logo il merito

ISSN 2532-8913

Innovazione tecnica “born and validated in Italy” nel settore idrico: valore aggiunto all’ordinario o potenzialità straordinaria? Dialogo tra un “accademico” ed un “pratico”(di Francesco Fatone e Daniele Renzi)

Innovazione tecnica “born and validated in Italy” nel settore idrico: valore aggiunto all’ordinario o potenzialità straordinaria? Dialogo tra un “accademico” ed un “pratico”

(di Francesco Fatone e Daniele Renzi)

 

Acqua nel mercato globale, acqua bene comune, gestione pubblica o privata, non entriamo in questo “merito”, già oggetto di ampio dibattito e di processi decisionali bottom-up o top-down.

Partiamo invece dalla “pratica per lo sviluppo”, ovvero dall’immediata necessità di approccio industriale alla gestione del Servizio Idrico Integrato.

Oggi fare industria non è pensabile senza innovazione continua, sinonimo di competitività nel mercato globale. D’altra parte, il Servizio Idrico Integrato in Italia gode, di fatto, di un regime localmente monopolistico, meno soggetto alla concorrenza rispetto ad altri settori. In questo contesto l’innovazione e l’ottimizzazione possono erroneamente essere considerati solo come eventuale valore aggiunto, comunque fuori dalle priorità politiche ed aziendali. Già, perché oggi siamo alle prese con procedure d’infrazione comunitarie[1] (ad esempio per la mancata applicazione di direttive del 1991 (91/271/CEE) sul trattamento delle acque reflue) che portano le aziende ed il Paese ad affannarsi per rincorrere un passato talvolta mal gestito e a non avere abbastanza tempo per dedicarsi al futuro.

Questa caratteristica diffidenza al cambiamento ed all’innovazione del settore idrico, che è stata riscontrata anche da network specialistici europei[2], nell’ottica dello sviluppo del “sistema Italia”, si traduce in importazione di tecnologie sviluppate all’estero e in scarsa competitività.

Di questo passo superare la “death valley” dell’eco-innovazione[3] nel settore idrico in Italia potrebbe rivelarsi una “mission impossible”. Nelle Università e nei centri di ricerca si svolgono interessanti studi, i cui risultati sono spesso pubblicati in eccellenti e referenziate riviste internazionali; ma il passaggio di scala e l’applicazione in ambiente reale manca. Talvolta a mancare è, innanzitutto, la fiducia delle aziende, certo non alimentata da adeguate politiche o programmi realmente incentivanti.

Il problema è noto, e progetti ambiziosi come Horizon2020[4], il più grande programma mai realizzato dall’Unione Europea (UE) per la ricerca e l'innovazione, stanno cercando di correre ai ripari, per trasferire grandi idee dal laboratorio al mercato.

Alcune aziende di gestione del Servizio Idrico Integrato si sono strutturate con dipartimenti di innovazione ed ottimizzazione, il cui compito sarebbe non solo quello di scegliere ed applicare tecnologie innovative sviluppate e testate altrove, ma anche di validare e favorire il passaggio di scala di tecniche “born and made in Italy”, per divenire primi attori nel panorama europeo, a partire da Horizon2020.

Obiettivo ultimo di un simile approccio, dalla teoria alla pratica,  è, comunque e sempre, il miglioramento dei servizi resi ai cittadini, dalla qualità dell’acqua potabile agli scarichi urbani, riducendo al tempo stesso gli impatti economici ed ambientali, ad esempio diminuendo i consumi di energia elettrica, le emissioni (inclusi i gas serra), la produzione di rifiuti non riciclabili.

Fin qui la visione “accademica”, di un Professore di Ingegneria, forse incompleta e parziale, ovvero orfana di un complemento pratico. Proviamo allora a colmare questo gap dialogando con Daniele Renzi, un ingegnere ambientale, responsabile ottimizzazione processi di depurazione presso un’azienda veneta a capitale pubblico di gestione del Servizio Idrico Integrato.

Caro Ing. Renzi, internazionalizzare l’approccio di un’azienda che gestisce un servizio locale, sembra una contraddizione in termini o è piuttosto un must per innovare il “sistema Italia” anche nel settore dei servizi idrici?

Il motto che dovrebbe sempre guidarci è “think globally, act locally”. Tuttavia, in questo senso, credo che negli ultimi 20 anni i frequenti cambiamenti normativi abbiano portato i protagonisti del servizio idrico integrato a concentrarsi su successive riorganizzazioni, probabilmente necessarie e vantaggiose, e a non seguire metodologie, chiare e scientifiche, per pianificare investimenti, eseguire ammodernamenti ed ottimizzazione delle infrastrutture.

In questo contesto si può fare innovazione “born and made in Italy?

Oggi la situazione normativa va probabilmente a stabilizzarsi, e gli effetti si possono riscontrare nei risultati, come le partecipazioni a grosse iniziative europee di innovazione, in primis in ambito Horizon2020. Questo è il momento giusto in cui fermarsi, ragionare e pianificare, trovando il corretto equilibrio tra visione globale e gestione locale: la priorità per un’azienda locale è la qualità del servizio reso ai cittadini in un giusto rapporto tra sostenibilità tecnica, economica ed ambientale. In questo passaggio storico l’innovazione risponde quindi a queste esigenze: migliora il servizio, riducendo gli sprechi - come le perdite idriche o i consumi energetici - e diminuendo in maniera significativa i costi di gestione. Impegnandosi nell’innovazione, inoltre, anche le aziende di piccola e media grandezza diventano competitive sul piano economico, preservando al tempo stesso un rapporto diretto con territorio e cittadini. Anche nel mio settore l’innovazione può rendere le piccole-medie imprese concorrenti di grandi aziende, che operano su scala sovraregionale o multinazionale.

Come fare?

In primo luogo valorizzando e responsabilizzando le giovani professionalità, spesso specializzatesi già in un contesto internazionale ed allenate alla dinamicità, competitività e flessibilità del mercato globale. Importante è anche superare il possibile scontro che vede contrapposto chi vuole limitarsi a gestire l’ordinario a chi vuole migliorare, migliorarsi ed innovare.

In secondo luogo dobbiamo “fare rete”, mantenendo proprie specificità e ruoli. La ricerca scientifica ha talvolta un approccio troppo drastico, poco pratico, mira a cambiare il paradigma. D’altra parte, credo che le innovazioni sostenibili devono innestarsi sull’asset esistente delle aziende e degli impianti, modificandolo gradualmente per raggiungere gli obiettivi di migliore sostenibilità. In questo senso è importante, però, fare rete con protagonisti referenziati e meritevoli, ove il merito deve essere valutato sulla base di parametri oggettivi, come ad esempio la partecipazioni a progetti internazionali (quali appunto Horizon2020), frutto di una forte  competizione internazionale tra idee. mi pare, questa, una buona pratica per evitare possibili clientelismi locali, che talvolta ostacolano scelte meritocratiche e di qualità.

D’altra parte, bisogna fare rete anche tra aziende a capitale pubblico per un rapido “capacity building” collettivo: visto il diffuso carattere monopolistico di queste aziende può risultare più facile diffondere le innovazioni sostenibili, a differenza di quanto accade in altri settori industriali, dove la concorrenza limita lo scambio fattivo di informazioni e di esperienze positive.

Quanto è percepita come lontana l’Europa, le sue politiche??

Le grandi sfide  affrontate dalla Commissione Europea, ad esempio in ambito Horizon2020, sono a volte percepite dai cittadini e dalle aziende di servizio come sfide globali, quindi troppo lontane dal proprio contesto locale. Non credo che questo sia un approccio corretto. Le sfide globali sono infatti sfide comuni, fatte per il bene comune; e , in quest’ottica, le aziende pubbliche hanno, ancor più delle aziende private, il dovere di impegnarsi e investire le proprie risorse. Horizon2020 ha come obiettivo il miglioramento della vita dei cittadini europei. Le aziende pubbliche di gestione del ciclo idrico devono avere lo stesso obiettivo. D’altra parte, programmi europei come Horizon2020 ci permettono di partecipare attivamente alla definizione delle politiche e direttive europee, che domani dovremo recepire ed applicare. Questo significa, per noi, poter contribuire attivamente a costruire l’Europa partecipando al processo di formazione della legislazione comunitaria, spesso vista come distante e insensibile alle realtà locali in cui lavoriamo e viviamo.

Dunque Horizon2020 non è solo fonte di visibilità riflessa?

E’ importante che le nostre attività internazionali non si traducano in mera e vuota comunicazione, ma che entrino a far parte della struttura delle aziende. Quanto alla visibilità, paradossalmente credo che noi contribuiamo molto a comunicare e divulgare l’importanza delle azioni  europee all’interno delle comunità locali e fino ai cittadini, che spesso non hanno alcuna conoscenza delle politiche europee.

Programmi come Horizon2020 sono non solo importanti fonti di finanziamento, basati sull’eccellenza, ma sono anche reti di innovazione a cui le nostre aziende devono aderire. Il nostro personale dovrebbe essere preparato per partecipare attivamente a progetti di innovazione europei, dialogare e costruire con colleghi italiani e stranieri, avere scambi multilaterali di informazioni e crescita comune. In questo modo saremo anche meglio in grado di scegliere i partner con cui far rete ed investire il nostro tempo e le nostre risorse, per crescere, come azienda locale in un contesto globale.

    (4 maggio 2016)

[1] Le procedure di infrazione comunitarie ad oggi aperte in relazione alla Direttiva 91/271/CE, concernente il trattamento delle acque reflue urbane, sono due: - Procedura n. 2004/2034, relativa alla cattiva applicazione degli articoli 3 e 4; - Procedura n. 2009/2034, relativa alla cattiva applicazione degli articoli 3, 4 e 5.

[2] CONCEIVING WASTEWATER TREATMENT IN 2020 Energetic, environmental and economic challenges (COST Action ES1202), www.water2020.eu

[3] Bridging the Valley of Death: public support for commercialisation of eco-innovation - Final Report -  European Commission Directorate General Environment – May 2009

[4] Horizon 2020 (Orizzonte 2020) è il più grande ed eccellente programma di ricerca e innovazione dell'Unione Europea con quasi 80 miliardi di € di fondi disponibili in 7 anni (2014 al 2020) - oltre a investimenti privati che questi fondi attireranno. 

Email

Proroga, la ladra di tempo: il caso del noleggio con conducente (di Valentina Rossi)

Proroga, la ladra di tempo: il caso del noleggio con conducente

(di Valentina Rossi)

In Italia il tempo viaggia in direzioni opposte a seconda del punto da cui si guarda, se dalla prospettiva del cittadino e dell’impresa, o da quella della Pubblica Amministrazione.

Un caso esemplare riguarda l’(ab)uso dell’istituto della proroga, che la burocrazia dà in pasto all’opinione pubblica come geniale espediente per “prendere tempo”, accompagnato spesso da suadenti ammiccamenti del tipo: “stai tranquillo, hai visto? Tanta paura per niente, non se ne fa di nulla neanche stavolta, che ti dicevo? sei salvo! un altro po’ per pensarci … poi si vedrà”.

Ma un Paese che non decide non fa un gran regalo a cittadini e imprese, semmai li danneggia.

Al grido di “per decidere c’è tempo!”, il 31 dicembre di ogni anno, mentre il resto del Paese brinda,  non senza qualche preoccupazione, al nuovo anno, a Roma si vara, tra spume di champagne, il solito “Decreto Milleproroghe”, agghiacciante già nel nome, sconcertante nel contenuto. Contenuto che, peraltro, si rivela pienamente soltanto dopo settimane di cervellotica lettura. E così è stato anche nel 2015.

Il provvedimento recante Proroga di termini previsti da disposizioni legislative” rappresenta l’istituzionalizzazione della procrastinazione, l’ultima spiaggia del prendere (o perdere) tempo; di fatto è quasi impossibile dare conto di tutto quello che ci viene infilato dentro, in modo più o meno trasparente.

Tra i tanti temi possibili, ne ho scelto uno, il noleggio con conducente (in breve: NCC), che appare per certi versi paradigmatico del rapporto tra tempo (sprecato), (abuso di) potere pubblico e impresa.

Si conta infatti, nel Milleproproghe edizione 2015, il quindicesimo (sic!) rinvio dell’attuazione di quanto previsto dall’art. 29 della legge n. 14/2009 (legge di conversione, con modifiche, del decreto legge n. 207/2008) in materia di autoservizi pubblici non di linea.

L’art 29, comma 1-quater, della citata legge n. 14/2009 ha, tra l’altro, introdotto in materia di NCC esercitato con autovetture:

- l’obbligo di stazionamento dei mezzi all’interno delle rimesse (o presso i pontili di attracco) all’inizio e al termine di ogni servizio di trasporto;

- l’obbligo di presenza della sede legale del vettore e della rimessa all’interno del Comune che ha rilasciato l’autorizzazione;

- la possibilità, per gli enti territoriali, di regolamentare l’accesso nel proprio territorio degli operatori autorizzati in altri Comuni.

Tutto questo a fronte di una previsione originaria più “aperta”, che prevedeva soltanto il prelevamento dell’utente (inizio del servizio) all’interno dell’area comunale o comprensoriale e l’obbligo che la rimessa per lo stazionamento dei mezzi si trovasse nel territorio del comune autorizzante.

Già dal 2009 (decreto legge n. 5/2009), l’entrata in vigore della norma di cui all’art. 29, comma 1- quater, ritenuta probabilmente troppo restrittivo della concorrenza, fu rinviata; d’altra parte, anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con la Segnalazione al Parlamento ed al Governo AS683 del 22.4.2010-27.4.2010, ne aveva rilevato la portata anticoncorrenziale.

Finché, con l’art 2, comma 3, del decreto legge n. 40 del 25 marzo 2010, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti fu delegato ad adottare un decreto finalizzato alla rideterminazione dei principi fondamentali e delle modalità di esercizio dell’attività di NCC, contenente “urgenti disposizioni attuative, tese ad impedire pratiche di esercizio abusivo del servizio di taxi e del servizio di noleggio con conducente o, comunque, non rispondenti ai principi ordinamentali che regolano la materia”.

L’“urgente” decreto attuativo non ha ancora visto la luce; cosicché, dal 2010 la proroga ha riguardato il rinvio dei termini ultimi per l’emanazione di quelle stesse misure attuative che avrebbero dovuto, nelle intenzioni del legislatore, ridisegnare l’intero settore.

Ne è scaturito l’ennesimo “pasticcio interpretativo”, stavolta riguardante l’effettiva vigenza della riforma introdotta dal più volte menzionato art. 29, comma 1-quater: ed infatti, anche coloro che considerano il rinvio del termine ex d.l. n. 40/2010 non incidente sulla vigenza della controversa norma, ammettono, perlopiù, che la mancanza delle disposizioni attuative inficia, di fatto, l’applicabilità della stessa (a suffragare questa tesi soccorre un parere ministeriale reso alla Camera di Commercio di Frosinone in data 07/09/2012). Anche la prevalente giurisprudenza, invero, ritiene congelata l’entrata in vigore dall’art. 29 e la pubblica amministrazione solitamente si adegua a questa lettura, applicando la versione ante modifiche della legge n. 21/1992.

Questo groviglio paradossale – una riforma nata male, una riorganizzazione del sistema mai realizzata ed ormai sopravanzata da fenomeni socioeconomici nuovi – ha creato non pochi problemi.

Si pensi al caso “Uber”. Non vi sarà sfuggito che chi esercita con licenza nel trasporto pubblico non di linea (definizione che accomuna taxi e NCC) ha dichiarato guerra a Uber, azienda americana che mette in contatto direttamente passeggeri ed autisti attraverso un’applicazione per telefonia mobile, fornendo un servizio di trasporto specifico, modellato sulle esigenze dell’utente, sia che questi pretenda un mezzo con autista (cc.dd. “UberBlack” e “UberVan”, guidati da autisti con licenza NCC), sia che si accontenti di un passaggio su un’auto privata (c.d. “UberPop”), dietro “rimborso spese”. Contro Uber spiccano in particolare le accuse di evasione fiscale e abusivismo, per il fatto che questo nuovo soggetto non soggiace ai vincoli normativi di settore: possesso di licenza, limitazioni del numero di veicoli, divieto di personale dipendente, obbligo di stazionamento in rimessa tra una chiamata e l’altra. Ora, pur comprendendo le resistenze di chi detiene un monopolio e preme per auto-preservarsi (magari anche perché l’aver ottenuto la licenza a caro prezzo gli fornisce qualche motivo di comprensibile risentimento), va però detto che, sul lungo periodo, il tentativo di bloccare l’avanzata di tecnologie innovative pare destinato al fallimento. Specie in un contesto ormai globale, e tanto più se in questo modo si finisce probabilmente per danneggiare il consumatore.

Il caso “Uber” dimostra come una proroga possa davvero fare male, ledendo seriamente la certezza del diritto. Evitare di intervenire in modo organico nel settore trasporto non di linea ha significato consentire (anche se temporaneamente, visto l’epilogo di cui si dà conto appena sotto) l’ingresso incontrollato di nuove modalità di offerta del servizio, che hanno portato ad una  liberalizzazione de facto, senza alcun bilanciamento degli interessi coinvolti. In questa situazione, infatti, si rischia di perdere tutti, vecchi e nuovi operatori, consumatori: la diffusione di “UberPop” si inserisce nel vuoto e nel disordine legislativo, lasciando che siano, come sempre più spesso accade, le sentenze del giudice a regolamentare il mercato. Vedasi la recente ordinanza del Tribunale di Milano del 25 maggio 2015 che ha inibito l’utilizzo sul territorio nazionale dell’app “Uberpop” e “del servizio comunque denominato e con qualsiasi mezzo promosso e diffuso che organizzi, diffonda e promuova un servizio di trasporto terzi dietro corrispettivo su richiesta del trasportato, in modo non continuativo o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta”.

Ma qual è dunque la morale della storia che si è provato a raccontare? E, soprattutto, quali –  se vi sono – i possibili finali?

In proposito è di grande interesse l’intervento dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti [1], che il 21 Maggio scorso ha emesso un “atto di segnalazione a Governo e Parlamento  sull’autotrasporto di persone non di linea:  taxi, noleggio con conducente e servizi tecnologici per la mobilità (STM)”.  L’Autorità non si limita all’analisi dell’esistente, ma si spinge fino a formulare alcune proposte di riforma della legge n. 21 del 15 gennaio 1992,  nella versione integrata nel 2009.

L’Authority afferma di aver svolto un’indagine tra gli stakeholders: le associazioni rappresentative degli operatori dei servizi di taxi e NCC, le nuove piattaforme tecnologiche che in vario modo operano nel settore, le associazioni dei consumatori, l’ANCI e la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Molto opportuno, dal momento che, come insegnava in una delle sue Prediche inutili Luigi Einaudi - “Conoscere per deliberare” -, conoscere in questo caso significa anche avere chiaro il livello di domanda del servizio (e questo non sempre è avvenuto a livello locale), mentre deliberare vuol dire definire regole organiche per l’intero settore, in modo da bilanciare costi e benefici dell’intervento.

Da tale analisi, oltre che dall’elaborazione dei dati forniti da dieci città capoluogo di Regione e dall’agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma capitale, emerge una “sostanziale staticità nel numero di taxi negli ultimi anni” ed una opacità delle tariffe, composte da una parte fissa e una variabile, che rende difficile la stima anticipata nel prezzo della corsa.

L’Authority ha, d’altra parte, riconosciuto non solo il crescente ruolo delle tecnologie informatiche applicate alla mobilità (STM) - che si sono  ritagliate ampi spazi nel mercato della domanda di mobilità non soddisfatta dal trasporto privato o pubblico - ma ha anche evidenziato che tale diffusione ha intercettato la richiesta di servizi di norma meno costosi rispetto a quelli offerti da Taxi e NCC, oltre all’aver favorito effetti deflattivi della circolazione e la riduzione delle emissioni inquinanti.

Ora tra le proposte formulate dall’Autorità - e sull’interessante raffronto tra la disciplina attuale e quella suggerita dall’Autorità - mi preme evidenziare solo alcuni aspetti, che reggono, a mio parere, l’intero impianto della riflessione.

L’Autorità ha proposto innanzitutto una revisione del concetto di territorialità, che non può più intendersi riferito alle realtà locali, ma che va ricondotto ad un bacino d’utenza sovra comunale, stabilito a livello regionale, entro cui commisurare i fabbisogni e stabilire il numero delle licenze consentito. Questo, a mio avviso, ha potenziali effetti ampliativi sui contingenti.

In secondo luogo viene ipotizzata la legittima coesistenza di servizi esercitati in forme giuridiche differenti, mediante l’introduzione di una disciplina per i servizi STM, e distinguendo tra attività commerciali (da ricondurre entro un impianto normativo comprendente specifici requisiti soggettivi, del conducente, ed oggettivi, del tipo di attività) e non commerciali (esercitate sempre con strumenti tecnologici ma in modo non professionale, il tipico caso della condivisione di un percorso in auto, già predeterminato dal conducente, dietro rimborso delle spese vive).

L’Autorità introduce anche la possibilità per tutte le attività di natura commerciale - tassisti, noleggiatori, driver - di avvalersi dei c.d. intermediari (piattaforme telematiche di incontro tra domanda e offerta), ai quali sarebbe attribuita la funzione di controllo sul rispetto dei requisiti degli operatori.

In sintesi, per bilanciare gli interessi degli operatori attualmente sul mercato con quelli dei conducenti di nuova generazione, si propone di assoggettare i driver STM - esercitanti esclusivamente in forma occasionale - ad alcuni vincoli amministrativi, contemporaneamente togliendone di mezzo altri per i taxi - possibilità di esercitare in forma di impresa e di cumulare più licenze - e per gli NCC - bacino allargato e assenza obbligo di rientro in rimessa tra un servizio e l’altro (è chiaro che l’obbligo dello stazionamento in rimessa tra un servizio e l’altro deve per forza di cose venire meno, se si assume che domanda e offerta si incontrino su applicazioni telematiche!).

Condivido la proposta dell’Authority, oltre che con riguardo alla revisione dei bacini di utenza, laddove insiste per l’eliminazione di regole (troppo) restrittive per Taxi e NCC.

Credo d’altra parte che vada regolata nel dettaglio l’effettuazione dei controlli (indispensabile prevedere forme sanzionatorie con seri effetti deterrenti per gli intermediari incaricati della vigilanza), in particolare sui conducenti non professionali, vincolati ad un numero massimo di ore di servizio. In questo senso mi sembra opportuno ricomprendere tutte le tipologie di conducenti in piattaforme comuni, in modo non solo da allargare erga omnes la platea “trasversale” di potenziali utenti, ma anche per incentivare al contempo il controllo incrociato tra operatori.

In ogni caso, i presupposti per una buona regolazione di settore mi sembrano poter essere così individuati:

-  l’obbligo per le piattaforme che intermediano domanda e offerta di registrare le ore di servizio e di fornire in maniera trasparente i dati in proprio possesso, visto il rilievo pubblico del settore in cui si opera;

- valutare attentamente le ragioni degli operatori Taxi e NCC, chiarendo fin da subito le “contropartite” per l’uscita da un conveniente monopolio privato.

In proposito, a fronte del probabile deprezzamento del valore della licenza, in caso di (anche parziale) apertura del mercato, c’è chi propone di compensare la perdita economica attraverso il contestuale rilascio agli esercenti di licenze alienabili, a titolo di “risarcimento”. L’ipotesi non è campata in aria a patto che si proceda ad una revisione dei fabbisogni che allarghi la torta. E’ vero infatti che una tale misura, per avere senso e risultare allettante, deve essere attuata mantenendo in essere i contingentamenti; del resto, come si è visto nelle proposte dell’Autorità, questi ultimi non sarebbero destinati a scomparire, ergo, aggiungo, i conducenti di nuova generazione potrebbero costituire un potenziale bacino d’interesse per i titolari di doppia licenza disposti a cederla, lasciando solo a chi voglia esercitare in modo occasionale l’onere di soggiacere al vincolo delle ore massime di servizio.

Dovrà essere chiaro che verranno imposti a tutti gli operatori sul mercato:

     - vincoli fiscali (rilascio ricevuta a fine corsa, compresi i driver di UberPop)

-          - requisiti soggettivi (controllo di regolarità delle patenti dei conducenti con divieti ed esclusioni all’esercizio dell’attività per precedenti penali rilevanti);

-          - requisiti oggettivi (assicurazione RC in regola, con massimali adeguati).

In ogni caso, è opinione comune che le regole del settore siano diventate anacronistiche e troppo penalizzanti per gli operatori. Partendo da questo assunto, anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha di recente auspicato “una nuova regolamentazione su Uber e sulle nuove App digitali per il trasporto urbano” "e sollecitato, a tutela della concorrenza e degli utenti, " “una maggiore facilità di fruizione del servizio di mobilità, una migliore copertura di una domanda spesso insoddisfatta, una conseguente riduzione dei costi per l  l'’utenza e, nella misura in cui si disincentiva l’uso del mezzo privato, un decongestionamento del traffico urbano.

Che altro dire ancora?

Molto avrebbe a che fare con il coraggio di liberalizzare, che sembra mancare ad un legislatore che mostra troppo spesso un cronico ritardo nell’adeguarsi alle evoluzioni sociali ed una certa timidezza nel trattare con lobby agguerrite.

Si può liberalizzare, anche e soprattutto, non azzerando le regole, ma creandone di nuove e più semplici da rispettare, che contribuiscano ad innalzare la qualità dei servizi, riducendone il prezzo. In questo caso si tratta di allargare la platea di utenti dei mezzi pubblici e dei taxi, favorendo la mobilità delle persone, e, perché no, incentivando un uso condiviso, e dunque più sostenibile, dei troppo numerosi mezzi di trasporto privati, a beneficio della nostra salute. Magari – aggiungo io – sarebbe importante intervenire al più presto anche per favorire forme dinamiche di lavoro per giovani e disoccupati, in un contesto economico “precario” come quello attuale.

Solo pochi anni fa le cc.dd. “riforme Bersani” aprirono al mercato il settore delle attività commerciali (decreto legislativo n. 114/1998) e le attività di somministrazione di alimenti e bevande (legge n. 248/2006), eliminando contingenti, distanze minime e quote di mercato predefinite, seppure subordinando l’esercizio dell’attività a requisiti professionali ed igienico sanitari. Per esperienza diretta posso dire, che dopo quell’intervento, tali attività sono cresciute nel numero costantemente, per attestarsi su livelli numerici fisiologicamente tollerati dal libero mercato, ed elevando, grazie alle intrinseche virtù della concorrenza, i propri standard qualitativi, a tutto vantaggio del consumatore.

Immagino che sarebbe ragionevole aspettarsi altrettanto dal settore del trasporto pubblico non di linea, ma per scoprirlo sembra che dovremo aspettare fino al 31 dicembre 2016.

  (24 febbraio 2016)

 [1] http://www.autorita-trasporti.it/documentazione-per-atto-di-segnalazione-l-n-2192

Email

Come si cambia (o si deve cambiare), per non morire. A proposito di banche e rivoluzione digitale (di Francesco Laschi)

Come si cambia (o si deve cambiare), per non morire. A proposito di banche e rivoluzione digitale

(di Francesco Laschi)

 

1.- Le banche e la digital disruption

C’era una volta la banca: custodire i soldi del cliente, investire e restituire al cittadino tramite erogazioni del credito. Questo business che, descritto nella sua essenza, può apparire tutto sommato semplice si è oggi evoluto in un gigantesco erogatore di servizi che vanno dal credito all’investimento, dall’assicurazione al televisore. In due parole, la banca universale.

Nel frattempo la rivoluzione digitale ha investito il mercato: i nuovi clienti  sono, sempre più, c.d. “nativi digitali”, nati e vissuti in stretto rapporto con internet (non solo pc ma anche smartphone, wearable device, smart TV). Le banche sono state dunque investite dalle grandi sfide competitive richieste dal rinnovato contesto. Mentre, però, molti istituti internazionali si sono rapidamente mossi lungo strade innovative, sospinte da un management giovane e sicuro delle potenzialità dei nuovi canali, le banche italiane, e del sud Europa in generale, sembrano invece ancora dormienti, distratte dall’alta competitività, dalla compressione dei margini e dai nuovi entranti nel settore bancario (primi fra tutti Amazon, Apple, Google).

Ma perché le banche italiane sono rimaste, per lo più, ferme ai blocchi di partenza?

Le banche italiane si professano sempre  “cliente centriche”, ma sembrano spesso dimenticarsi del proprio target, preferendo margini di breve termine, raggiunti tramite pratiche commerciali aggressive. Tale tendenza, segno di grande miopia manageriale, distoglie le attenzioni dal vero problema futuro del settore bancario: rinnovarsi attraverso i nuovi strumenti.

Ebbene, gli istituti bancari nel sud Europa risultano, ad oggi, i meno digitalizzati tra i competitor internazionali e, secondo le previsioni McKinsey (gennaio 205), riceveranno soltanto il 29% dei flussi economici derivanti dalla  c.d. digital disruption”, a fronte del 62% della penisola scandinava e del 57% del Regno Unito. Digital disruption non è termine facile da tradurre: si potrebbe provare con “sconvolgimento digitale”, ma mi pare per certi versi limitativo. Il vero punto è che la rivoluzione digitale sbatte letteralmente fuori dal mercato le imprese che non ne seguono il passo. Si pensi a quanto  accaduto in Italia con il car sharing, servizio che sta erodendo la quota di mercato dei Taxi. Insomma, non è solo distruzione di mercato, ma anche migrazione verso prodotti e servizi meno costosi, più rapidi, on demand.

Anche nel mercato bancario si sta affacciando – sempre più “minacciosa” – la “distruzione” digitale, ma, come detto, i grandi gruppi bancari italiani non sono parsi, almeno fin qui, reattivi ai cambiamenti, con  qualche eccezione; ad esempio, Banca Sella, Hype, che forte di un management snello, ha creato un sistema di P2P Payment davvero semplice da usare.

Eppure appaiono fin d’ora evidenti i rischi di un simile “letargo”, rischi fatali. Ma perché allora tanto autolesionismo?

Tre sembrano le possibili risposte: l’attenzione spasmodica per le entrate nel medio-breve periodo, la attanagliante paura della concorrenza e una visione strategica ristretta, a comparti stagni.

In particolare, la paura del management bancario italiano è principalmente dovuta all’anzianità anagrafica dei clienti italiani, non ancora totalmente sicuri di fronte al mondo online. Paura che si traduce in refrattarietà al cambiamento, non solo in Italia. Chris Skinner, nel suo libro sulla digital bank (1), accusa i responsabili commerciali delle banche di essere “alieni o stranieri digitali” (2), perché totalmente al di fuori delle logiche social e online; e la critica va, indirettamente, a colpire anche l’età del personale dirigenziale bancario (dato, questo, preoccupante nel contesto bancario italiano, e non solo bancario). Dirigenti più in là con gli anni possiedono spesso grande esperienza e capacità, ma per creare uno “schiacciasassi digitale” e far ripartire il mercato da zero appare necessario disporre di risorse non solo preparate ma anche, appunto, native delle nuove metodologie di business.

Ma è la visione di business attualmente utilizzata da molte aziende del settore, “a silos”, come si dice nel gergo economico, l’aspetto più preoccupante tra quelli evidenziati (3). Tanto più quando parliamo di canali e digitalizzazione. Finora abbiamo visto strategie distributive che non prevedevano la collaborazione fra i vari canali; anzi, a volte il canale fisico ha escluso quello digitale, e viceversa. Limitarsi ad una multichannel strategy non è però più sufficiente per affrontare le nuove sfide di mercato: un progetto, per portare valore aggiunto e servizi innovativi, dovrà quindi abbandonare tale logica e adottare una visione distributiva integrata: un solo canale che comunica attraverso mezzi diversi, con conseguente riduzione dei costi operativi, semplicità di fruizione. Lato cliente, ciò si traduce in una maggiore consapevolezza delle scelte. Infatti, oggi il cliente quando entra in banca viene solitamente inondato da una molteplicità di stimoli, più o meno aggressivi, che cercano di spingere all’acquisto dei prodotti in collocamento. Il mutamento dello scenario sta invece creando un consumatore desideroso di offerte on demand. Perciò sono nate aziende di successo operanti nell’universo ICT, quali Amazon, Google, Apple, Uber e tante ancora. Queste imprese si caratterizzano, oltre che per l’utilizzo dei canali digitali, per l’utilizzo dei Big Data (4) che servono a creare un’offerta personalizzata. Ciò produce, inoltre, un vero e proprio ribaltamento del rapporto cliente/venditore tipico del mass marketing: adesso non sarà più il venditore a dover cercare il cliente ma il cliente che, bisognoso di un servizio, cercherà il prodotto, indirizzato dagli stimoli che il venditore emetterà su vari canali, digitali e non. In questo modo, si avranno clienti maggiormente formati a livello commerciale e più sicuri  dinanzi alle sempre diverse proposte di marketing. D’altra parte, le aziende dovranno fare del desiderio del cliente e della customer experience il proprio credo, abbandonando il focus sui margini e la competizione, poiché un servizio orientato al cliente porta utili attraverso la fidelizzazione, non solo mediante l’impiego massivo di stimoli aggressivi.

Consideriamo poi la crescente propensione verso una cash less society, non solo da parte delle nuove generazioni ma anche delle istituzioni che potrebbero così ottenere una consistente riduzione dell’evasione fiscale. Molti Stati hanno già ridotto l’utilizzo di contante; pensiamo a Danimarca e Svezia, dove il contante potrebbe sparire a partire proprio dal 2016, o all’Australia che, secondo Westpac Bank, sarà pronta ad abbandonare il contante entro il 2020. A livello mondiale, la multinazionale WorldPay ha calcolato che nel 2019 i pagamenti tramite mobile wallet saranno più diffusi di carte e contanti (5), Italia non esclusa. La spinta principale all’abolizione del contante arriva, naturalmente, dai nuovi competitor, Apple, Google e Amazon, che stanno sviluppando piattaforme di pagamento alternative.

Ebbene, le banche non potranno non prendere coscienza di tali rapidi cambiamenti e proporre soluzioni efficaci per consentire al cliente di seguire le nuove tendenze e nello stesso tempo cogliere le nuove opportunità di business senza farsi schiacciare dalle tecnologie dei nuovi entranti.

2.- Qualche proposta, con lo sguardo rivolto al (prossimo) futuro

Scopo dell’analisi condotta è di stimolare un ragionamento sul ruolo della vecchia e gloriosa istituzione-banca nel futuro, tenuto conto degli “sconvolgimenti ambientali” di questi anni. Alcuni esempi ci indicano la strada da seguire.

-          Abbandonare le strategie multicanale per ridurre le distanze tra banca e clienti. Caixa Bank.

La banca spagnola ha scelto di costruire una relazione profonda con la clientela, attraverso un sistema distributivo totalmente orientato a facilitare l’accesso ai servizi bancari. Benjamí Puigdevall, a capo dei canali elettronici di Caixa, descrive un modello basato su quattro pilastri costruiti per far coincidere la visione della banca con le strategie digitali. Il primo viene definito digital proximity, cioè l’utilizzo dei canali digitali per mantenere e migliorare la relazione tra consumatore e filiale fisica, attraverso idee innovative. Una di queste è The Wall, strumento tramite cui è possibile chattare, fare video chiamate o condividere con il proprio consulente report e schede. Un’altra è il servizio Ready to buy, che serve ad accorciare i tempi di risposta delle filiali rispetto alle richieste dei clienti, per fidelizzare il cliente e, per così dire, “arrivare prima” degli altri competitor. Il secondo pilastro riguarda la comunicazione con il cliente, che per lo più viene ancora fatta attraverso riepiloghi e informazioni periodiche. Con i nuovi metodi, sfruttando le nuove tecnologie, è possibile tenere continuativamente il cliente a conoscenza dei movimenti del conto in tempo reale. Il terzo punto riguarda la riorganizzazione del back office, poiché soltanto velocizzando i processi, nell’ottica di un nuovo paradigma organizzativo, si può significativamente innalzare la user experience. L’ultimo pilastro, infine, consiste in metodi di innovazione aperta, funzionali alla creazione di idee innovative, con l’apporto fondamentale di clienti o dipendenti della banca. In tale prospettiva, è stata quindi creata una piattaforma, Inspiranos, concepita come un raccoglitore di idee che, dopo essere state accuratamente vagliate, possono essere finalmente realizzate.

In definitiva, Caixa Bank ha costruito uno strumento integrato di comunicazione e distribuzione utilizzando tutti i canali a disposizione, fisici e digitali.

-          Creare un network di clientela tramite l’utilizzo del web. Widiba

 La nuova nata Widiba ha cercato di creare una nuova rete di clienti tramite l’utilizzo del crowdsourcing, strizzando l’occhio al mondo dell’innovazione aperta. Tralasciando i risultati economici e commerciali della banca, quello che più va evidenziato è una frenetica attività online, volta alla fidelizzazione della clientela; l’idea è quella di far sentire il cliente parte della banca e creare uno strumento ad immagine e somiglianza dell’utente finale, in modo da trasformare la partecipazione in fidelizzazione. In circa un anno sono entrati a far parte della community Say and Play di Widiba più di 300.000 utenti. Ciò  attraverso una metodologia di coinvolgimento tipica delle piattaforme social, con scambi di idee e opinioni. La forza di tale metodo sta nel poter attingere direttamente dal target finale le idee, successivamente trasformate in servizi, se ritenute utilizzabili dalla banca. L’esempio apre la strada a nuovi modelli di costruzione di brand e volume di clienti.

-          Costruire strumenti semplici da comprendere e utilizzare. CheBanca!

La banca online del Gruppo Mediobanca ha creato WoW, acronimo di wallet of wallets, un innovativo strumento a disposizione della clientela che consente, peraltro anche a chi non è cliente dell’Istituto, di beneficiare di strumenti di pagamento avanzati: il requisito minimo e sufficiente è essere titolari di carta di credito o di un account PayPal. La prima registrazione è facile ed intuitiva e può essere effettuata utilizzando anche i dati già registrati su Facebook; il che  denota una forte, e positiva, integrazione con i social network. Proprio dai social, infatti, viene ripresa l’idea del trasferimento di denaro, in ottica Peer2Peer, tra gli utenti del network WoW, in modo semplice, veloce ed efficace. Tale funzione non è certamente una novità per il mondo bancario, mondiale e italiano (un esempio è l’app di Banca Sella, Hype), ma balza subito agli occhi come siffatti strumenti potranno, anche nel breve termine, rivoluzionare il settore. Chi scrive è fermamente convinto che l’avanzamento nel mercato delle nuove generazioni permetterà a prodotti come WoW di conquistare una cospicua fetta del mercato di riferimento.

-          Liberalizzare il mercato finanziario. La App Robin Hood.

Giunti a questo punto, pare opportuno introdurre un caso non bancario, una start up statunitense che ha in breve tempo conquistato l’appellativo di “Uber della finanza”. L’applicazione, nata da due studenti di Stanford, propone un sistema di brokeraggio privo di commissioni d’ingresso (eccetto una commissione sul capital gain) e una fruibilità smart, grazie anche alla grafica particolarmente efficace; basti pensare che l’App, disponibile per ora solo negli Stati Uniti, ha vinto un Apple Design Award: segno di un’importante attenzione non solo ai contenuti ma anche al customer engagement. I Ceo hanno sviluppato un’organizzazione estremamente funzionale, razionalizzando i costi (non hanno una struttura fisica e i costi operativi sono estremamente contenuti) grazie all’utilizzo esclusivo tramite App. Un’impresa entrante come questa può, senza dubbio, creare un effetto disruptive sul mercato; d’altro canto, consentire l’acquisto di titoli con un semplice click rischia di generare comportamenti non coscienziosi da parte dei clienti. In sintesi, sul mercato italiano, uno strumento quale Robin Hood, potrebbe davvero condurre ad una  evoluzione dello scenario competitivo? La risposta, a mio avviso, è sì, ma soltanto se accompagnata da una più diffusa alfabetizzazione finanziaria (particolarmente carente, come si sa, nel nostro Pese).

In conclusione, il mondo dei servizi finanziari sta, inevitabilmente e rapidamente, mutando. Ne consegue che offrire il servizio bancario “tradizionale”, anche attraverso i canali digitali, non può bastare; soltanto le aziende che cavalcheranno l’onda dell’evoluzione saranno in grado, attraverso un nuovo paradigma distributivo e dei servizi, di cogliere, prontamente, le esigenze del cliente, costruendo prodotti tailor made. Una sfida, questa, che per l’Italia si prefigura come particolarmente impegnativa. Sarà possibile vincerla  soltanto se le istituzioni, a partire dal Governo (ricordiamo il già detto impegno dei Governi scandinavi e australiano),  sapranno accompagnare l’utente alla scoperta dei nuovi strumenti disponibili, aprendo ad una concezione nuova di utilizzo della banca.

C’era una volta la banca…e ci sarà ancora, se saprà affrontare un ambiente tutto nuovo e abbandonare metodologie non più al passo coi tempi.

  (31 marzo 2016)

(1) C. SKINNER, Digital bank. La rivoluzione digitale nel sistema bancario: strategie e casi di successo nel mondo, Roma-Bari, Laterza, 2015.

(2) M. PRENSKY, Digital natives, digital immigrants, da On The Horizon, MCB University Press, Vol. 9 No. 5, Ottobre 2001. Prensky distingue i nativi digitali, cioè le persone che sono nate dopo l’avvento di internet e che vivono connessi e a loro agio con le nuove tecnologie; gli immigrati digitali, nati precedentemente ad internet e che cercano di integrarsi nel “nuovo mondo” e, infine, gli stranieri digitali, completamente fuori, invece, dalle logiche di connettività e strumenti smart.

(3) Per silos s’intende la visione di un business o organizzazione, non nel suo insieme, ma legata a meccanismi che funzionano “indipendentemente”, a compartimenti stagni e non comunicanti.

(4) Per Big Data intendiamo la raccolta di tutti i dati forniti dalla clientela durante l’utilizzo dei canali on line; tramite lo studio di essi si possono conoscere le abitudine di consumo dei clienti e produrre offerte personalizzate.

(5) WorldPay, Global Payments Report 2015.

 

Email

La realizzazione degli stadi in Italia. Brevi note e commenti a due anni dall’entrata in vigore della Legge di Stabilità 2014 (di Richard Conrad Morabito)

La realizzazione degli stadi in Italia. Brevi note e commenti a due anni dall’entrata in vigore della Legge di Stabilità 2014

(di Richard Conrad Morabito)

 

Nell’antica Roma si era soliti misurare la gloria degli imperatori attraverso le opere pubbliche realizzate nel corso del loro regno.

Oggi, complice la crisi economica ed un certo grado di edonismo ereditato dagli anni Ottanta del secolo scorso, in Italia di opere pubbliche se ne realizzano sempre meno e comunque sembra essere prevalsa la cultura dell’apparenza (il c.d.“pronto effetto”), per la quale, molto spesso, un’opera non nasce per essere tramandata ai posteri ma più pragmaticamente, per dare l’impressione di soddisfare, per lo stretto tempo indispensabile, l’esigenza per cui è stata (spesso malamente) realizzata.

Senza voler scendere nell’agone della polemica, per lunghi tratti del nostro recente passato, abbiamo visto realizzare, a costi crescenti, più “timpani” delle scenografie di Panseca che non infrastrutture pubbliche.

Serve quindi uno scatto d’orgoglio se veramente, come tutti dicono, si vuole cercare di ancorare l’Italia al treno dello sviluppo europeo. A riguardo, un esempio che può essere preso in esame come parametro di potenziale sviluppo del settore delle infrastrutture, sono gli stadi.

Gli stadi in Italia infatti, sono da un lato, la plastica rappresentazione di quel concetto dell’apparenza a cui facevo riferimento prima, dall’altro possono essere visti come l’opportunità per contribuire a rimettere in moto le infrastrutture nei principali comuni italiani senza particolare impatto sulle malconcie finanze locali.

Ricordiamoci che non più tardi di 25 anni fa, in occasione dei mondiali di calcio di “Italia 90”, i principali stadi italiani erano stati ristrutturati/ampliati (e.g. Olimpico di Roma, Meazza di Milano) e/o realizzati ex novo (e.g. Delle Alpi di Torino, Stadio di Bari). Insomma, apparentemente, l’Italia aveva diligentemente fatto i compiti a casa ed era stata in grado di poter validamente ospitare quell’edizione del mondiale di calcio.

A distanza di meno di un quarto di secolo (il tema stadi è stato posto nuovamente al centro dell’attenzione già dai primi anni 2000) ci siamo accorti che forse no, gli stadi erano inadeguati, decadenti, spesso inagibili, senz’altro inadatti ad ospitare il grande gioco del calcio…(sic).

Cosa era successo nel frattempo? Nessuno che si ricordasse dell’enorme quantità di denaro pubblico che era stata spesa per dar vita, pochi decenni prima al più importante evento calcistico mondiale? Eravamo forse stati colti da un processo di amnesia collettiva?

La verità, come spesso accade nella vita, forse sta salomonicamente nel mezzo. I fatti hanno dimostrato che effettivamente in molti casi le attività di restyling eseguite non fossero di prima qualità, tuttavia è altrettanto vero che vuoi per ragioni di ordine pubblico, che per una diversa sensibilità (mutuata dal mondo anglosassone) circa le modalità di fruizione dello spettacolo calcio, la necessità d’intervenire sugli stadi era nuovamente di stringente attualità.

I criteri infrastrutturali, infatti, già con il c.d. pacchetto di norme di sicurezza (cosiddetto decreto Pisanu) avevano subito un sostanziale inasprimento, tanto da prevedere la necessità, tra le altre cose, di avere stadi con tutti i posti a sedere numerati, doppi tornelli, abbattimento delle barriere, sistemi di videosorveglianza. Si consideri che nel 2007, a valle dell’ulteriore misura normativa in tema di sicurezza degli stadi c.d. decreto Amato, solo quattro stadi che ospitavano squadre militanti in serie A erano in grado di rispettare tutte i parametri richiesti dalla normativa.

Ma come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza la necessità di modificare il lay-out degli stadi ha coinciso anche con una nuova realtà correlata alla fruizione del fenomeno calcio, rispetto alla quale, al pari di quanto già avveniva a fine anni ’90 in Inghilterra, lo stadio è allo stesso tempo il tempio in cui viene consacrato settimanalmente l’evento principe per cui è stato costruito, la partita (di calcio o rugby), e la location capace di produrre rilevanti flussi di cassa sulla base delle facilities che riesce ad offrire in relazione al business che il calcio (inteso come prodotto) è in grado di generare. Ecco allora fiorire, all’interno dello stadio, musei dedicati alla squadra proprietaria dell’impianto, business centers, palestre, piscine, ristoranti, vendita dei diritti collegati al nome dello stadio, sky boxes ecc. 

Tutto ciò, come è facile intuire, mal si conciliava con la realtà italiana pre-esistente, rispetto alla quale molto spesso lo stadio nasceva come multi funzionale (quindi dotato di pista di atletica) allontanando lo spettatore dalla piena ed avvolgente fruizione dello spettacolo. Non solo. Dal punto di vista gestionale, lo stadio in passato non ha mai rappresentato per le società di calcio una fonte di guadagni. Anzi,  visto che le società di calcio sono solite pagare il canone per la disponibilità dell’impianto e, nella maggior parte dei casi (ove presenti), non gestiscono alcuno dei servizi ancillari allo stadio stesso (e.g. ristorazione, gestione biglietteria, parcheggi ecc.), questo era fonte di costi.

Il legislatore è intervenuto sulla materia attraverso alcuni commi della legge 27 dicembre 2013, n 147 (la c.d. legge di stabilità 2014), attraverso cui ha provato a dare un nuovo impulso, auspicabilmente risolutivo, alle esigenze connesse alla tematica della edificazione/ristrutturazione degli stadi (la c.d.“Legge Stadi”).

A due anni di distanza dalla promulgazione della Legge Stadi, proviamo a fare il punto della situazione e comprendere se davvero tale legge è stata funzionale alla realizzazione di nuovi stadi.

Partiamo da un dato, al netto dello Juventus Stadium, del Mapei Stadium e dello stadio Friuli (oggi Dacia Arena), appartenenti rispettivamente alla Juventus, Sassuolo ed Udinese, nessuna società di serie A ad oggi detiene la proprietà dello stadio dove gioca. Tuttavia, Roma, Milan, Cagliari, Napoli, Fiorentina (solo per citare le squadre più famose) hanno, a diverso titolo, avviato con i rispettivi Comuni di competenza, procedure per l’individuazione dell’area su cui realizzare il proprio stadio e/o per la riqualificazione di quelli esistenti. 

In particolare la Legge Stadi si fonda su alcuni capisaldi: (i) la semplificazione/accelerazione delle procedure burocratiche; (ii) la possibilità di offrire ai promotori l’accesso ai più sofisticati strumenti di finanziamento (e.g. il project financing; project bond); (iii) la possibilità di avere accesso al fondo di garanzia, che fornisce garanzie sussidiarie a quella ipotecarie per i mutui relativi alla costruzione, all'ampliamento, all'attrezzatura, al miglioramento o all'acquisto di impianti sportivi, ivi compresa l'acquisizione delle relative aree da parte di società o associazioni sportive dilettantistiche con personalità giuridica.

Il punto di forza della Legge Stadi, forse passato inosservato da parte dei commentatori della prima ora, sta nell’aver sostanzialmente ricondotto l’infrastruttura stadio, ancorché di proprietà di un soggetto privato, tra i beni di pubblica utilità, tale per cui possa essere dichiarato dal Comune l’interesse pubblico dell’opera. Come noto, a mente dell’art. 2 della L. n. 2359/1865, possono essere dichiarate di pubblica utilità non solo le opere che si debbano eseguire nell’interesse pubblico per conto dello Stato, delle province dei Comuni, ma anche quelle che allo stesso scopo intraprendono corpi morali, società private o particolari individui.

Tale escamotage giuridico permette quindi all’amministrazione di estendere automaticamente a beneficio dei promotori dell’iniziativa, le procedure amministrative più snelle per arrivare alla cantierizzazione dell’opera. Si potrebbe quasi ipotizzare che il legislatore abbia voluto in un certo senso ampliare la platea del cosiddetto “partneraiato pubblico privato istituzionalizzato”, quello cioè che, secondo alcuni studiosi, pur non ricadendo nell’alveo del contratto di partnerariato pubblico privato in senso stretto, previsto ai sensi del codice degli appalti (i.e. concessioni di lavori/servizi, sponsorizzazione, locazione finanziaria, disponibilità), vede la fattiva partecipazione della pubblica amministrazione (anche attraverso il supporto di un fondo di garanzia) affinché sia realizzato un progetto di pubblico interesse,  in cui i ricavi commerciali prospettici consentono di prevedere un integrale recupero dei costi di investimento sopportati dal privato.

Tuttavia, l’apparente sforzo ampliativo del larvale genus dei PPP dato dalla dichiarazione di pubblica utilità estesa anche agli stadi “privati”, cioè quelli edificati da privati su aree private, viene in un certo senso vanificato dal permanere della sostanziale dicotomia tra gli stadi “privati” e gli interventi che sono “da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti”. Apparentemente, ai sensi della letterale lettura della lettera d) del comma 304, solo a questi ultimi impianti si applicano, in quanto compatibili, le previsioni del Codice degli Appalti in materia di finanza di progetto. Gli impianti “privati” dunque, nonostante la dichiarazione di pubblica utilità, continuerebbero a non beneficiare di nessun altro titolo al di fuori delle necessarie autorizzazioni edilizie che, tuttavia non possono essere equiparate alla concessione di costruzione e gestione e/o agli altri contratti di natura pubblicistica di cui beneficiano gli interventi di partenariato pubblico privato (e.g. contratto di disponibilità).

Il mancato riconoscimento di un titolo, allo stato autorizza a ritenere ad escludere la possibilità di estendere per via analogica agli stadi “privati” le norme di settore in materia di  project financing, in quanto opere di pubblica utilità, sembra se non proprio compromettere - c’è sempre la previsione dell’accesso al fondo di garanzia di cui sopra -, quantomeno limitare a mera dichiarazione d’intenti uno dei presupposti per i quali la Legge Stadi era stata varata, ossia l’accesso a modalità innovative di finanziamento, quali ad esempio i “project bond” di cui all’art. 157 del Codice degli Appalti. A mente di detto articolo possono emettere obbligazioni e/o titoli di debito, in deroga di una serie di previsioni del codice civile, tutte le società progetto che realizzino infrastrutture pubbliche o di pubblica utilità, nonché le società che abbiano un contratto di partenariato pubblico privato. Che la questione della estensibilità dei benefici di cui all’art. 157 del Codice degli Appalti sia tutt’altro che banale, lo si evince anche dalla recente modifica all’articolo stesso per cui è stato espressamente chiarito che la norma si applica alle società titolari delle autorizzazioni alla costruzione d’infrastrutture del Piano di sviluppo della rete energetica, a quelle titolari di autorizzazioni per la realizzazione di reti di comunicazione elettronica e alle società titolari di licenze individuali per l’installazione e la fornitura di reti di telecomunicazioni pubbliche. Ragione per cui, allo stato attuale, ci sentiamo di poter escludere tale rinvio analogico in tema di edificazione di stadi “privati”.

In mancanza di un espresso contratto di Partenariato Pubblico Privato, l’equiparazione tra le due tipologie di stadi, avrebbe potuto avvenire con la semplice inclusione del promotore, una volta che lo stadio sia stato dichiarato di pubblico interesse, tra le società di progetto di cui all’art. 156 del Codice degli Appalti e la espressa menzione dell’applicabilità anche a questa fattispecie delle norme in materia di project financing, in quanto applicabili. Tale inclusione, avrebbe reso immediatamente estensibile in via analogica, anche agli stadi privati, le disposizioni in materia di project bond e/o di privilegi su crediti in favore dei soggetti finanziatori.  Norme che sono state salutate con favore da parte del mercato finanziario, in quanto strumenti in grado di facilitare l’accesso al mercato alternativo al finanziamento delle infrastrutture pubbliche o di pubblico interesse. Tale previsione consentirebbe di dare piena attuazione al presupposto della Legge Stadi di consentire ai promotori l’accesso a modalità innovative di finanziamento.

Come noto la Legge Stadi richiedere ai fini della dichiarazione di pubblico interesse da parte del Comune interessato che venga depositato dai soggetti promotori “[..] uno studio di fattibilità, a valere quale progetto preliminare [..]”corredato di un piano economico finanziario e di un accordo con una (o più) associazione/i sportive utilizzatrici prevalenti dell’impianto. All’occhio dell’osservatore più attento, tuttavia, non sarà sfuggito come l’implicito rinvio alla procedura di cui all’art. 153 del Codice degli Appalti (n.d.r. in materia di project financing) contenga una omissione piuttosto significativa, quella relativa all’asseverazione del piano economico finanziario da parte di una banca e/o soggetto terzo asseveratore.

Con riferimento agli stadi da realizzare su terreni di proprietà pubblica o di proprietà di enti pubblici, la lacuna appare piuttosto grave e inspiegabile, se solo si considera che tanto a livello nazionale che comunitario ormai la tematica della bancabilità del progetto ha assunto un ruolo cruciale. Il Codice degli Appalti prevede espressamente che negli affidamenti di concessioni in project financing, non solo il piano economico finanziario debba essere asseverato, ma è altresì richiesta l’evidenza del coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori nel progetto. Anche con riferimento alle concessioni per la realizzazione/gestione dello opere pubbliche, il Codice degli Appalti richiede che le offerte debbano prevedere il preliminare coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori (n.d.r. che si suppone che abbiano preventivamente asseverato il piano economico finanziario). Addirittura il bando potrebbe prevedere che la stessa offerta debba essere corredata anche da una manifestazione d’interesse a finanziare l’operazione sottoscritta da uno o più istituti di credito.

Sebbene si possa ipotizzare, almeno per quel che attiene la realizzazione/ristrutturazione di stadi “privati”, che tale omissione vada letta in un’ottica di sostanziale semplificazione della procedura, tuttavia non si può tacere che uno dei capisaldi della Legge Stadi, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli stessi, consiste nel mantenimento dell’equilibrio economico finanziario del progetto. Ebbene, in tal caso non si vede come il piano economico finanziario allegato al studio di fattibilità, che costituisce un parametro assolutamente nodale ai fini della determinazione di possibili squilibri economici finanziari, possa essere lasciato alla sola determinazione di una delle parti in gioco, che peraltro  ha tutto l’interesse a spostare verso l’alto i parametri di equilibrio economico-finaziario.

Del resto, ai fini della dichiarazione di pubblica utilità e/o della successiva conferenza di servizi decisoria (si veda infra) di cui alla Legge Stadi, lo studio di fattibilità ed il corredato modello economico finanziario, appaiono cruciali nella logica della valutazione della opere di urbanizzazione e delle modifiche al progetto che potrebbero essere richieste dalle amministrazioni pubbliche sulla base delle analisi socio economiche dell’opera rispetto all’area in cui essa dovrà essere realizzata e/o rispetto al contesto produttivo e commerciale esistente.

Su queste basi le amministrazioni locali da una parte chiedono ai soggetti proponenti, soprattutto per quel che attiene la costruzione di stadi exnovo, i maggiori e più gravosi interventi di urbanizzazione e/o riqualificazione delle aree su cui è prevista la costruzione dello stadio. Di converso, gli enti locali sono chiamati a riconoscere ai proponenti analoghe quantità d’interventi compensativi, al fine di garantire il rispetto dell’equilibrio economico finanziario del progetto, che si tramutano fatalmente in metri cubi edificabili aggiuntivi per poter rendere finanziariamente sostenibile il progetto.

In funzione di quanto sopra la: (i) asseverazione del piano economico finanziario da parte di un soggetto terzo; e (ii) la previsione della presenza degli istituti di credito fin dagli albori della proposizione del progetto, permetterebbe, la supervisione da parte di esperti terzi del modello economico finanziario e la copertura economica dell’opera, che è la migliore garanzia per evitare la realizzazione di cattedrali nel deserto o, ciò che è anche peggio, l’interruzione del progetto a metà causa il venir meno dei fondi.

Sempre con riferimento al tema dell’impatto dello stadio sul tessuto economico sociale della città, è appena il caso di dire che, almeno con riferimento agli stadi da realizzare ex novo, sarebbe stato davvero importante prevedere l’inserimento anche in via sperimentale del cosiddetto “debàt public”o “Planning Act” tipico delle esperienze francesi e anglosassoni in tema di lavori pubblici. Ciò avrebbe permesso il coinvolgimento preventivo della cittadinanza interessata dalla realizzazione dello stadio, al fine di evitare possibili fenomeni di NIMBY (“not in my back yard”) che spesso contribuiscono, unitamente alle lentezze burocratiche a ritardare (se non ad interrompere del tutto) la realizzazione delle opere pubbliche.

Sempre a proposito di tempistiche burocratiche, la Legge Stadi ha riservato, almeno sulla carta come vedremo, una corsia privilegiata rispetto alle procedure connesse alle conferenze di servizi. Infatti, vengono previste due conferenze: una preventiva, che dovrebbe concludersi, entro novanta giorni dalla presentazione dello studio di fattibilità, con la dichiarazione di pubblico interesse della proposta e l’eventuale indicazione delle condizioni necessarie per ottenere i successivi atti di assenso sul progetto. Una decisoria, a valle del deposito presso il Comune interessato del progetto definitivo. A tale conferenza sono chiamati a partecipare tutti i soggetti ordinariamente titolari di competenze in ordine al progetto presentato e può concludersi con la richiesta al proponente di modifiche al progetto strettamente necessarie e/o con la relativa delibera di approvazione in via definitiva del progetto. La procedura decisoria deve concludersi entro centoventi giorni dalla presentazione del progetto.

In caso di superamento dei termini sopra descritti, la Legge Stadi prevede inoltre che, con particolare riferimento agli stadi più grandi (i.e. quelli con capienza compresa tra 4 e 20 mila spettatori all’aperto) sia il Consiglio dei ministri, previo parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici (da esprimersi entro trenta giorni dalla richiesta) ad adottare in via sostitutiva, entro il termine di sessanta giorni, i provvedimenti necessari.

La Legge Stadi sul piano autorizzatorio ha, in un certo senso, anticipato quelle che sono gli indirizzi di cui alla bozza del Decreto Legislativo approvata dal Consiglio dei Ministri, in esame preliminare, lo scorso 21 gennaio e recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (c.d.” legge Madia”). Senza voler scendere in questa sede nell’esame analitico del decreto legislativo sopra richiamato, basti ricordare che ai sensi di quest’ultimo vengono apportate significative semplificazioni e snellimenti nell’ottenimento dell’assenso alle procedure di conferenza decisoria e preliminare, prevedendo anche in questo caso il rimedio ultimo dell’opposizione al Consiglio dei Ministri che sarà chiamato, in tempi sufficientemente rapidi, ad adottare una deliberazione in merito alla conclusione delle conferenza di servizi.

Tuttavia, il problema maggiore da un punto di vista autorizzatorio risiede nel fatto che, avendo la Legge Stadi come obiettivo prioritario il recupero degli impianti esistenti (cfr. comma 305), anche l’iter autoirzzatorio semplificato è stato pensato unicamente in quella direzione. La Legge Stadi infatti non contempla gli aggravi procedurali rivenienti dai riequilibri economici finanziari dovuti alle modifiche progettuali richieste dagli enti locali competenti. La Legge Stadi, infatti, escludendo  espressamente che la procedura semplificata di cui all’iter sopra descritto possa trovare attuazione per opere non strettamente funzionali allo stadio e/o di natura residenziale, di fatto costringe i promotori (n.d.r. il caso Roma docet) all’apertura di un doppio binario autorizzatorio con evidenti innalzamenti dei costi, allungamento dei tempi ed incertezza, fino alla fine, circa la reale fattibilità dell’opera. Tutto questo ovviamente rischia di limitare il reale interesse delle società alla realizzazione degli stadi.

Si auspica quindi che tale spinosa, quanto essenziale, tematica possa trovare soluzione con il decreto legislativo attuativo della legge Madia, che laddove più celere ed efficace, ai sensi del comma 304 lett. e) della Legge Stadi, dovrebbe trovare automatica attuazione.

In conclusione, possiamo dire che la Legge Stadi contiene in sé validi spunti che, con pochi ma auspicabili interventi, potrebbero dare un significativo impulso alla crescita del settore. Ricordiamo infatti che la realizzazione e gestione di stadi di proprietà si è rivelato un business senz’altro profittevole per le società di calcio (si pensi che nel 2014 la Juventus ha ricavato circa 50 Mln. dalla sola gestione dello stadio),  ma che tarda a prendere piede in Italia anche in relazione alle criticità sopra ricordate. La speranza è che, anche alla luce della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024, il legislatore voglia risolvere le ultime criticità ancora riscontrabili sul tema sì da potersi dotare di un nuovo volano per lo sviluppo del settore infrastrutturale italiano che rimane strategico per l’Italia.

  (31 marzo 2016)

Email

Altri articoli...