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ISSN 2532-8913

Il Merito e le Regole (di Fabio Bulgarelli e Marta Milan)

Il Merito e le Regole

(di Fabio Bulgarelli e Marta Milan)

 

Buone regole consentono la promozione della meritocrazia nel mercato, che significa avere aziende più efficienti in grado di offrire un servizio migliore ai consumatori, con livelli di qualità più alti e migliori prestazioni, a costi più convenienti.

Buone regole sono, in estrema sintesi, regole che tengano costantemente il passo dell’evoluzione tecnica ed economica, ma anche certe e stabili, in grado di coniugare, in un complesso (ma possibile) bilanciamento, crescita economica e salvaguardia dell’ambiente. Il settore dei servizi pubblici locali è un’area in cui buone regole possono effettivamente fare la differenza.

Nei servizi ‘a rete’, che necessitano di adeguate dotazioni infrastrutturali per garantire lo svolgimento delle attività di servizio pubblico, nei prossimi anni si giocherà una sfida importantissima per migliorare la sostenibilità ambientale, nel comparto idrico, in quello dei rifiuti così come in quello dei trasporti e dell’energia. Oggi più del 50% della popolazione mondiale vive nelle città e nel 2050 tale percentuale raggiungerà l’80%, passando da 3,5 miliardi a 7,7 miliardi di abitanti; nei centri urbani vengono prodotti il 50% dei rifiuti mondiali, la maggior parte delle emissioni di gas serra e il 75% di consumo delle risorse naturali.

Abbattere l’inquinamento, passare ad una mobilità più sostenibile, incentivare l’uso efficiente delle risorse, ridurre la produzione dei rifiuti, migliorare la tutela ambientale della risorsa idrica, sviluppare i principi dell’economia circolare: queste sono le principali linee di intervento per assicurare una migliore qualità delle vita nelle città per le generazioni attuali e future e, al tempo stesso, promuovere una crescita industriale ed economica del Paese ispirata ai principi della sostenibilità ambientale.

In quest’ottica, lo sviluppo della mobilità elettrica, che si integra perfettamente con la diffusione delle rinnovabili intermittenti (costituendo una sistema naturale di stoccaggio dell’elettricità), potrà dare un contributo fondamentale per abbattere drasticamente l’inquinamento urbano; parimenti anche la mobilità a gas metano, così come il passaggio a sistemi di riscaldamento più efficienti con caldaie a gas ad alta efficienza e pompe di calore, o, meglio ancora, sistemi di teleriscaldamento costituisce, ad oggi, l’unico modo per rendere le nostre città più pulite.

Peraltro, per l’Italia, Paese storicamente molto dipendente dalle importazione di risorse naturali, investire in tecnologie smart e intercettare a pieno e in maniera efficiente il potenziale delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica rappresenta un valore aggiunto rispetto alla riduzione delle emissioni; significa garantire, infatti, una maggiore sicurezza ed autosufficienza, con effetti positivi sulla bilancia dei pagamenti e dunque sull’economia e la competitività; significa, ancora, minore importazione di combustibili, maggiore indipendenza energetica, sicurezza e qualità ambientale. Significa, in definitiva, andare verso un Paese migliore e più forte economicamente.

In un simile contesto, definire regole efficaci vuol dire, essenzialmente, trasformare le sfide ambientali del futuro in opportunità di crescita economica per il Paese e in un volano per innovazione e investimenti.

Non mancano esempi di buone e, talvolta, anche ottime regole. Ad esempio, la regolazione delle reti di trasmissione e distribuzione di elettricità ha dimostrato di “funzionare” premiando merito ed efficienza: negli ultimi 15 anni sono stati realizzati oltre 25 miliardi di investimenti e vi è stato un innalzamento degli standard di qualità e della continuità del servizio a fronte di minori oneri per i consumatori (riduzione della durata delle interruzioni del 74% e diminuzione delle tariffe del 29 % in termini reali).

Nel settore idrico, dopo un lungo periodo di stasi, pochi anni di regolazione hanno stimolato la propensione agli investimenti, che sono aumentati del 14% dal 2011 al 2014; percentuale, questa, che sale al 30% al netto delle gestioni in economia.

Ancora sul fronte energetico, meccanismi competitivi per lo sviluppo di nuove rinnovabili hanno permesso di abbattere significativamente il costo dello sviluppo di queste iniziative rispetto a regimi precedenti, non basati su logiche di mercato.

D’alta parte, vi sono anche cattivi esempi di regolazione: come nel caso per di incentivi pubblici il cui livello è stato fissato in via amministrativa, senza ricorrere a meccanismi di mercato; o come in quei settori in cui mancano regole tese ad incentivare la qualità del servizio e meccanismi di premi e penali che consentano di promuovere l’efficienza. In tali comparti tutto è lasciato alla buona volontà dei singoli amministratori, con la conseguenza di determinare situazioni anche molto eterogenee tra diverse aree del territorio in termini di costo e qualità del servizio offerti ai cittadini. Ebbene, disporre di buone regole significa superare tale  frammentazione gestionale e disporre di misure che consentano di gestire (e prevenire) efficacemente emergenze e situazioni di crisi; capacità, questa, tanto più importante in settori in cui è fondamentale garantire la continuità del servizio (si pensi ai blackout energetici). Significa altresì ricercare un bilanciato equilibrio tra l’esigenza di definire regole sempre più efficaci per il perseguimento degli obiettivi che il policy maker si pone e l’altrettanto importante bisogno di stabilità regolatoria, necessaria per stimolare gli investimenti e assicurare una corretta e lungimirante pianificazione industriale.

Per realizzare gli obiettivi ambientali e assicurare al Paese una crescita sostenibile è dunque necessario tenere bene a mente le esperienze migliori di regolazione, a livello internazionale e intersettoriale, e non commettere gli errori del passato, definendo un sistema di incentivi adeguato ed un enforcement credibile. Premi e penalità funzionano, se ben disegnati. 

   (31 marzo 2016)

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Sul concetto di pratica commerciale nell’ordinamento comunitario e nell’ordinamento nazionale: considerazioni attuali alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia (di Cristiano Artizzu)

Sul concetto di pratica commerciale nell’ordinamento comunitario e nell’ordinamento nazionale: considerazioni attuali alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia

(di Cristiano Artizzu)

1.- Le previsioni della dir. 2005/29/Ce in materia di pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori

“Le pratiche commerciali sleali sono vietate”: così recita l’art. 5, primo comma, della dir. 2005/29/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio. Una pratica commerciale, posta in essere da un professionista, è sleale se è contraria alle norme di diligenza professionale e se falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio che essa raggiunge o al quale essa è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.

Non sono secondarie, per la comprensione della previsione ricordata, le definizioni formulate all’art. 2 della direttiva. E’ pratica commerciale, in accordo a tale disposizione, qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale, compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista e direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori. Per diligenza professionale deve invece intendersi – rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista - il normale grado della speciale competenza ed attenzione che ragionevolmente si può presumere che siano esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori. Una pratica commerciale non necessariamente assume le vesti di una dichiarazione negoziale: essa può consistere in un mero comportamento materiale o in una omissione.

Sono sleali le pratiche commerciali ingannevoli e le pratiche commerciali aggressive. Ai sensi dell’art. 6 della dir. 2005/29/Ce, è considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio - anche se l’informazione è di fatto corretta - riguardo ad uno o più elementi (si pensi all’esistenza o alla natura del prodotto o alle caratteristiche principali dello stesso) e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. L’art. 7, primo paragrafo, considera inoltre omissione ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induca o sia idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

E’ invece aggressiva, ai sensi dell’art.8, una pratica che, in concreto e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o un condizionamento indebito, limiti o sia idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto, e lo induca o sia idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Per decisione di natura commerciale deve intendersi, esemplificando, una decisione relativa a se acquistare o non acquistare un prodotto, a quali condizioni farlo, se tenere un prodotto o disfarsene o se esercitare un diritto contrattuale in relazione al prodotto stesso. In sintesi, tale decisione può condurre il consumatore a compiere un’azione oppure ad astenersi dal compierla.

Non sono rilevanti le caratteristiche della condotta del professionista: come ricordato, può trattarsi di dichiarazioni anche non negoziali, di comportamenti materiali privi di contenuto dichiarativo o di semplici omissioni; di condotte aventi come destinatari singoli consumatori o tenuti nei confronti della generalità dei soggetti. Può trattarsi, inoltre, di comunicazioni commerciali senza che sia necessariamente richiesta una diretta connessione con un rapporto contrattuale (G.De Cristofaro, La Direttiva 2005/29/CE. Contenuti, rationes, caratteristiche, in Le <<pratiche commerciali sleali>> tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, a cura di G.De Cristofaro, Torino, Giappichelli, 2007, pag. 8).

La correttezza “esprime il cuore della nozione di pratiche commerciali scorrette e permea di sé l’intera disciplina (F.Lucchesi, Pratiche commerciali scorrette: definizioni e ambito di applicazione (Artt. 18-19), in Contratto e responsabilità. Il contratto dei consumatori, dei turisti, dei clienti, degli investitori e delle imprese deboli. Oltre il consumatore, a cura di G.Vettori, Padova, Cedam, 2013, pag. 160). Essa è regola di condotta alla quale il professionista deve attenersi e canone rispetto al quale verrà valutata l’attenzione e la competenza del professionista stesso (F.Lucchesi, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 160 s.).

Ai fini della qualificazione della slealtà della pratica, rileva altrettanto significativamente la nozione di diligenza professionale: ai sensi della Direttiva, con tale espressione deve intendersi - rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista - il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori. E il principio della buona fede viene indicato quale criterio aggiuntivo e indipendente rispetto a quello – ambiguo, e scomparso nel recepimento nell’ordinamento italiano - delle pratiche di mercato oneste (G.De Cristofaro G., La nozione generale di pratica commerciale <<scorretta>>, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di G.De Cristofaro, Torino, Giappichelli, 2008, pag. 147): un criterio “idoneo ad imporre anche comportamenti che, in atto, sono diversi da tutte le pratiche di mercato esistenti, ma sono conformi ad un dovere di solidarietà che, nella specie, non può che essere solidarietà verso il consumatore” (M.Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, a cura di A.Genovese, Padova, Cedam, 2008, pag. 49), senza che il richiamo al ricordato principio possa comportare un rinvio al modo in cui esso è inteso e applicato dagli operatori del settore (M.Libertini, Clausola generale, cit., pag. 49).

2.- Le previsioni del Codice del consumo ed il concetto di pratica commerciale

Il recepimento della dir. 2005/29/Ce nell’ordinamento italiano, nell’ambito del Codice del consumo, ha comportato l’introduzione di un nuovo illecito, sanzionabile dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. La pratica commerciale scorretta rappresenta e sostanzia un illecito amministrativo senza che le nuove previsioni escludano, comunque, che la stessa possa costituire nel contempo un illecito di natura civilistica.

L’art. 19 definisce l’ambito di applicazione della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette: essa trova applicazione alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un'operazione commerciale relativa a un prodotto, nonché alle pratiche commerciali scorrette tra professionisti e microimprese. Per le microimprese la tutela in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa illecita è assicurata in via esclusiva dal d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145.

Come sancito dall’art. 20 del Codice, le pratiche commerciali scorrette sono vietate. Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed “è falsa” (più correttamente, “falsa”) o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto (termine con il quale l’art. 18 del Codice del consumo indica “qualsiasi bene o servizio, compresi beni immobili, i diritti e le obbligazioni”), del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori.

Una pratica commerciale non potrà essere considerata scorretta al solo ricorrere della contrarietà alla diligenza professionale: dovrà risultare, in aggiunta, la sua attitudine a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio; varrà comunque anche l’inverso, visto che non sarà sufficiente l’attitudine a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore perché la pratica sia considerata scorretta, ma risulterà necessaria anche la contrarietà alla diligenza professionale (G.De Cristofaro, La nozione generale di pratica commerciale <<scorretta>>, in G.De Cristofaro, La nozione generale, cit., pag. 145).

Il bene giuridico tutelato dalla normativa comunitaria, così come dagli artt. 20 e 21 del Codice del consumo, è la libertà di scelta consapevole del consumatore, che, qualora alterata, produce effetti in ambito economico (Cons. st., sez. VI, 5 settembre 2001, n. 5000, in FA: Consiglio di Stato, 2011, pag. 2826). Ancor più significativamente, nel caso di pratiche commerciali scorrette il bene giuridico tutelato è soltanto indirettamente a contenuto patrimoniale, rilevando primariamente e immediatamente la tutela della libertà di scelta del consumatore. Sarebbe infatti riduttivo ritenere che la nozione di pregiudizio per il comportamento economico del consumatore venisse fatta coincidere con la nozione di danno economico (che implica una diminuzione patrimoniale). Essa va invece intesa nel senso di influenza sul comportamento economico del consumatore nel quadro della tutela della sua libertà di scelta (Cons. st., sez. VI, 24 marzo 2011, n. 1810, in FA: Consiglio di Stato, 2011, pag. 988).

La disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette è posta a tutela dell’interesse generale: essa è preventiva e si distingue da quella successiva infracontrattuale rimessa all’azione civile individuale (Cons. st., sez. VI, n. 3763/2011, cit., pag. 2092); non persegue inoltre – si pensi all’art. 20 del Codice del consumo – l’obiettivo di assicurare una reazione alle lesioni effettivamente arrecate agli interessi patrimoniali del singolo consumatore, ma interviene in una fase antecedente e a livello generale (Cons. st., sez. VI, n. 3763/2011, cit., pag. 2094). Ciò, ovviamente, non esclude la rilevanza della pratica commerciale scorretta per lo stesso diritto privato e per l’applicazione dei rimedi da esso previsti a tutela del singolo consumatore.

Il terreno sul quale il Codice del consumo ha collocato la reazione nei confronti delle pratiche commerciali scorrette “non è quello della tutela individuale (invalidatoria e/o risarcitoria), bensì quello della tutela dell’interesse collettivo dei consumatori (e, più ampiamente ancora, dell’interesse generale del mercato), come dimostra altresì l’attribuzione che il nostro legislatore (sciogliendo l’alternativa prevista dall’art. 11 direttiva n. 2005/29/Ce, cit.) ha fatto all’Autorità garante della concorrenza e del mercato” (G.D’Amico, Profili del nuovo diritto dei contratti, Milano, Giuffré, 2014, pag. 43 s.).

La sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 21 settembre 2011, n. 5297 (in FA: Consiglio di Stato, 2011, pag. 2872), per quanto relativa a fatti (messaggio pubblicitario) occorsi prima dell’entrata in vigore delle disposizioni del Codice del consumo in materia di pratiche commerciali scorrette, aiuta ad inquadrare il concetto di pratica, caratterizzata dall’abitualità o serialità, a loro volta escluse dall’unicità dell’episodio. Ciò non nega che, nel caso in cui il comportamento scorretto consista in un modello organizzativo replicabile, sarà più agevole provare che si è in presenza di una pratica. Negli altri casi sarà necessaria un’adeguata istruttoria e motivazione. L’Antitrust, è stato ricordato (N.Zorzi Galgano, Il contratto di consumo e la libertà del consumatore, Padova, Cedam, 2012, pag. 254), ritiene che il concetto di pratica prescinda da un criterio statistico o quantitativo dei reclami dei consumatori. Gli stessi giudici amministrativi rilevano che non occorre guardare al danno per il singolo consumatore – nel caso di specie un interesse di mora esiguo per mancato pagamento nei termini di bolletta recapitata oltre la data di scadenza – comparato a quello per il professionista, ma al danno per la massa dei clienti (Cons. st., sez. VI, 12 giugno 2012, n. 3429, in www.giustizia-amministrativa.it).

3.- Ulteriori considerazioni circa gli effetti della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette nell’ordinamento domestico

Tra i profili di maggior interesse per i riflessi della nuova disciplina sull’ordinamento nazionale, emerge indubbiamente quello della (eventuale) invalidità di un contratto concluso a valle di una pratica commerciale scorretta. Le posizioni di cui si darà a breve conto appaiono comunque utili per meglio definire il ruolo della correttezza della condotta del professionista nell’esercizio della propria iniziativa economica (correttezza consistente nella inclusione, nel raggio d’azione del soggetto agente, dell’interesse di un soggetto terzo, vale a dire il consumatore); e saranno in particolare utili per valutare se un comportamento isolato possa essere considerato pratica commerciale scorretta.

Concentrando l’attenzione sulla categoria dell’annullamento, si è detto che “la sostituzione del dolo-vizio con la fattispecie, neutra sotto il profilo soggettivo, delle azioni ingannevoli finisce col dar manforte al già esaminato filone interpretativo a mente del quale l’illecito contemplato negli artt. 1439 e 1440 c.c. può essere determinato anche dalla mera negligenza del contraente là dove egli, pur non proponendosi il fine dell’inganno, abbia ciò nonostante indotto in errore l’altro stipulante a cagione della propria noncuranza” (R.Calvo, Le pratiche commerciali <<ingannevoli>>, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce, cit., pag. 218).

In tal senso, e lo si capirà meglio in seguito, non sarà necessario, per potersi dire inverata una pratica commerciale scorretta, che una informazione erronea sia stata veicolata con l’intenzione di ingannare il consumatore. Ma procediamo per gradi. La dottrina ha ricordato che “la novella vieta, se dotate di capacità decettiva nei confronti del “consumatore medio”, le «informazioni non rispondenti al vero»”, vale a dire, “il semplice mendacio. La scelta normativa di derivazione comunitaria sembra porsi in rotta di collisione - almeno per quel che riguarda i contratti dei consumatori - con la prudenza con cui la giurisprudenza riconosce rilevanza, ai fini dell'annullabilità del contratto, alla mera affermazione del falso od alla mera negazione del vero, non ulteriormente circostanziate; e, di contro, si rivela in significativa sintonia con il sempre più diffuso orientamento, specie dottrinale, che - con riferimento al contratto di diritto comune - proclama la rilevanza, ai fini dell'impugnativa per dolo, della semplice menzogna che, in concreto, risulti determinante del consenso del deceptus” (C.Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbligazioni e contratti, 2007, pag. 783).

E così, ottimisticamente, pur mancando una espressa previsione legislativa, la direttiva in materia di pratiche commerciali sleali potrebbe rappresentare l’occasione per ampliare i confini, stretti, all’interno dei quali i giudici italiani hanno ricondotto l’annullamento per dolo. In tal senso, ponendo attenzione all’esigenza di armonizzare il dolo-vizio alle linee guida del diritto privato europeo, potrebbero aversi pronunce che considerano come raggiro, ai sensi dell’art. 1439 c.c., l’utilizzo di una pratica commerciale ingannevole (G.Magri, Gli effetti della pubblicità ingannevole sul contratto concluso dal consumatore. Alcune riflessioni alla luce dell’attuazione della Direttiva 05/29 CE nel nostro ordinamento, in Riv.dir.civ., II, 2011, pag. 295). Ma non si dimentichi che più aderente al dato normativo è la soluzione in accordo alla quale il consumatore, per ottenere l’annullamento di un contratto concluso a seguito di una pratica commerciale scorretta, dovrà dimostrare che si sono realizzati tutti i presupposti previsti dagli artt. 1434-1439 c.c.; e non potrà essere sufficiente la prova che la pratica è idonea ad ingannare un consumatore medio, dovendo invece essere data prova del fatto che la predetta pratica ha ingannato quel consumatore ed è stata determinante del suo consenso (C.Camardi, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Le invalidità nel diritto privato, a cura di A.Bellavista e A.Plaia, Milano, Giuffré, pag. 164, che ritiene che il consumatore debba, in aggiunta, dimostrare l’intenzionalità dell’inganno).

Ma perché questa lunga digressione circa il carattere non intenzionale della pratica commerciale scorretta? Le riflessioni riportate confermano, innanzitutto, che l’intenzione di indurre il destinatario in errore non rientra tra i presupposti richiesti dalla disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette, ove rileva che la pratica sia, anche non intenzionalmente, idonea ad indurre in errore il destinatario della stessa (S.Tommasi, Pratiche commerciali scorrette e disciplina dell’attività negoziale, Bari, Cacucci Editore, 2012, pag. 150). La dottrina (G.D’Amico, Profili del nuovo diritto dei contratti, cit., pag. 41 ss.) ha infatti segnalato l’irrilevanza del carattere intenzionale o meramente colposo della ingannevolezza o aggressività della pratica commerciale: circostanza che avrebbe portato alcuni autori a prospettare l’allargamento dell’area entro la quale ritenere sussistenti i vizi del consenso.

Ma basterebbe ciò per dirsi inverata una pratica commerciale scorretta? La dottrina si è concentrata, giustamente, sull’obbligo di informazione non adempiuto. Nel caso venuto all’esame della Corte di Giustizia, che esamineremo a breve, il professionista aveva trasmesso un elemento informativo errato al consumatore, incidendo sulla sua libertà di scelta. Ma poteva tale condotta essere considerata non conforme a diligenza professionale? E al di là della non intenzione di indurre in errore il consumatore, poteva essere considerata sleale la condotta del professionista nel caso specifico?

4.- Gli effetti della pronuncia della Corte di Giustizia

Non possono essere passate sotto silenzio le conseguenze – su imprese e consumatori, oltre che su autorità preposte all’applicazione della direttiva – derivanti dalla stessa incertezza definitoria circa il concetto - o l'estensione del concetto - di pratica commerciale. Infatti, nella recente pronuncia della Corte di Giustizia, Prima Sezione, 16 aprile 2015 - C-388/13 (reperibile nella sezione “Documenti e studi” di questa Rivista), si ritiene applicabile ad un caso isolato la direttiva in materia di pratiche commerciali, senza che la motivazione della decisione si soffermi sulla replicabilità della condotta ed in generale sulle caratteristiche della pratica per potersi dire tale. Diversamente, e si avrà modo di darne conto alla luce delle previsioni della stessa direttiva, il singolo isolato comportamento, oggetto di questa indagine, rileverà nel rapporto tra cliente e professionista alla stregua, però, di informazione erronea mentre non dovrebbe poter operare come presupposto per l’irrogazione di una sanzione per illecito amministrativo consistente in pratica commerciale scorretta (ovviamente, qualora non risulti che si siano verificati tutti i presupposti richiesti dalla normativa).

La soluzione della Corte di Giustizia appare in tal senso inopinata e foriera di nuovi dubbi.

Nel caso in esame, non sembra emergere alcuna violazione della buona fede, contemplata nel dettato normativo quale elemento costituente il nuovo, ampio, concetto di diligenza professionale. Il professionista ha commesso un mero errore e non ha agito in violazione della correttezza; non ha agito, infatti, facendo prevalere il proprio interesse senza tener conto di quello del consumatore. Ma anche se la stessa comunicazione avesse interessato più clienti, essa non avrebbe potuto essere “incriminata” come pratica commerciale scorretta.

Veniamo ad ogni modo alla descrizione dei fatti e alla, seppur breve, analisi del caso, affinché il lettore non cada vittima di precomprensione.

La decisione (consultabile in I Contratti, 2015, pag. 770 ss.) si è pronunciata sulla seguente questione pregiudiziale: “se la comunicazione commerciale di un’informazione non veritiera a un solo consumatore debba essere considerata come una pratica commerciale” ai sensi della sir. 2005/29/Ce.

La questione potrebbe apparire mal posta poiché non dovrebbe rilevare tanto l’aspetto statistico, quanto la replicabilità o meno di una pratica, a prescindere dal numero di consumatori raggiunti.

Il caso è molto semplice: a seguito di una comunicazione dell’operatore che conteneva una data errata (rilevante per conoscere la durata residua del rapporto contrattuale in corso), il consumatore – parte di un contratto di abbonamento a servizi televisivi - aveva esercitato il recesso dal contratto con effetto a partire (solo) da una certa data, ciò comportando una spesa aggiuntiva: tale spesa era stata causata dal pagamento di altro canone, da parte del consumatore, per i medesimi servizi offerti da un altro professionista.

La Corte chiarisce innanzitutto che “la circostanza che la condotta del professionista coinvolto sia stata tenuta una sola volta e abbia interessato un solo consumatore è del tutto irrilevante in questo contesto”: la direttiva non contiene indizi in accordo ai quali l’azione o l’omissione debba presentare carattere reiterato. Ciò è senz’altro vero.

La direttiva, continuano i giudici, affida “alla discrezionalità degli Stati membri la scelta delle misure nazionali destinate a combattere” le pratiche commerciali sleali; e “spetta agli Stati membri prevedere un regime adeguato di sanzioni nei confronti dei professionisti”, assicurando “che tali sanzioni rispondano, in particolare, al principio di proporzionalità. E’ in tale contesto che potranno essere presi in debita considerazione fattori quali la frequenza della pratica addebitata, la sua intenzionalità o meno e l’importanza del danno che ha cagionato al consumatore”.

La Corte ritiene pertanto che anche la comunicazione diretta ad un solo consumatore costituisca (ma andrebbe usato più correttamente l’indicativo in questo caso) pratica commerciale scorretta. E lo fa nel timore che la tesi contraria sia foriera di “seri inconvenienti”, quasi in ossequio ad un imperativo categorico. In tal senso, “è sufficiente che il professionista abbia comunicato un’informazione oggettivamente errata, tale da esercitare un’influenza sfavorevole sulla decisione commerciale del consumatore”. Tra l’altro, sempre a detta dei giudici, “l’articolo 11 della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, infatti, prevede espressamente che l’applicazione delle misure adottate dagli Stati membri per lottare contro simili pratiche prescinde dalla prova dell’intenzionalità o della negligenza del professionista, così come da quella di un danno effettivamente subito dal consumatore”.

Ma in questo modo la Corte estende la nozione di pratica commerciale anche a comportamenti occasionali ed episodici, rivolti ad un unico consumatore; e non può che rilevarsi come l’informazione, non veritiera, che aveva falsato il comportamento economico del consumatore, non si fosse iscritta in una prassi abituale o reiterata dell’impresa rivolta al pubblico dei consumatori: essa, diversamente, si era limitata ad una lettera indirizzata ad un singolo consumatore (A.Genovese, Pratiche sleali, diligenza professionale e regola de minimis, in I Contratti, 2015, pag. 777). Si era infatti trattato di un errore isolato, di un occasionale disguido di carattere gestionale-amministrativo.

La direttiva dovrebbe trovare applicazione qualora la condotta sia rivolta ad un gruppo indeterminato di destinatari e venga ripetuta nei confronti di più di un consumatore; nel caso in cui la condotta non sia diretta ad un gruppo indeterminato di consumatori, ma in ipotesi ad un singolo consumatore, la stessa dovrà essere quanto meno ripetibile, vale a dire “potenzialmente reiterabile” (A.Genovese, Pratiche sleali, cit., pag. 783).

Sembra appunto questo il concetto di pratica posto a base della direttiva, il cui art, 6, tra l’altro, in accordo al principio di proporzionalità, ne prevede l’applicazione per la tutela dei consumatori dalle conseguenze delle pratiche commerciali sleali quando queste sono rilevanti, riconoscendo che in alcuni casi l’impatto sui consumatori possa essere trascurabile.

Volendo individuare l’approccio della stessa Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato italiana, in recenti provvedimenti è stato ricordato che la definizione di pratica commerciale contenuta nel Codice del consumo – che “prescinde da un criterio statistico o quantitativo” – ricomprende ogni condotta che possa “essere astrattamente replicata a prescindere dal numero di soggetti che in concreto ne siano stati destinatari” (Provvedimento n. 20295, in Bollettino n. 37/2009); che si connoti, pertanto, per una “astratta replicabilità nei confronti di una categoria generalizzata di consumatori, a prescindere dal numero di soggetti che in concreto ne siano stati destinatari” (Provvedimento n. 22450, in Bollettino n. 21/2011).

5.- La diligenza professionale: un concetto composito per la valutazione della sussistenza della pratica

Riflettendo sulle previsioni nazionali, che possono essere prese a riferimento per la stessa comprensione della normativa comunitaria, l’interprete può affermare che il concetto di diligenza rappresenta il fulcro attorno al quale ruota la previsione generale dell’art. 20,  secondo e terzo comma, del Codice del consumo, dovendo però il quadro normativo essere integrato dalla disposizione definitoria di cui all’art. 18, primo comma, lettera h): formulazione, quest’ultima, infelice perché affianca, in un medesimo contesto, figure per tradizione distinte, quali la diligenza, la buona fede e la ragionevolezza, quest’ultima estranea alla tradizione giuridica italiana (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Europa e diritto privato, 2010, pag. 1122 s.).

La nozione di diligenza professionale è “una nozione specificamente propria della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, una nozione dotata di piena autonomia rispetto alla nozione civilistica di diligenza (nell’inadempimento delle obbligazioni) e di colpa (nell’illecito vile)” (G.De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 150 s.); ed essa non va confusa con i principi di generali di correttezza e buona fede “che affondano le proprie radici” nella correttezza e nella buona fede in senso oggettivo (G.De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 151 s.). E ne viene fatto discendere che “le regole della diligenza professionale sono, essenzialmente, regole oggettive di comportamento corrispondenti ad un determinato grado/livello di conoscenze specialistiche, di cura e d’attenzione (alla sfera degli interessi patrimoniali dei consumatori e primariamente all’interesse dei consumatori ad assumere <<decisioni di natura commerciale>> consapevoli ed informate) che il professionista è tenuto ad osservare nelle pratiche commerciali che pone in essere nei confronti dei consumatori” (G.De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, cit., pag. 151).

Nell’ambito della disciplina delle pratiche commerciali scorrette la diligenza assume allora il ruolo di fonte che determina il contenuto dell’obbligo del professionista nei confronti del consumatore al fine di preservarne o comunque favorirne la libertà di scelta e la sua consapevolezza (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza, cit., pag. 1151). La stessa dottrina ritiene che buona fede e correttezza non abbiano portata autonoma rispetto al concetto di diligenza e che non sia un errore redazionale l’aver compreso correttezza e buona fede nella definizione di diligenza professionale, dovendo la condotta del professionista essere considerata diligente solo se risulta anche rispettosa delle regole desunte in via di concretizzazione dalla correttezza/buona fede (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza, cit., pag., 1153). Diligenza e buona fede non assumono pertanto ruoli distinti ed autonomi, ma la buona fede opera delineando il contenuto della diligenza, da intendersi come perizia o ancor meglio come l’insieme delle regole di condotta professionali cui il professionista deve conformarsi; ed il contenuto della diligenza deve calibrarsi anche in relazione all’interesse da proteggere (F.Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza, cit., pag. 1160).

Acquisito un bagaglio minimo di riflessioni utili, ritorniamo all’analisi della pronuncia della Corte. “Il problema riguarda l’individuazione del discrimen tra atto singolo irrilevante (episodico, accidentale) per la trascurabilità degli effetti generati (o generabili) e atto singolo rilevante ai fini della repressione delle pratiche sleali perché astrattamente “ripetibile” e per la apprezzabilità degli effetti generati (o generabili)”; qui però viene in evidenza il criterio della diligenza professionale perché la regola de minimis non troverà applicazione qualora una pratica, d’impatto pur esiguo, abbia caratteristiche tali – sia in termini strutturali sia di continuità nel tempo – da risultare reiterabile nei confronti di un numero significativo di destinatari; diversamente, ci si troverebbe di fronte a fenomeni poco rilevanti, episodici, occasionali (A.Genovese, Pratiche sleali, cit., pag. 785, anche per la dottrina richiamata).

Le conclusioni dell’Avvocato Generale presentate il 23 ottobre 2014, dallo stile asciutto e diretto, aiutano a meglio inquadrare il caso e si caratterizzano perché colgono in pieno lo spirito della direttiva: l’informazione erronea fornita da una impresa ad un abbonato, causando costi aggiuntivi a quest’ultimo, non può essere considerata pratica commerciale ai fini della direttiva. Le conclusioni fanno d’altronde leva sul ricordato principio di proporzionalità e sullo scopo stesso della direttiva, enunciato all’art. 1. Viene precisato che la direttiva non esclude dal proprio ambito di applicazione un atto isolato diretto ad un solo consumatore; tuttavia, il termine pratica – da intendersi come comportamento abituale - aiuta a circoscrivere i tipi di condotta che possono essere ricompresi dalla direttiva. Ed almeno una o entrambe delle seguenti condizioni devono essere soddisfatte: “ii) la condotta è diretta contro un gruppo indeterminato di destinatari; ii) la condotta si ripete nei confronti di più di un consumatore”. Pertanto, anche qualora diretta ad un solo consumatore, la condotta “deve essere ripetuta dal professionista in modo da poter corrispondere al termine di <<pratica>>”.

La direttiva, continua l’Avvocato Generale, “mira a tutelare gli interessi collettivi dei consumatori e non a fornire rimedi giuridici nei singoli casi”; ai sensi dell’art. 13 della direttiva, inoltre, le sanzioni che gli stati membri devono infliggere nel caso di pratiche commerciali scorrette, afferiscono alla sfera del diritto pubblico: “se l’ambito di applicazione della direttiva fosse, ciononostante, esteso a condotte isolate, come del tipo in oggetto nel procedimento principale, ciò comporterebbe, in pratica, la possibilità di imporre a un professionista una sanzione di diritto pubblico (nella forma di un’ammenda) per qualsiasi violazione contrattuale”.

Ma si sarebbe inverata una pratica commerciale scorretta qualora una comunicazione erronea fosse stata indirizzata ad un gruppo di consumatori? In realtà, anche in questo caso, sarebbe stato necessario valutare la correttezza del comportamento del soggetto agente, nell’esercizio della sua iniziativa economica, quale sintomo dell’inclusione dell’interesse di un soggetto terzo, il cliente, nell’adozione di determinate modalità di condotta. Per quanto riguarda il caso specifico, non pare che la comunicazione, seppur erronea, sia indice di un modello di comportamento contrario a buona fede (non potendosi comunque escludere una responsabilità del professionista ad altro titolo).

Il professionista non solo non ha agito sulla base di un modello di comportamento, ma non ha agito neppure abusando della propria posizione: in sintesi, non ha agito con modalità scorrette. Pur volendo individuare, nel caso di specie, un comportamento non diligente - in senso atecnico e non nel senso ampio di diligenza professionale -, non sono ravvisabili gli estremi della violazione della correttezza.

E non spaventi il confronto con i canoni della diligenza e della correttezza (da intendersi come buona fede in senso oggettivo), i quali non coincidono né in ambito contrattuale né in ambito extracontrattuale. Tanto che, anche nel contesto delle pratiche commerciali scorrette, possono sempre considerarsi preziose le parole di chi, seppur con  riferimento all’attuazione del rapporto obbligatorio, ha ricordato che la correttezza “può consentire una valutazione globale del comportamento, capace, per così dire, di reagire sulle regole di condotta ispirate alla diligenza” (U.Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, Giuffré, 1968, pag. 51).

6.- Brevi conclusioni di natura sistematica

Muovendo, con approccio induttivo, dall’osservazione del caso di specie a riflessioni di teoria generale del diritto, deve rilevarsi come la pronuncia della Corte di Giustizia scardini alcune certezze ormai date per acquisite nonostante la giovane età della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette.

Evaporata la certezza circa la nozione di pratica, fino ad oggi delineata nei suo contorni, con mano sicura, dall’interprete e dall’operatore chiamati all’applicazione del nuovo apparato normativo, si addensa sul  sistema una minaccia alla certezza del diritto: quest’ultima, valore cardine dell’ordinamento giuridico, rileva primariamente in presenza di consistenti interessi economici e di esigenze di prevedibilità delle conseguenze delle condotte degli operatori di mercato.

Ancor di più: se la pronuncia della Corte dovesse diversamente apparire come portatrice di una nuova certezza, quest’ultima non potrebbe che essere aggettivata come “paralizzante”. Anche solo pensando che la stessa figura di consumatore medio appare creata per bilanciare la tutela del consumatore con la tutela dell’esplicarsi dell’iniziativa economica e dell’autonomia imprenditoriale, il principio espresso dalla Corte potrebbe addirittura riverberarsi negativamente sulla libertà di espressione del professionista: segnatamente, essa impatterebbe in maniera preoccupante sulla strategia in senso lato comunicativa, e non solo commerciale, del professionista che ricorra a flussi di informazione comunque idonei a ravvivare l’interesse del consumatore e ad informare lo stesso in ragione del suo nuovo ruolo di attore del mercato (per spunti in tal senso e per interessanti considerazioni sulla nozione di consumatore medio e sulla relativa ratio, anche nell’ottica dello sviluppo di un mercato competitivo, si veda M.Libertini, Clausola generale, cit., pagg. 63 ss., 101).

  (24 febbraio 2016)

[1] Dottore di ricerca in Diritto privato e funzionario dell’Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico. Le opinioni contenute nel presente articolo sono espresse a titolo personale e non impegnano l’amministrazione di appartenenza.

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Una prospettiva marginalista. A proposito dell’interminabile actio finium regundorum in materia di pratiche commerciali scorrette (di Simone Lucattini)

Una prospettiva marginalista

A proposito dell’interminabile actio finium regundorum in materia di pratiche commerciali scorrette[1]

(di Simone Lucattini)

 

1.- Incertezza/incertezze

“Evaporata la certezza circa la nozione di pratica, fino ad oggi delineata nei suo contorni, con mano sicura, dall’interprete e dall’operatore chiamati all’applicazione del nuovo apparato normativo, si addensa sul sistema una minaccia alla certezza del diritto”. Così si legge nelle conclusioni dell’articolo di Cristiano Artizzu dedicato alla nozione di pratica commerciale scorretta (Sul concetto di pratica commerciale nell’ordinamento comunitario e nell’ordinamento nazionale: considerazioni attuali alla luce di una recente pronuncia della Corte di Giustizia, in questa Rivista, sezione “Nel merito”).

Incertezza, ancora una volta. Incertezza oggettiva – la definizione di pratica commerciale scorretta – che si somma ad incertezza soggettiva: l’annosa disputa su chi sanziona? L’Autorità garante per la concorrenza o l’autorità di regolazione di settore (l’Autorità per l’energia, l’Autorità per le comunicazioni, quella dei trasporti, la Banca d’Italia). Sì, perché non sono bastate, nel giro di un paio di anni, due interventi (uno recentissimo) dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, una procedura d’infrazione comunitaria, due successivi interventi del legislatore nazionale. Siamo ancora lì, chi sanziona?

Incertezza preoccupante, in ragione del rilievo dei valori coinvolti: la tutela dei consumatori, da un lato, e la libertà delle imprese, dall’altro; la fiducia del mercato e nel mercato, più in generale. Sì, perché nei settori regolati tipicamente le sanzioni non si limitano a punire, ma trasmettono segnali al mercato, affermando orientamenti volti a conformare la condotta degli agenti economici, con funzione di prevenzione generale e di certezza in ordine alla liceità/illiceità di determinati comportamenti.

Al di là del tema economico, centrale – la certezza e la fiducia dei mercati –, il problema giuridico di fondo riguarda qui il (non semplice) coordinamento tra normativa generale a tutela dei consumatori – contenuta nel Codice del consumo (d.lgs. n. 206/2005) – e normative speciali di settore: se prevale la prima, le pratiche commerciali scorrette ricadono nella competenza sanzionatoria dell’autorità antitrust; altrimenti, in quella delle autorità preposte alla regolazione e al controllo dei singoli settori. E che settori: energia, telecomunicazioni, trasporti, banche. Sufficiente per pretendere un pò di certezza? Qui non si tratta soltanto del singolo, sparuto, dimenticato privato cittadino (anonimo protagonista dell’eretico saggio di A. Shlaes, L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione, Feltrinelli, Milano, 2011): ci sono di mezzo i consumatori, le loro associazioni, le più grandi imprese italiane (a partecipazione statale…).

Con questo breve intervento non pretendo certo di stabilire, una volta per tutte (anche ove possibile, e probabilmente non lo è), se debba prevalere la normativa generale su quella speciale, o viceversa, e quindi decretare il vincitore della ormai defatigante “gara” (tra istituzioni, sic) … a chi sanziona. Vorrei piuttosto, ancora una volta e fino alla noia (dopo Merito e certezza – in margine alla vicenda dei debiti della pubblica amministrazione, in questa Rivista, sezione “In pratica”), far emergere il disperato bisogno di certezza che affligge chi investe, lavora, produce, paga le tasse, consuma, vive, respira in Italia.

Ma, per una volta, vorrei “prendere la parte del più forte”, non quella del povero cittadino-consumatore- (magari anche) creditore della pubblica amministrazione, ma dei grandi operatori economici che, per stare sul mercato, per competere, debbono poter conoscere, in anticipo e con sufficiente grado di certezza, le pratiche di acquisizione della clientela da ritenersi scorrette e il soggetto competente a sanzionarle.

2.- Da un’Adunanza plenaria all’altra?

In principio furono le pronunce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (nn. 11, 12,13, 14, 15, 16 dell’11 maggio 2012) con cui il giudice amministrativo, in coerenza con lo schema della c.d. specialità “per settori”, stabilì l’incompetenza dell’Autorità antitrust, a favore delle autorità di settore.

Successivamente, l’art. 23, comma 12- quinquiesdecies, del decreto legge n. 95/2012, cristallizzò in norma l’orientamento dell’Adunanza plenaria, senza tuttavia riuscire a risolvere in modo certo e stabile le sovrapposizione e le interferenze tra autorità in concorrenza[2]. Ed infatti, la procedura d’infrazione (2013/2169) avviata nei confronti dello Stato italiano per violazione della direttiva 2005/59/CE, in materia di pratiche commerciali scorrette, mise nuovamente in discussione l’assetto delle competenze sanzionatorie, sulla base dell’assunto per cui, per effetto della giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Italia si sarebbe venuta a creare “una grave lacuna nell’applicazione della direttiva sulle pratiche commerciali”.

Per superare i rilievi mossi in sede comunitaria, l’art. 1, comma 6, del d.lgs. n.21/2014 (attuazione della direttiva 2011/83/UE, sui diritti dei consumatori), attribuì quindi, “in via esclusiva”, e “fermo restando il rispetto della regolazione vigente”, all’Autorità antitrust la competenza ad intervenire in materia di pratiche commerciali scorrette, una volta “acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente”.

Pochi giorni fà, l’Adunanza plenaria (decisioni nn. 3 e 4 del 9 febbraio 2016, reperibili nella sezione “Documenti e studi” di questa Rivista), con un “parziale renvirement”, ha invece ragionato secondo lo schema della specialità per fattispecie, superando la specialità per settori. Nell’ambito della specialità per fattispecie concrete, i giudici sembrano, in particolare, valorizzare l’aggressività della pratica commerciale come quid pluris idoneo a marcare la specialità della previsione del codice del consumo, che assegna la competenza all’Antitrust, rispetto alle norme dei singoli ordinamenti di settore che prevedono invece la competenza sanzionatoria dei regolatori.

Da una Adunanza plenaria all’altra, dunque, e speriamo che stavolta l’intervento nomofilattico sia almeno in grado di assicurare alle imprese la “ragionevole previdibilità non solo delle decisioni giudiziarie, ma anche delle scelte dell’amministrazione”, come auspicato, in via generale, dal neo-Presidente del Consiglio di Stato Pajno nel discorso di insediamento di metà febbraio.

3.- Dove non poté il coordinamento: la tutela risarcitoria

Bene non farsi illusioni: le ultime sentenze dell’Adunanza plenaria non tagliano, una volta per tutte, il nodo delle competenze e non porranno quindi fine all’interminabile actio finium regundorum sulle pratiche commerciali scorrette. La logica della specialità per fattispecie, che scioglie l’antinomia giuridica attraverso una valutazione caso per caso, fattispecie per fattispecie, lascia infatti uno spazio tendenzialmente ancora ampio per l’interpretazione, in sede amministrativa e giurisprudenziale. La speranza, quantomeno, è che pressoché ogni volta, per ripartire in modo stabile la competenza sanzionatoria, non vi sia bisogno dell’intervento (altrimenti non più nomofilattico …) della Plenaria; che, insomma, gli interpreti, in primis le amministrazioni coinvolte, siano animati dalla phronesis (la prudente saggezza), che sempre dovrebbe ispirare il ragionamento ermeneutico (H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2001) e, in generale, tutte “le cose su cui è possibile deliberare” (Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 7, 11411b 8, 15).

Ragionevolmente, una qualche stabilità nel riparto dovrebbe potersi ottenere attraverso la leale collaborazione tra istituzioni, cioè, in concreto, tramite accordi sulla competenza tra i regolatori e l’Autorità per la concorrenza. Ciò in linea con quanto previsto dall’art.1, comma 6, del d.lgs. n.21/2014, secondo cui l’Autorità antitrust e le autorità di regolazione “possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”. E’ questa, del resto, la via indicata dall’Adunanza plenaria già nel 2012 e correttamente imboccata, ad esempio, dall’Autorità per l’energia e dall’Antitrust che hanno stipulato un protocollo- quadro prefigurante diverse forme di cooperazione da definirsi, poi, mediante più specifici atti negoziali.

L’accordo flessibile sembra lo strumento più funzionale per garantire un’efficace e coordinata azione di enforcement, anzitutto perché un accordo “a maglie larghe” di per sé non dovrebbe cedere alla tentazione di individuare generali, perfetti, criteri di riparto, destinati comunque, con la loro tendenziale rigidità, a non comprendere l’incessante varietà delle pratiche scorrette sperimentabili sui mercati. Più utili e funzionali appaiono, in definitiva, fasi o organismi (vere e proprie stanze di composizione) deputati a favorire la risoluzione dei conflitti di competenza, come avvenuto nel citato protocollo Autorità energia/Autorità antitrust dove, ad esempio, si è prevista la costituzione di un gruppo di lavoro congiunto[3].

Ma cosa accade se neppure i più raffinati strumenti di coordinamento riescono a risolvere (in tempi economicamente ragionevoli) l’antinomia giuridica e il conseguente conflitto interistituzionale? In questi casi, non resta che guardare ai rimedi esperibili dagli operatori economici: quando la cooperazione fallisce bisogna, insomma, realisticamente fare i conti con i negativi effetti del difettoso/mancato coordinamento, con i danni dell’incertezza.

Ebbene, esiste una pretesa dei privati al coordinamento e, quindi, un dovere di coordinamento tra autorità indipendenti operanti in settori sovrapponibili. Tale pretesa, a livello normativo, pare potersi ricavare dal principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) e da una serie di disposizioni primarie, quali ad esempio alcune rinvenibili nell’ordinamento settoriale dell’energia, che affermano un principio generale di collaborazione tra autorità indipendenti[4]. In tale prospettiva, pare allora potersi configurare una figura autonoma di danno da mancato/difettoso coordinamento; ciò affermando la separata rilevanza, a fini risarcitori, dell’interesse procedimentale al coordinamento infrastrutturale.

Più in generale, esiste poi una pretesa alla conclusione, in tempi ragionevoli, del procedimento sanzionatorio: una pretesa alla ragionevole durata dell’accertamento sanzionatorio; in tal senso può leggersi la recentissima pronuncia del Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17 febbraio 2016, n. 345, secondo cui, a fronte dell’“abnorme ritardo”, “l’interesse al “giusto procedimento … può ricevere piena tutela dall’ordinamento attraverso – ad esempio – gli strumenti ritualmente previsti contro il silenzio o l’inerzia dell’amministrazione, oltre che mediante il risarcimento del danno da ritardo”.

In buona sostanza, se l’operatore economico rimane, per qualunque ragione (difettoso coordinamento o altro), per troppo tempo sub procedimento sanzionatorio, il danno risarcibile è quello generato dallo stato d’incertezza subito. In particolare, il danno emergente consiste qui nelle spese sopportate per le complesse attività istruttorie e difensive[5] svolte dinanzi all’autorità indipendente, magari poi ritenuta incompetente, o in attesa di una pronuncia del giudice o di un accordo (tra autorità) che definisca la competenza; oppure nelle spese sostenute per interloquire con quell’autorità nel corso di un interminabile procedimento. Tale stato di incertezza può, inoltre, configurare un lucro cessante, sotto forma di perdita di occasioni più favorevoli o di rinuncia a certi piani e attività. L’impresa potrebbe, infatti, decidere di accantonare prudenzialmente fondi, per far fronte all’eventuale esborso economico della sanzione, sottraendoli così ad altre destinazioni e investimenti, ovvero rallentare la realizzazione di determinati progetti, perdendo nel frattempo possibili finanziamenti bancari: autentici toccasana, non c’è che dire, soprattutto in tempi di crisi o di stentata ripresa, e specie se la malcapitata non è uno dei grandi, e “più resistenti”, ex incumbent.

In linea con i principi di atipicità e strumentalità delle tutele, le enucleate figure di danno da ritardato accertamento sanzionatorio e da difettoso coordinamento sembrano poter rientrare nella dimensione a-realizzativa dell’affidamento, sganciandosi quindi dalla prospettiva deformante del potere (sanzionatorio) e della tutela specifica di annullamento (della sanzione)[6]. Per questa via, si potrebbe, quindi, anche giungere ad escludere la giurisdizione del giudice amministrativo, a favore della più mobile, duttile (e abituata a ragionare in concreto di danni, ben oltre le astratte logiche tabellari che spesso sorreggono le pronunce risarcitorie del giudice amministrativo) giurisdizione ordinaria. Soluzione, questa, che appare peraltro coerente con la natura del pregiudizio lamentato, frutto di un comportamento scorretto e/o scoordinato – e non di esercizio illegittimo del potere[7].

In ogni caso, anche il giudice amministrativo – dotato con riguardo alle sanzioni delle autorità indipendenti di giurisdizione estesa al merito ex art. 134, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 104/2010 (c.d. codice del processo amministrativo) e quindi del potere di ridurre l’importo della sanzione irrogata – è oggi in grado di valutare a pieno il fatto dannoso e quantificare il danno risarcibile, potendo al fine sfruttare pressoché tutti i mezzi di prova di cui dispone da tempo il giudice civile (art.63, comma 5, codice del processo amministrativo).

4.- Per una amministrazione marginalista

La abnorme durata di un procedimento sanzionatorio o lo scoordinato esercizio del potere medesimo fanno emergere un preoccupante disallineamento tra funzione di regolazione e processo economico, tra tempo dell’amministrazione e tempo dell’economia.

Se le soluzioni endogene, nella direzione della certezza dei tempi delle decisioni e del coordinamento, falliscono non resta che rivolgersi ai rimedi, e non necessariamente, o non soltanto, al rimedio specifico. Le vedute patologie della funzione sanzionatoria evidenziano, anzi, come la tutela risarcitoria possa, anche in quest’ambito, recuperare e manifestare a pieno la sua tipica ratio di sanzione della correttezza e funzionalità del rapporto amministrativo. Per questa via, il bisogno di certezza degli operatori (anche sul quando della sanzione), costituendo condizione fondamentale della programmazione economica, sembra poter condurre ad un cambiamento di prospettiva: dall’attenzione (spasmodica) per il bilancio pubblico (inciso dagli esborsi per danni) ad una logica marginalista[8], in cui il potere si legittima in quanto capace di risolvere, con un vantaggioso rapporto costi/benefici, problemi concreti d’interesse generale. In quest’ottica, si deve guardare non soltanto ai benefici, ma anche ai pregiudizi che i pubblici poteri possono causare alle imprese ed al buon funzionamento del mercato: specie nell’attuale congiuntura economica, infatti, l’efficienza dell’apparato pubblico dovrebbe misurarsi anche alla stregua dei danni economici che, ad esempio, una scoordinata o inefficiente funzione di enforcement può arrecare al sistema produttivo e ai suoi attori.

Se l’amministrazione è ormai una componente del mercato, e il suo diritto una infrastruttura essenziale tra sfera pubblica e privata, allora il potere, tanto più se di tipo regolativo, o garantisce certezza ai privati o risarcisce l’affidamento tradito[9]: la tutela risarcitoria come sanzione e deterrente al negligente o disfunzionale esercizio del potere (sanzionatorio). Sono i costi degli incidenti pubblici, si dice, inesorabilmente, in analisi economica del diritto; è la “sanzione della vittima”, vorrei dire, ricordando una delle tante indimenticabili pagine di Ayn Rand (L’uomo che apparteneva alla terra - La rivolta di Atlante, Corbaccio, Milano, 2007) in cui un potere pubblico immenso, impersonale, asettico (sordo e perciò silente), si piega, per un momento, di fronte alla comunque inesauribile spinta individuale.

   (24 febbraio 2016)

[1]Le riflessioni svolte sono a titolo personale e non impegnano l’Istituzione d’appartenenza (Autorità per l’energia elettrica il gas e il sistema idrico).

[2]Tale disposizione, fissando l’importo massimo delle sanzioni irrogabili dall’Autorità garante della concorrenza per pratiche commerciali scorrette, affermava la competenza del Garante, “escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati”.

[3]Cfr. l’art. 1, comma 2, lett.a) del protocollo d’intesa integrativo approvato con delibera dell’Autorità energia 505/2014/A.

[4]Cfr., ad esempio, l’art. 46 del d.lgs. n.93/2011, il quale prevede che “l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato collaborano tra loro e si prestano reciproca assistenza” (comma 1) e che i loro rapporti “sono informati al principio della leale cooperazione e si svolgono, in particolare, mediante istruttorie congiunte, segnalazioni e scambi di informazioni” (comma 2), prevedendo anche la stipula di “appositi protocolli d'intesa” (comma 3).

[5]Si tratta, in sostanza, delle spese sostenute per assicurarsi competenze legali o altre professionalità esterne all’impresa, nonché dei costi operativi e di organizzazione aziendale necessari per sostenere i pesanti oneri di collaborazione richiesti ad esempio dai procedimenti antitrust o per difendersi dalle contestazioni mosse nell’avvio istruttorio. In quest’ottica, il giudice amministrativo (Tar Lazio, sez.I, 26 gennaio 2012, nn. 864 e 865) ha ritenuto, in deroga al principio di non immediata impugnabilità degli atti endoprocedimentali, ammissibile l’impugnativa dell’avvio del procedimento antitrust, alla luce dell’utilità conseguibile dal ricorrente in termini di “arresto procedimentale”, che consente all’impresa di evitare gli “onerosi obblighi informativi che il procedimento comporta”.

[6]L’auspicata elasticità del sistema delle tutele si scontra, ancora oggi, con la disciplina, rigida e condizionante, dell’art. 30 del codice del processo amministrativo che stenta ad affrancarsi dalla logica attizia del potere. Si pensi alla rilevanza riconosciuta all’azione di annullamento, ai fini dell’esame della domanda risarcitoria: ai sensi dell’art.30, comma 3, c.p.a., l’omissione dell’azione di annullamento comporta, difatti, che dal quantum risarcitorio sia sottratta la quota che il danneggiato avrebbe potuto evitare utilizzando il rimedio specifico.

[7]Nel solco tracciato dalle recenti ordinanze delle Sezioni unite della Cassazione, per cui il danno da violazione dell’affidamento – che non sia “causalmente collegato alla illegittimità del provvedimento amministrativo” – va chiesto al giudice ordinario e non al giudice amministrativo: cfr. Cass., Sez.Un., 23 marzo 2011, nn. 6594 e 6595.

[8]Per cui, semplificando oltremodo, l’individuazione delle scelte ottimali degli agenti economici passa attraverso il confronto tra beneficio e costo marginale: cfr., per tutti, C.Menger, Principi fondamentali di economia, Rubettino, Soveria Mannelli, 2001.

[9]Nella segnata logica marginalista, il costo dei danni può altresì condurre ad una valutazione della effettiva utilità dell’amministrazione di regolazione o della funzionalità di un determinato riparto di competenze sanzionatorie.

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Merito e certezza - in margine alla vicenda dei debiti della pubblica amministrazione - (di Simone Lucattini)

Merito e certezza

 in margine alla vicenda dei debiti della pubblica amministrazione

(di Simone Lucattini)

I primi contributi pubblicati da “Il Merito” invocano, tutti, certezza delle regole: certezza necessaria per pianificare scelte di vita e investimenti; certezza come presupposto di ogni razionale programmazione economica; certezza indispensabile per attrarre investimenti dall’estero e creare sviluppo. Il tema è stato affrontato dal punto di vista storico (Cossa), mettendo in guardia dall’eccessiva creatività giurisprudenziale (Bertonazzi), parlando di giustizia amministrativa (Freni) o di debiti della pubblica amministrazione (Johnson Scandola).

L’intenzione – lo dico subito – non era uscire con un “primo numero” sulla certezza. Eppure i nostri primi Autori ci hanno voluto dire, ognuno a modo suo, che regole del gioco chiare, certe e stabili sono una pre-condizione affinché il merito possa emergere. Altrimenti vince sempre chi è più bravo ad avvicinare il potere, intento a confezionare l’ultima regola. E’ uno dei tanti modi in cui la conoscenza (di qualcuno) vince sulla Conoscenza, fatta di studio, fatica, creatività.

Un “primo numero” (preterintenzionale), insomma, dove si invoca certezza e si sottopone a dura critica l’esistente.  In pratica, non basta intitolare decreti legge, che si succedono uno dopo l’altro, al “crescere”, al fare”, allo “sbloccare”, se poi questa immensa massa normativa continua ad essere indecifrabile e contraddittoria (sul punto già ampia letteratura). Non basta invocare la semplificazione (duro, certosino lavoro). Non basta annunciare lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione (un dramma nazionale). Non si riducono così incertezza e sfiducia nel sistema-Italia, anzi.

Bene (anzi male), ma vengo al punto: i debiti della pubblica amministrazione, i suoi privilegi, gli effetti devastanti per l’attrattività del sistema-Italia. Lo Stato-più esoso tassatore d’Europa che, in cambio, non offre servizi esattamente “scandinavi”, si permette anche il lusso di non pagare i cittadini-creditori. Così facendo lo Stato mina alla base la fiducia nel sistema. Lo fanno anche certe banche, è cronaca di questi giorni, e le loro responsabilità andranno attentamente accertate. Ma se lo Stato non paga i propri debiti non è che un “singolare malfattore legale” (Giannini). Legale perché i suoi privilegi, i regimi di deroga, sono ammessi dalla legge e appena scalfiti dalla giurisprudenza.  

Davvero esemplare, il caso dei pagamenti dell’amministrazione. Ci sbatte davanti agli occhi i costi dell’incertezza, antitetica al merito, e una politica industriale condizionata da una perenne emergenza, antitetica ad una razionale programmazione economica.

Cominciamo dai costi dell’incertezza. Titola Banca d’Italia un suo recente studio: “I debiti commerciali delle amministrazioni pubbliche italiane: un problema ancora irrisolto”. Ecco, il problema è ancora “irrisolto”. In soldoni: sono 61 i miliardi che la nostra pubblica amministrazione (peggiore pagatrice d’Europa) deve alle imprese fornitrici. Ci fa sapere, la Banca d’Italia, che “l’incertezza sui tempi di pagamento rischia di allontanare le imprese migliori”. Merito e certezza, appunto: i migliori – senza certezze – se ne vanno. Ma non sono solo i più bravi a rimetterci. I costi dell’incertezza si spalmano sull’intero sistema. Una minore incertezza sui flussi di liquidità potrebbe infatti ridurre i fallimenti d’impresa o consentire di rimborsare i prestiti ottenuti dal sistema bancario, producendo una diminuzione dei tassi di interesse. A sua volta, una maggiore disponibilità di liquidità potrebbe, da un lato, rendere più efficiente la pianificazione finanziaria delle imprese, consentendo scelte di investimento sicure e razionali; dall’altro, accelerare la realizzazione di nuovi progetti, limitando il rischio di perdere, nel frattempo, possibili finanziamenti bancari.

In tempi di stentata ripresa, una amministrazione-cattiva pagatrice pregiudica e scoraggia le imprese, specie quelle di piccole e medie dimensioni che più difficilmente riescono a far fronte agli ammanchi di cassa dovuti ai ritardati pagamenti, anche perché, solitamente, incontrano maggiore difficoltà di accesso al credito bancario. Davvero perfetto per il sistema italiano di cui le PMI costituiscono storica ossatura. Risultato: i privilegi legalizzati dello Stato finiscono non solo per rendere meno attrattivo il nostro Paese per investimenti esteri, ma anche per rendere meno competitive le imprese italiane rispetto ai competitors europei e globali.

Ma che c’entra con tutto questo la politica industriale? Si dirà, i ritardi nei pagamenti sono una patologia, mentre la politica industriale è progetto, linearità, un insieme selezionato e coordinato di interventi, così  insegna la letteratura economica. E invece c’entra, eccome.

Il decreto legge n. 35 del 2013 (disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione), mette in correlazione il pagamento dei debiti statali con il “sostegno dell’economia reale e del sistema produttivo” (articolo 6, comma 1-bis). Giusto, l’adempimento dei debiti della P.A. immette nel sistema consistenti volumi di liquidità suscettibili di dare impulso all’economia, svolgendo così una funzione di incentivazione e sostegno della domanda interna (che, con consumi in resistibile ascesa, male di certo non fa). Ma l’entità dei debiti e la cronica scarsità di risorse rendono finanziariamente impossibile per lo Stato pagare subito tutti i creditori, costringendo a scegliere il tipo di debiti da saldare in via prioritaria (quelli del settore edilizio, ad esempio). Effetto: il pagamento di certi debiti, e non di altri, alloca flussi finanziari a favore di alcune categorie di imprese, mentre le altre aspettano …. Il punto è che simili interventi di sostegno, o di incentivo, avvengono al di fuori di ogni razionale e ponderata programmazione economica. Elevato è pertanto il rischio di non raggiungere l’efficienza allocativa. Ogni sostegno dell’attività economica, in un mondo possibile (per le imprese), dovrebbe infatti perseguire finalità concrete, chiaramente individuate a monte. Invece, i (tardivi) pagamenti dello Stato avvengono senza alcuna programmazione, né collegamento tra esborso pubblico e realizzazione di obiettivi d’interesse generale. Non si può dunque parlare di misure di politica economica in senso tradizionale, né di una regolazione per incentivi che presuppone, sempre, un rapporto tra strumenti d’incentivazione e fini perseguiti. Si è in presenza, piuttosto, di effetti di tipo macroeconomico che, per lo più, sfuggono, ad una consapevole attività di programmazione o ad un compiuto disegno regolatorio. Ed è quasi naturale che sia così, poiché all’origine non v’è un coordinamento verso un obiettivo, bensì una inefficienza del sistema (lo Stato cattivo pagatore) e una legislazione emergenziale (il decreto legge n. 35/2013), nata per far fronte ad una situazione divenuta ormai insostenibile. Uno dei tanti casi in cui, nel nostro Paese, l’emergenza oscura ogni opzione strategica, ogni prospettiva di medio-lungo periodo.

Certezza e prevedibilità latitano, drammaticamente, in questa e in tante altre vicende. Difficile, in questo quadro, che il merito si affermi o possa anche soltanto resistere. Nessuno pretende certezza assoluta (impossibile), ma più di 21 mila leggi statali, 30 mila leggi regionali, 70 mila regolamenti, 35 mila fattispecie di reato (sicché si può delinquere senza neppure immaginarlo), 63 mila norme di deroga, francamente bastano: il costo è incalcolabile, l’effetto depressivo sugli investimenti immenso.

Ma sono sempre le “solite” doglianze … e allora qualche proposta, facendo tesoro degli insegnamenti tratti dalla vicenda dei debiti della P.A.: 1) specialità della pubblica amministrazione non può significare privilegio, quindi ridurre drasticamente regimi e interpretazioni pro-amministrazione, soprattutto in fase di esecuzione forzata (quando cioè il giudice ha già condannato la P.A. a pagare e questa si ostina a non pagare); 2) introdurre, come negli Stati Uniti, un commissario alla regolazione che sovraintenda, con poteri effettivi, alla produzione normativa (magari potrebbe servire anche a razionalizzare le mille deroghe a favore dello Stato debitore); 3) pensare una politica industriale che non guardi sempre alla prossima emergenza o scadenza elettorale … no, scusate, ritiro la terza proposta. Generica, e poi questo davvero è chiedere troppo. 

  (15 dicembre 2015)

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