli elementi paesaggistici, storici e territoriali necessari, ed indispensabili, allo sviluppo di un Distretto Culturale di Eccellenza. Banfi ha, fin dalle origini, modellato il suo percorso di sviluppo e crescita legandosi in modo indissolubile e sinergico al territorio ed ai suoi elementi unici. Questo legame, costantemente alimentato e cresciuto nel tempo in modo biunivoco e sinergico, è alla base del percorso di Banfi in questi anni sia dal lato produttivo che di sviluppo dell’accoglienza, della ricerca, dell’innovazione e della comunicazione. Montalcino non è solo vino ma un modello di Distretto Agroalimentare ove il vino rappresenta la punta di diamante. Sicuramente in Italia abbiamo una pluralità di questi territori il cui sviluppo dipende in modo indissolubile dal matrimonio tra il territorio, ed i suoi elementi caratteristici, e gli attori preposti alla valorizzazione e comunicazione degli stessi.

  • Distretto culturale significa ottenere vantaggi di agglomerazione e di rete nei sistemi territoriali di offerta e consumo culturale. Significa quindi coordinamento dell’offerta, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale, promozione turistica, partnership pubblico-privato. Nessuna retorica, però. Non sempre la cultura porta crescita economica e, d’altronde, il distretto culturale non sempre è un successo (non pochi infatti sono i fallimenti: cfr. M. Nuccio - D. Ponzini, La cultura non cresce nel distretto, in lavoce.info del 18 agosto 2016). Buona regola è allora studiare i casi di successo, italiani e non. "Dalla teoria alla pratica", come auspica un recente studio sui distretti culturali (G.P. Barbetta - M. Cammelli - S. Della Torre, Distretti culturali: dalla teoria alla pratica, Bologna, Il Mulino, 2013). Ci vogliono visione di lungo periodo, progettualità, realismo (studi di fattibilità), e anche un’aspra selettività, da parte dei finanziatori, nella scelta dei progetti da portare avanti. Tutte caratteristiche non sempre appartenenti alla nostra classe dirigente ...

 

Il Distretto Culturale nasce in primis al suo interno, o meglio, il seme deve essere piantato dai suoi attori. Alcune volte il "big bang" è casuale in quando si verificano eventi che mettono in luce un potenziale sempre esistito ma mai portato alla luce: interesse da un imprenditore esterno, interesse giornalistico/mediatico, eventi socio/economici,... Da qui deve poi partire una progettualità di lungo termine per alimentare la fiamma e rendere il distretto sempre più autostenibile. Il ruolo del pubblico dovrebbe proprio essere quello di affiancare la progettualità e fornire le giuste risorse sia economiche che tecniche ed umane finalizzate alla crescita di esso con lo scopo di portarlo ad essere autosufficiente ed autoalimentante. Su quest’ultimo aspetto sono concentrate le maggiori criticità in quanto è estremamente difficile riuscire a costruire un dialogo ed un percorso condiviso pubblico-privato di lungo periodo evitando le scorciatoie e tenendo fermo l’obiettivo finale. Montalcino ritengo sia un esempio virtuoso e Banfi è sicuramente stata una delle primarie scintille che hanno contribuito ad innescare il big bang!

  • Guardando al mercato vitivinicolo, balza agli occhi come la maggior parte delle più prestigiose aziende vinicole italiane siano ormai di proprietà straniera. In questo modo non si corre il rischio di avere aziende avulse dal territorio di riferimento?

 

Domanda che, rivolta a Banfi, non può che avere una risposta: in Italia abbiamo una pluralità di aziende con proprietà di varia origine sia territoriale che di settore. Ritengo che la generalizzazione non sia opportuna. Più che l’origine della proprietà conta la motivazione con cui si investe in questo settore.

  • A proposito di investimenti, le aziende medio-piccole come possono affrontare i mercati internazionali che richiedono investimenti in marketing sempre crescenti e volumi di vendita significativi?

 

L’Italia ha una pluralità di micro, piccole e medie imprese nel settore vino maggiore di qualunque altra realtà. E, di conseguenza, un portafoglio prodotti estremamente diversificato e parcellizzato. Fattori che, se da un lato possono rappresentare un ostacolo da un punto di vista commerciale e di marketing, vanno però anche visti come un patrimonio immenso ed unico. Nel 2008 la Comunità Europea ha varato la misura OCM Vino – Promozione Paesi Terzi – allocando un budget importante per ogni stato membro finalizzato a progetti di sviluppo su paesi terzi. Tali misure vanno nella direzione di fornire strumenti adeguati a tutte le realtà del settore per supportare strategie di penetrazione e diversificazione commerciale nei vari mercati, attuali e potenziali, al di fuori del territorio comunitario. Misura che, nella spirito del legislatore, è volta a preservare e supportare il tessuto imprenditoriale del nostro paese dando l’opportunità alle realtà di minore dimensione di unirsi in ATI finalizzate all’export vitivinicolo.

  • In confronto ai nostri competitors, anche europei - la Francia soprattutto -, si ha però la sensazione di una maggiore coesione del sistema-Paese che sta alle spalle dei produttori. Condivide questa sensazione?

 

In parte condivisibile. Sicuramente l’Italia è un paese meno coeso della Francia e questo lo vediamo sotto vari aspetti sia economici che socio-culturali. Nel nostro settore dobbiamo anche tenere presente le differenze strutturali, territoriali e storiche che ne sono alla base e che rappresentano un forte elemento di differenziazione tra noi e la Francia. D’altro canto il demandare la competenza della Politica Agricola alle Regioni ha reso ancora più difficile una programmazione a livello nazionale di medio- lungo termine. Il ciclo produttivo del vigneto è di circa 30 anni e necessita di una visione di lungo termine e di regole stabili e certe, e forse è proprio qui che il nostro sistema pecca maggiormente.

  • E non solo nel settore vitivinicolo, mi permetto di aggiungere. Anche nel settore della viticoltura mi pare peraltro che il peso e i costi della la burocrazia siano sensibili …

 

Burocrazia e controlli non mancano, possiamo "fare scuola a tutti" su questo! E’ un problema di grande attualità, avvertito da tutta la nostra filiera produttiva ma dobbiamo anche sottolineare che un grande passo in avanti è stato fatto con l’approvazione della Legge 12 dicembre 2016, n. 238 relativa alla "Disciplina organica della coltivazione della vite e della produzione e del commercio del vino" (c.d. Testo Unico). Una legge che nasce da un lungo lavoro di stretta e costruttiva collaborazione tra la filiera ed il legislatore. Una norma finalizzata a raccordare in modo più organico molto della legislazione vigente ed a creare le premesse per una semplificazione della struttura e delle procedure di controllo volte a renderli più snelle ma allo stesso tempo più efficaci.

 

(28 febbraio 2017)

 

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Liberi da interessi. Il debito pubblico italiano spiegato ai bambini, ai ragazzi e anche ai loro genitori (di Stefano Borghi)

Liberi da interessi. Il debito pubblico italiano spiegato ai bambini, ai ragazzi e anche ai loro genitori

(di Stefano Borghi)

Sembrerebbe una notizia quasi irrilevante: “L'Italia ha perso la sua ultima A”. L'agenzia canadese Dbrs, la più piccola di quelle che si occupano di classificazione internazionale, ha infatti deciso il downgrade del nostro debito a BBB. La decisione segna il definitivo ingresso del nostro Paese in “seconda divisione”. Prima della Dbrs, la retrocessione era già stata sancita da Standard & Poor's (BBB-), Moody's (BAA2) e Fitch (BBB+). Il declassamento, scrive il Sole 24 Ore, “aumenterà la trattenuta che la Bce chiederà sui titoli di Stato italiani dati in pegno dalle banche quando chiedono liquidità” (tradotto, più interessi sul debito pubblico). Siamo sempre e ancora lì al “macigno” del debito pubblico, come lo ha definito l’ex commissario alla spending review Cottarelli nel suo fortunato libro. Inevitabile, date le sue dimensioni e i vincoli che crea per la nostra economia. Carlo Giordano e Luca Giovanni Piccione, con il recente Liberi da interessi (ed. Dissensi, 2016), ci offrono una visione eretica al problema del debito. Un saggio in forma di racconto. Mi ha molto incuriosito e ho voluto incontrare i due Autori. Entrambi sono appartenenti all’Albo Professionale degli Ethics Officer. Carlo ha estrazione legale e si interessa di finanza collaborativa, Luca si diverte a mescolare le sue competenze bancarie con gli spunti offerti dall’informatica e dalla psicologia.

Come è nata l’idea del libro?

L’ideologia vincente è quella che non si vede. Quella che ti fa agire, senza pensare. Senza pensare che qualcosa che sembra naturale in realtà naturale non è. Gli interessi, come il denaro, non sono una legge di natura. Liberi da interessi prende spunto da questa prospettiva. Una prospettiva che genera un pensiero semplice. Semplice ma allo stesso tempo estremamente difficile da confutare.

Perché parlare di debito pubblico, tasse e tassi di interesse?

Milioni di persone hanno difficoltà a vivere una vita dignitosa. Milioni di giovani hanno difficoltà a trovare un lavoro. Milioni di normali cittadini devono attendere mesi, anche anni, per determinate prestazioni sanitarie. Milioni di esseri umani pagano, in tutti i sensi, i miliardi di euro di interessi che ogni anno il nostro Stato deve versare come “rendimento” a chi gli ha prestato del denaro. Quando raccontiamo la storia del libro ai bambini delle scuole primarie e secondarie ci teniamo a spiegare che debito e tasse non sono parole cattive, se usate con moderazione. Diciamo loro che uno Stato raccoglie il denaro che serve per farlo funzionare tramite le tasse, ma può accadere che abbia bisogno di altro denaro per fare delle opere che servono a tutti noi cittadini. Quel denaro trova il suo rendimento nell’utilizzo che tutti noi facciamo delle opere realizzate dallo Stato.

La narrazione finanziaria - l’ideologia che il libro mette in discussione - rende felice chi percepisce gli interessi sui titoli di Stato, ma è profondamente disonesta perché omette due semplici concetti: gli interessi percepiti sono le tasse pagate (o, peggio ancora, altro debito, come accade in Italia da oltre venti anni dato che il nostro Paese è costantemente in avanzo primario); gli interessi sul debito pubblico aumentano la disuguaglianza economica e sociale, trasferendo ricchezza dai più poveri ai più ricchi (basta fare poche semplici operazioni matematiche per rendersene conto).

In Italia la lotta all’evasione fiscale esiste davvero?

Sicuramente si, ma la sua efficacia è legata a doppio filo con la politica. Le tecnologie di oggi consentono di governare le transazioni commerciali e di eseguire analisi economiche e finanziarie con modalità impensabili fino a qualche decennio fa. Se ci fosse la volontà di utilizzarle, forse il nostro debito pubblico non esisterebbe.

Come vedete il “Bel Paese” e l’Europa fra 5-10 anni?

In attesa. La politica monetaria della BCE ci ha dato del tempo per pensare e per agire. Per il momento abbiamo solo parlato. A vuoto. Il contesto regolamentare, economico e sociale non consente, formalmente, grandi rivoluzioni. Ma, praticamente, gli spazi ci sono. La nostra proposta va in quella direzione. La riduzione della finanza a vantaggio dell’economia può migliorare significativamente il benessere dei cittadini, attivando opportunità oggi inimmaginabili. E dando spazio alla democrazia, oggi soggiogata alle logiche finanziarie.

E’ più un problema di finanza o di differenze fiscali fra paese e paese europeo?

E’ un problema di finanza, solo di finanza.

Solita domanda “populista”: il problema è l’euro?

Per l’ideologia in essere, sicuramente si. Ma basta cambiare occhiali e ci si accorge che l’euro è una convenzione. E’ una misura. Le misure hanno un grande pregio, rendono confrontabili le cose. Ma restano misure e non è cambiando la misura che si diventa più onesti, più produttivi, più coscienti dell’importanza dell’istruzione di qualità, più attenti ad una giusta distribuzione delle risorse.

Non ho capito. Potete spiegarmi meglio?

Se domani mattina ritornassimo alla Lira l’evasione fiscale resterebbe la stessa (forse peggio), la corruzione continuerebbe ad agire indisturbata, le nostre aziende non diventerebbero più produttive (il rapporto tra il PIL prodotto e le ore lavorate non cambierebbe) e non è detto che diventino più competitive, gli investimenti in termini di risorse economiche e in termini di qualità nell’istruzione non si modificherebbero ecc. Non è cambiando la modalità di denominare il valore di un oggetto o di un servizio che si risolvono i problemi del nostro Paese. Anzi (pensiamo a quale mostro diventerebbe il nostro debito pubblico e i relativi interessi).

Cosa pensate della crisi bancaria. Da dove ha origine, come si è sviluppata e dove ci sta portando?

Le banche, nella loro accezione più tradizionale, fanno essenzialmente due cose: trasferiscono valore che esiste (sono i notai del denaro) e trasferiscono valore che esisterà (sono i notai del credito). Oggi trasferire il valore che esiste è una attività molto banale perché si sostanzia nel trasferire informazioni da un archivio ad un altro (ce ne stiamo accorgendo sempre di più grazie alle straordinarie evoluzioni della tecnologia). Trasferire il valore che esisterà è invece qualcosa di molto più complicato, perché introduce un elemento intangibile: la fiducia. E’ la fiducia tradita che rompe le relazioni sociali, incluse quelle economiche. Se chi ha ottenuto credito ha trasformato quella fiducia solo in valore per se stesso e non per la società in cui è inserito, allora la crisi è inevitabile e inarrestabile. Non è una crisi bancaria, è una crisi morale e come tale va affrontata.

L’occhio di riguardo tenuto per il sistema bancario dai nostri regolatori quali ripercussioni può avere per le generazioni future?

Ripartiamo dalla risposta precedente. Ci si deve rendere conto che 1 euro ricevuto a credito è un segno della fiducia che la società, tutta, in cui viviamo e operiamo ci concede. Se i nostri regolatori saranno in grado di presentare la situazione in questi termini, allora le ripercussioni non potranno che essere positive. Se invece continueranno a rafforzare l’ideologia corrente, allora non potrà esservi altro che un continuo aumento dell’insofferenza verso questo tipo di istituzioni e il perpetuarsi di logiche opportunistiche e di breve periodo.

Cosa pensate dell’attuale politica monetaria europea a tasso “sotto zero”; è un processo meramente di politica economica o è un preludio a qualcosa di diverso?

La BCE ci ha fatto un gran bel regalo. Ha ammesso che il denaro si può distruggere da solo o quantomeno non moltiplicarsi per convenzione. Noi abbiamo donato una copia del nostro libro al Governatore della BCE ringraziandolo per aver dato avvio ad un progetto che adesso vorremmo far continuare a tutti i cittadini italiani. Purtroppo siamo coscienti che quanto avvenuto fino adesso segue le tradizionali logiche di politica monetaria, perché se fosse un preludio a qualcosa di diverso potrebbe voler dire che la BCE dopo aver messo in discussione il concetto di denaro mette in discussione anche se stessa. Se il denaro è una convenzione, se l’euro è una misura, se l’interesse non esiste più, se la fiducia può essere trasferita senza intermediari istituzionali, se l’inflazione non deve sempre crescere per forza allora perché tenersi le banche centrali?

Da strateghi di politica economica a semplici supervisori: vigili urbani impegnati a regolare e rendere fluidi i flussi economici; un bel salto.

Che Italia e che società stiamo lasciando alle nuove generazioni?

Rispondiamo con tre aggettivi: povera (non solo economicamente), disattenta (nei riguardi dei veri problemi), priva di memoria (fondamentale per poter cambiare).

Si parla tanto di FinTech cosa ne pensate in un contesto come quello che stiamo vivendo? Porterà vantaggi o svantaggi all’attuale sistema economico?

Qualsiasi iniziativa che favorisca la circolazione delle informazioni porta dei vantaggi, se tali informazioni possono essere liberamente – non necessariamente gratuitamente – utilizzate o meno da ogni singolo cittadino.

Da dove deve partire il cambiamento? Vedete all’orizzonte un game changer?

Il cambiamento deve partire da noi stessi, dal nostro comportamento. In “Liberi da interessi” proponiamo la nostra soluzione per produrre, partendo dal debito pubblico, quel cambiamento che si ripercuote sull’economia e quindi sulla società. Una storia raccontata mille volte diventa realtà. Noi ci auguriamo che gli italiani raggiungano il livello necessario di pensiero critico per comprendere che la realtà non è, quasi mai, una sola. Poi ci sono altre iniziative più piccole e concrete, per esempio abbiamo fondato due comunità che fanno al proprio interno piccoli prestiti senza interessi.

Potete dirmi di più?

Quando si propone una nuova visione, bisogna anche verificarla, se no resta astratta. Quando abbiamo avviato questo progetto nel 2012 con AssoEtica, uno di noi (Luca) ha iniziato col restituire gli interessi dei propri BTp, l’altro (Carlo) che non aveva BTp ha iniziato col fare un versamento simbolico sul conto per l’ammortamento del debito pubblico (http://www.btpzerointeressi.it/ - https://www.facebook.com/zerointeressi/). Poi attraverso Associazione delle Comunità AutoFinanziate Italia (http://www.acafitalia.it/), abbiamo condiviso con altri e dato vita a due esperienze di microcredito informale libero da interessi che sta sopravvivendo e sta pure evolvendo. Perché ogni nuova visione deve avere una risposta a domande del tipo: Cosa sono disposto a fare per realizzarla? Che esperimenti posso fare per iniziare?

A tal riguardo proponete di restituire gli interessi provenienti da acquisti di debito pubblico; dico bene?

Non esattamente. Quello che vogliamo mettere in luce è che l’interesse che viene percepito quando si sottoscrive un titolo di Stato non è un interesse finanziario percentuale annuo ma è un interesse economico assoluto giornaliero: una scuola, un ponte, un ospedale, un progetto energetico ecc. Considerando che da oltre venti anni il nostro Stato è in avanzo primario (le tasse che paghiamo in più rispetto ai servizi che riceviamo servono a corrispondere gli interessi sul debito pubblico), il nostro debito continua a crescere solo ed esclusivamente per effetto degli interessi. Basterebbe iniziare emettendo a tasso zero il nuovo debito che serve solo ed esclusivamente a pagare gli interessi sul debito pregresso. Non è difficile.

Che ruolo hanno i mezzi di comunicazione di massa nella percezione che si ha generalmente del mondo dell’economia?

Giro la domanda: il mondo dell’economia è quello che ci raccontano o quello che viviamo tutti i giorni? Bisogna esserci, fare degli esperimenti, rischiare, tentare, verificare, solo così si percepisce e si crea il mondo dell’economia reale.

Veniamo più nello specifico al libro: perché scrivere una sorta di fiaba?

Il linguaggio fiabesco o mitico è quello delle fondamenta dell’etica e della morale, bastano poche immagini per capire che mondo viene dipinto, verso quale futuro porta e che prospettive ci sono per gli esseri umani. Con un saggio o un trattato si può sostenere di tutto, provateci con una fiaba.

Nel libro si caratterizza il sistema Paese come una grande famiglia; azzeccata come assonanza, ma ardita come assunzione. Come lo spieghereste ai banchieri d’assalto che imperversano nel sistema economico?

Non c’è niente da spiegare, guardate nella vostra famiglia. Siete tutti consapevoli, maturi e responsabili allo stesso modo? È la stessa cosa, più in grande. Se vi può aiutare usate le persone della vostra famiglia come nomi degli insiemi a cui abbinare per assonanza dei gruppi sociali. Dalla persona più vicina e amata fino al ramo della famiglia con cui siete in causa.

Definite il tasso di interesse come un mostro che si mangia i risparmi è molto forte (diciamo pure anche molto azzeccato), ma provocatoriamente ed economicamente parlando, non lo vedete come una mera espressione del rischio che deve essere ripagato a chi presta capitali ad un sistema non del tutto trasparente e solido?

Forse questa domanda ha più attinenza con il credito erogato a soggetti privati. In ogni caso se l’interesse servisse per tutelarsi dal rischio, tipo un deposito cauzionale allora, una volta onorato il debito e coperte le spese, perché non restituire la somma eccedente?

Non vedete più un problema di credibilità (quindi di rischio) nel sistema attuale rispetto ad un problema concettuale come quello di azzeramento del tasso per emissioni pubbliche?

Questione interessante, non si vede però come un tasso positivo possa favorire un recupero di credibilità. È plausibile invece che un tasso zero possa liberare nuove risorse a tutti i livelli.

Perché “impaurire” le generazioni future?

I “cattivi” esistono. Quello che noi vogliamo alimentare è la consapevolezza per riconoscerli e il coraggio per affrontarli. Specialmente quando il cattivo di turno è una nostra convinzione o peggio un automatismo.

Quale impatto vi aspettereste da una scolaresca che si interessasse a questi problemi definiamoli pure “più grandi di loro”?

Non lo sappiamo, siamo curiosi di vedere cosa può succedere.

Quale, secondo voi, può essere la reazione di economisti o accademici che da metà dell’800 è abituato a ragionare sul concetto di tasso d’interesse come l’incentivo a prestare oggi per incassare domani?

La reazione più plausibile è il rifiuto per vivere tranquillamente gli ultimi anni di carriera o di pensione. Per chi ha invece più energie sarà uno stimolo interessante.

Liberi da interessi” parla ai bambini. Magari qualcuno di loro, da grande, diventerà un docente universitario, un economista, un banchiere centrale (se esisteranno ancora), si ricorderà di questo piccolo libro e deciderà di ripensare l’intero modello cancellando da ogni equazione la lettera “i”. Ovviamente noi confidiamo che non si debba aspettare tutto questo tempo per raccogliere questa sfida. Se ad esempio ci fosse qualcuno dei vostri lettori – i lettori de Il Merito. Pratica per lo sviluppo – interessato a raccoglierla, saremmo molto felici di poter lavorare insieme a qualcosa di veramente nuovo.

 

30 gennaio 2017

 

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Esponenti di intermediari bancari: verso un "merito imposto"? (di Michele Cossa)

Esponenti di intermediari bancari: verso un “merito imposto”?

di Michele Cossa*

 

 

La governance degli intermediari bancari ha acquisito progressiva importanza nel quadro della vigilanza prudenziale, gradualmente guadagnando un ruolo di pari dignità rispetto agli aspetti qualitativi, tradizionali in tale tipo di controllo pubblico. L’affermarsi del modello di “vigilanza per obiettivi”, propugnato da Basilea, ha responsabilizzato le élite gestionali delle banche non più tenute, salvo rari casi, a munirsi della preventiva autorizzazione dell’Autorità di vigilanza, quanto piuttosto a raggiungere gli obiettivi dalla stessa fissati, con discrezionalità e autonomia rispetto agli strumenti strategici e gestionali da utilizzare in vista di tali finalità. E’ questo uno dei portati più importanti dell’apertura delle frontiere e dei mercati, dello sviluppo della concorrenza, del processo secolare di regresso, almeno parziale, dello Stato capitalista anche da quei settori dell’economia dove pure preminenti finalità di carattere pubblico hanno sempre consigliato una pervasiva presenza pubblica. Il presupposto del flessibile modello per obiettivi, oltre che una normazione più soft che hard, fenomeno molto evidente più negli Stati anglosassoni che nell’Europa continentale, è un’ampia apertura di credito verso il mercato, da correggere con interventi mirati ma da non imbrigliare, per quanto possibile, ex ante.

Il reality check, almeno delle più ottimistiche o estremistiche versioni di questi fondamenti teorici, è stata la crisi economica che ha squassato l’intera economia mondiale a partire dalla seconda metà dello scorso decennio. Per quanto l’analisi delle cause della crisi non sia forse ancora terminata, e soprattutto di una pluralità di eventi eziologici debba parlarsi, è abbastanza indubbio che a fronte di comportamenti fortemente deficitari, quando non del tutto opportunistici e fraudolenti, degli esponenti di intermediari creditizi, la legislazione dei vari Paesi non ha quasi mai fornito immediatamente ai supervisori strumenti efficaci ed organici per reagire. A questo si è cercato negli ultimi di anni di porre rimedio, con un ampio programma di riforma della regolazione bancaria. Il tema è quello della “ripositivizzazione” – si passi questo neologismo a fronte del non più accattivante “re-regulation” che si legge nella pubblicistica straniera – del settore finanziario. La norma positiva torna ad occupare zone grigie prima spesso lasciate alla disciplina morbida di atti non vincolanti o alla fluidità della prassi.

In questa temperie, come anticipato, l’emergere dell’attenzione per la governance bancaria è stato prepotente. Normatori internazionali e nazionali hanno realizzato definitivamente che in una disciplina di vigilanza imperniata sul concetto di rischio, la previsione, più o meno articolata e complessa, di aggregati patrimoniali in funzione precauzionale non può mettere in ombra la valutazione, e il controllo nel continuo, di funzioni e presidi che i rischi dovrebbero individuare, gestire, monitorare, ridurre. Da qui la dettagliatissima disciplina dei controlli interni delle banche; le regole sulla composizione e il funzionamento degli organi sociali, che introducono deroghe di diritto comune talmente forti che ormai la dottrina si interroga sull’esistenza di un diritto commerciale speciale per i soggetti del settore finanziario, banche in primis; i limiti e i vincoli alla remunerazione dei soggetti apicali delle banche; e si potrebbe continuare. Il tema è vasto, ed oggetto di crescente attenzione anche da parte della dottrina; non è qui possibile esaminarlo in profondità.

Ci si vuole piuttosto concentrare su due aspetti, attinenti all’attività (principalmente, ma non solo), dei componenti degli organi di amministrazione e controllo, ove l’addentrarsi della disciplina di vigilanza in ambiti che da tempo le sembravano preclusi appare significativo proprio in relazione al tema della Rivista che ospita questa breve riflessione. Il riferimento è a un ambito disciplinare e a un potere; il primo, già esistente da tempo nel nostro (e in altri ordinamenti), che però nell’ultimo lustro trova sviluppi di vastità forse imprevedibile; il secondo, che rappresenta una novità quasi assoluta, e che sollecita una serie di interrogativi e di riflessioni. Si allude alla disciplina dei requisiti degli esponenti aziendali delle banche, da un lato; al potere di rimozione degli esponenti stessi, dall’altro. Accomunare questi aspetti nell’ambito di un’unica trattazione appare d’altronde quasi fisiologico, considerando che entrambi questi strumenti mirano a valutare la “qualità” del soggetto che siede negli organi sociali.

E’ appena il caso di notare che, nella società di diritto comunque, è considerata capitale espressione dell’autonomia negoziale dei soci, il loro diritto di scegliere, secondo il principio maggioritario, i soggetti deputati al perseguimento dell’oggetto sociale. Del pari, è sempre rimessa ai soci, ovvero a coloro che hanno effettuato un investimento economico nella società, la valutazione circa i risultati dell’attività di gestione e controllo e quindi in merito all’opportunità di mantenere o meno i soggetti nominati nelle responsabilità già attribuite loro. Questo spiega, ad esempio, le regole sulla nomina di amministratori e sindaci e lo sparuto novero di cause di ineleggibilità e decadenza previsto dall’art. 2382 c.c., limitato a situazioni macroscopiche (con facoltà però per lo statuto – comunque espressione di volontà dei soci – di prevedere requisiti più restrittivi); catalogo invero esteso per i sindaci, ma per lo sforzo del legislatore di garantire il più possibile imparzialità ed efficacia ad un organo di controllo che è ordinariamente espressione della stessa maggioranza che nomina i gestori (cfr. art. 2399 c.c.). Del pari, si spiega la revocabilità ad libitum degli amministratori, salvo il diritto al risarcimento dei danni in assenza di giusta causa.

Nelle società bancarie, l’erompere delle istanze pubblicistiche sottese alla tutela del risparmio complica il quadro. Innanzitutto, la presenza di requisiti di professionalità, onorabilità, indipendenza, dal codice civile rimessi alla previsione dell’autonomia statutaria, è obbligatoria per legge. Nella formulazione originaria del Testo Unico Bancario, all’imposizione dell’obbligo si accompagnava un’ampia delega alla normazione secondaria, rimessa però, a differenza che nella maggioranza delle ipotesi, non alla Banca d’Italia nelle vesti di autorità di regolazione, ma al Ministro dell’Economia. Tanto, sul presupposto che una disciplina che limitava l’esercizio di libertà anche di respiro costituzionale, pure soccombenti a fronte di interessi di pari rango, dovesse comunque essere specificata da una soggetto appartenente al circuito di legittimazione democratica. E il Ministro (si veda, per le banche, il d.m. n. 144/1998) si era attenuto ad una soluzione molto rigorosa e fortemente attenta all’autonomia dei soggetti interessati. Poche ipotesi sia per l’onorabilità (connesse alla condanna in via irrevocabile per una serie di reati a pena di entità definita; salvo la clausola generale che escludeva il requisito per condanna a due anni per qualsiasi delitto non colposo), sia per la professionalità (che faceva riferimento ad esperienze e competenze maturate in categorie nominate di impieghi e attività, per durata graduata a seconda dell’importanza dell’intermediario); nulla per l’indipendenza, per la quale ci si doveva rifare alle regole di diritto comune. Il sistema dunque era costruito sull’individuazione di una serie, contenuta, di situazioni, che ex ante il legislatore riteneva preclusive all’assunzione di una carica in un intermediario bancario. Situazioni agevolmente indagabili dall’organo di amministrazione, in prima battuta, e dalla Banca d’Italia, in seconda, in ossequio ad un sistema di valutazione a due step, il cui esito deteriore per l’interessato poteva essere la decadenza dalla carica.

Il quadro appena descritto, sedimentato da un’applicazione più che ventennale, è in via di rapido mutamento, sulle spinte dell’armonizzazione del rulebook europeo di vigilanza, che ha premiato le soluzioni meno “minimaliste” di ordinamenti meno diversi dal nostro. La fonte di riferimento non è tanto la Direttiva 2013/36, cd. CRDIV, che reca la disciplina sulla governance degli intermediari, quanto le Guidelines dell’Autorità Bancaria Europea, che hanno specificato il testo delle Direttive susseguitesi nel senso di suggerire (secondo però il modello comply or explain) una valutazione a tutto tondo, e a carattere fortemente discrezionale, della qualità del candidato esponente. Il nostro legislatore, pure non rinunciando alla tecnica del rinvio alla disciplina secondaria, sembra aver chiaramente recepito gli intendimenti europei, novellando, con il d.lgs. n. 72/2015, l’art. 26 TUB in senso estremamente innovativo per il nostro ordinamento. Rimangono i requisiti rigidi previgenti, ma fungono adesso da nocciolo duro non discrezionale di una valutazione che si ampia, e comprende ora i “criteri” di competenza e correttezza, che vanno a formare i canoni del giudizio di complessiva “idoneità” dell’esponente al fine di garantire la sana e prudente gestione della banca. Il decreto ministeriale di attuazione di tali criteri, previsto dall’art. 26, comma 3, non è ancora stato emanato; tuttavia la fuga dal circoscritto modello valutativo precedente è già chiara se solo si considerano le indicazioni con riferimento al criterio di “correttezza”, che fa riguardo “tra l’altro, alle relazioni d’affari dell’esponente, alle condotte tenute nei confronti delle autorità di vigilanza e alle sanzioni o misure correttive da queste irrogate, a provvedimenti restrittivi inerenti ad attività professionali svolte, nonché a ogni altro elemento suscettibile di incidere sulla correttezza dell’esponente”. Il breve catalogo, peraltro aperto, richiama le situazioni prese in considerazione dall’EBA nelle sue Guidelines, che spingono verso una valutazione complessiva della condotta del soggetto nei suoi rapporti professionali e d’affari, nonché ai suoi comportamenti in precedenti esperienze nel settore. E si vedano in particolare le Guidelines on the assessment of the suitability of members of the management body and key function holders del 2012, che ora sembrano in via di superamento, verso una disciplina ancora più analitica, stando almeno ad un documento messo in consultazione dall’Autorità nello scorso ottobre insieme alle altre due agenzie UE del settore finanziario (ESMA e EIOPA; tutti i documenti citati sono reperibili sul sito www.eba.europa.eu). Del pari, la professionalità, secondo l’EBA, si dovrebbe ampliare alla valutazione delle conoscenze teorico-pratiche dell’interessato, fino addirittura, forse (ma si attendono le scelte nazionali) a spingersi fino alle interviews che nei paesi anglosassoni le Autorità conducono per sondare conoscenze (ed in generale, per arricchire la valutazione con un contatto personale) del candidato. Che d’altronde la strada tracciata dall’EBA sia ormai inevitabile quella indicata, è testimoniato dalla presa di posizione della BCE, che ha pubblicato il mese scorso una Draft guide to fit and proper assessment (in www.ecb.europa.eu), nella quale sposa l’approccio “olistico” dell’EBA (proponendosi così di fissare criteri ampi sulla base dei quali svolgerà la propria valutazione sugli esponenti degli intermediari bancari da essa direttamente vigilati).

Le Autorità di vigilanza entrano dunque in modo estremamente penetrante nelle scelte della comunità sociale. Ovviamente, questo assessment si arricchisce anche di una inedita complessità, costringendo i supervisori ad un delicato giudizio prognostico circa la possibilità che vicende che hanno riguardato il soggetto al di fuori dell’incarico cui aspira possano influire sulla sana e prudente e gestione dell’intermediario. Sarà interessante, dunque, una volta completato il quadro normativo con l’emanazione della disciplina secondaria, valutare il governo che di tali regole verrà fatto dalle Autorità di Vigilanza e come queste si confronteranno con un onere motivazionale, che, in caso di decisione negativa, appare come il punto cruciale sul terreno della pratica attuazione della riforma.

Ma se la barriera all’accesso degli incarichi in intermediari bancari assume sempre più i caratteri di uno screening complessivo sull’attività passata e presente del soggetto, anche lo svolgimento della funzione, nel continuo, non sfugge oggi ad una valutazione incisiva e personalizzata. Un’altra rilevante novità del decreto n. 72/2015, poi modificata con i d.lgs. n. 180 e n. 181/2015 (di recepimento del quadro europeo di gestione delle crisi bancarie, cd. Direttiva BRRD), è infatti l’introduzione, per la prima volta, del potere di rimozione diretta, di autorità, di uno o più esponenti dell’intermediario creditizio (cd. removal).

Semplificando, il TUB prevede oggi due possibili provvedimenti di rimozione:

1) Si avrà innanzitutto un removal quando la permanenza in carica dell’esponente sia di pregiudizio alla sana e prudente gestione dell’ente (art. 53-bis TUB). La norma italiana, introdotta in sede di recepimento della CRD IV, è rimasta utile anche ad inglobare e a recepire il removal di cui all’art. 27 BRRD, previsto come “misura di intervento precoce” in una situazione di “pre-crisi” (esemplificando, “un rapido deterioramento” degli equilibri tecnici”).

2) Quindi, un removal necessariamente collettivo, residuale, perché ammesso solo quando altre misure di intervento precoce, tra le quali può trovare posto anche il removal individuale, non possano da sole porre rimedio alla situazione (artt. 69-octiesdecies e 69-vicies-semel). Il potere è attivabile al ricorrere degli stessi presupposti che giustificano l’amministrazione straordinaria (in attuazione dell’art. 28 BRRD): “gravi violazioni di disposizioni legislative, regolamentari o statutarie o gravi irregolarità nell’amministrazione ovvero quando il deterioramento della situazione della banca o del gruppo bancario sia particolarmente significativo”.

Ora, esula da questo intervento un’analisi dettagliata dell’istituto. Quel che interessa sottolineare è che, facendo seguito alle richieste della stessa Autorità di Vigilanza (DRAGHI, Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia sul 2009, in www.bancaditalia.it), adesso alla stessa è possibile far cessare dall’incarico uno o più esponenti aziendali dell’impresa vigilata anche in assenza di una violazione accertata e conclamata, ma sulla base di un giudizio prognostico che pure si innerva su quanto concretamente ha fatto l’interessato fin al momento. Le ipotesi composite sono varie: il removal individuale sembra pensato soprattutto, ma non solo, per fronteggiare le ipotesi di cd. “imperial CEO”, ovvero di indebito accentramento di potere nell’ambito dei processi decisionali da parte del soggetto investito di funzioni esecutive, o comunque da parte di soggetto che riesce, per ragioni di fatto, ad esercitare un’influenza determinante, anche larvata, sull’organo collegiale. Il removal collettivo, invece, nasce come alternativa alla amministrazione straordinaria, come strumento permesso all’Autorità allorché ritenga di avviare un profondo rinnovo nella conduzione dell’ente, ritenendo però che tale la stessa comunità dei soci possa realizzare tale discontinuità esprimendo i nuovi organi, senza che sia necessaria l’onerosa e penetrante soluzione del commissariamento.

Ma le ipotesi possono essere varie, e soprattutto la formulazione dell’art. 53-bis sembra attagliarsi a comprendere i molteplici esiti della realtà concreta; anche se tale flessibilità si riverbera in un complicato bilanciamento, case by case, tra i rilevanti interessi in gioco.

Si inserisce dunque una valutazione on going di merito, declinando però quest’ultimo concetto in senso funzionale al perseguimento degli interessi cui sono preposte le autorità pubbliche di vigilanza, ovvero la stabilità e solidità del sistema bancario (e, di riflesso, economico in generale). Anche in questo settore, dunque, la fiducia nelle capacità selettive del mercato ha ceduto il passo al conferimento di poteri di costante controllo sulle qualità personali e professionali di chi assume responsabilità di gestione e controllo, in modo da intercettare in ogni momento eventuali deficienze o anomalie, limitandone le refluenze sulla situazione dell’intermediario.

Resta da valutare se l’ampliamento dello spettro valutativo ex ante, ma esteso anche a vicende successive alla nomina, con l’allargarsi dei criteri di fitness e propriety fino a situazioni fluide e non definite, non finisca per sovrapporsi con lo stesso campo di applicazione dei poteri di rimozione. In sintesi il verificarsi, durante l’incarico, di vicende che mettono in dubbio la competenza o la correttezza dell’esponente dovrebbe dar luogo a valutazione ex art. 26 TUB o ex art. 53-bis TUB? Quest’ultima norma decide, nel senso della prevalenza della valutazione di fit and proper, ma i due poteri sono diversi, anche nella forma del provvedimento finale e situazioni di confine possono immaginarsi già in teoria.

Ma un tale problema applicativo non sembra che il risultato di un fenomeno ben più generale: l’empito disciplinatorio dei legislatori del mondo post-crisi si è tradotto nella previsione di uno strumentario di vigilanza talmente ricco che molti poteri appaiono coincidenti o sovrapponibili. Se ne risente la chiarezza delle categorie teoriche, prevale il risultato sostanzialistico di avere un’Autorità in grado di fronteggiare prontamente le vicende del settore vigilato.

* Le opinioni espresse non rappresentano né impegnano in alcun modo l’Istituzione di appartenenza: Banca d’Italia.

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