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ISSN 2532-8913

La realizzazione degli stadi in Italia. Brevi note e commenti a due anni dall’entrata in vigore della Legge di Stabilità 2014 (di Richard Conrad Morabito)

La realizzazione degli stadi in Italia. Brevi note e commenti a due anni dall’entrata in vigore della Legge di Stabilità 2014

(di Richard Conrad Morabito)

 

Nell’antica Roma si era soliti misurare la gloria degli imperatori attraverso le opere pubbliche realizzate nel corso del loro regno.

Oggi, complice la crisi economica ed un certo grado di edonismo ereditato dagli anni Ottanta del secolo scorso, in Italia di opere pubbliche se ne realizzano sempre meno e comunque sembra essere prevalsa la cultura dell’apparenza (il c.d.“pronto effetto”), per la quale, molto spesso, un’opera non nasce per essere tramandata ai posteri ma più pragmaticamente, per dare l’impressione di soddisfare, per lo stretto tempo indispensabile, l’esigenza per cui è stata (spesso malamente) realizzata.

Senza voler scendere nell’agone della polemica, per lunghi tratti del nostro recente passato, abbiamo visto realizzare, a costi crescenti, più “timpani” delle scenografie di Panseca che non infrastrutture pubbliche.

Serve quindi uno scatto d’orgoglio se veramente, come tutti dicono, si vuole cercare di ancorare l’Italia al treno dello sviluppo europeo. A riguardo, un esempio che può essere preso in esame come parametro di potenziale sviluppo del settore delle infrastrutture, sono gli stadi.

Gli stadi in Italia infatti, sono da un lato, la plastica rappresentazione di quel concetto dell’apparenza a cui facevo riferimento prima, dall’altro possono essere visti come l’opportunità per contribuire a rimettere in moto le infrastrutture nei principali comuni italiani senza particolare impatto sulle malconcie finanze locali.

Ricordiamoci che non più tardi di 25 anni fa, in occasione dei mondiali di calcio di “Italia 90”, i principali stadi italiani erano stati ristrutturati/ampliati (e.g. Olimpico di Roma, Meazza di Milano) e/o realizzati ex novo (e.g. Delle Alpi di Torino, Stadio di Bari). Insomma, apparentemente, l’Italia aveva diligentemente fatto i compiti a casa ed era stata in grado di poter validamente ospitare quell’edizione del mondiale di calcio.

A distanza di meno di un quarto di secolo (il tema stadi è stato posto nuovamente al centro dell’attenzione già dai primi anni 2000) ci siamo accorti che forse no, gli stadi erano inadeguati, decadenti, spesso inagibili, senz’altro inadatti ad ospitare il grande gioco del calcio…(sic).

Cosa era successo nel frattempo? Nessuno che si ricordasse dell’enorme quantità di denaro pubblico che era stata spesa per dar vita, pochi decenni prima al più importante evento calcistico mondiale? Eravamo forse stati colti da un processo di amnesia collettiva?

La verità, come spesso accade nella vita, forse sta salomonicamente nel mezzo. I fatti hanno dimostrato che effettivamente in molti casi le attività di restyling eseguite non fossero di prima qualità, tuttavia è altrettanto vero che vuoi per ragioni di ordine pubblico, che per una diversa sensibilità (mutuata dal mondo anglosassone) circa le modalità di fruizione dello spettacolo calcio, la necessità d’intervenire sugli stadi era nuovamente di stringente attualità.

I criteri infrastrutturali, infatti, già con il c.d. pacchetto di norme di sicurezza (cosiddetto decreto Pisanu) avevano subito un sostanziale inasprimento, tanto da prevedere la necessità, tra le altre cose, di avere stadi con tutti i posti a sedere numerati, doppi tornelli, abbattimento delle barriere, sistemi di videosorveglianza. Si consideri che nel 2007, a valle dell’ulteriore misura normativa in tema di sicurezza degli stadi c.d. decreto Amato, solo quattro stadi che ospitavano squadre militanti in serie A erano in grado di rispettare tutte i parametri richiesti dalla normativa.

Ma come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza la necessità di modificare il lay-out degli stadi ha coinciso anche con una nuova realtà correlata alla fruizione del fenomeno calcio, rispetto alla quale, al pari di quanto già avveniva a fine anni ’90 in Inghilterra, lo stadio è allo stesso tempo il tempio in cui viene consacrato settimanalmente l’evento principe per cui è stato costruito, la partita (di calcio o rugby), e la location capace di produrre rilevanti flussi di cassa sulla base delle facilities che riesce ad offrire in relazione al business che il calcio (inteso come prodotto) è in grado di generare. Ecco allora fiorire, all’interno dello stadio, musei dedicati alla squadra proprietaria dell’impianto, business centers, palestre, piscine, ristoranti, vendita dei diritti collegati al nome dello stadio, sky boxes ecc. 

Tutto ciò, come è facile intuire, mal si conciliava con la realtà italiana pre-esistente, rispetto alla quale molto spesso lo stadio nasceva come multi funzionale (quindi dotato di pista di atletica) allontanando lo spettatore dalla piena ed avvolgente fruizione dello spettacolo. Non solo. Dal punto di vista gestionale, lo stadio in passato non ha mai rappresentato per le società di calcio una fonte di guadagni. Anzi,  visto che le società di calcio sono solite pagare il canone per la disponibilità dell’impianto e, nella maggior parte dei casi (ove presenti), non gestiscono alcuno dei servizi ancillari allo stadio stesso (e.g. ristorazione, gestione biglietteria, parcheggi ecc.), questo era fonte di costi.

Il legislatore è intervenuto sulla materia attraverso alcuni commi della legge 27 dicembre 2013, n 147 (la c.d. legge di stabilità 2014), attraverso cui ha provato a dare un nuovo impulso, auspicabilmente risolutivo, alle esigenze connesse alla tematica della edificazione/ristrutturazione degli stadi (la c.d.“Legge Stadi”).

A due anni di distanza dalla promulgazione della Legge Stadi, proviamo a fare il punto della situazione e comprendere se davvero tale legge è stata funzionale alla realizzazione di nuovi stadi.

Partiamo da un dato, al netto dello Juventus Stadium, del Mapei Stadium e dello stadio Friuli (oggi Dacia Arena), appartenenti rispettivamente alla Juventus, Sassuolo ed Udinese, nessuna società di serie A ad oggi detiene la proprietà dello stadio dove gioca. Tuttavia, Roma, Milan, Cagliari, Napoli, Fiorentina (solo per citare le squadre più famose) hanno, a diverso titolo, avviato con i rispettivi Comuni di competenza, procedure per l’individuazione dell’area su cui realizzare il proprio stadio e/o per la riqualificazione di quelli esistenti. 

In particolare la Legge Stadi si fonda su alcuni capisaldi: (i) la semplificazione/accelerazione delle procedure burocratiche; (ii) la possibilità di offrire ai promotori l’accesso ai più sofisticati strumenti di finanziamento (e.g. il project financing; project bond); (iii) la possibilità di avere accesso al fondo di garanzia, che fornisce garanzie sussidiarie a quella ipotecarie per i mutui relativi alla costruzione, all'ampliamento, all'attrezzatura, al miglioramento o all'acquisto di impianti sportivi, ivi compresa l'acquisizione delle relative aree da parte di società o associazioni sportive dilettantistiche con personalità giuridica.

Il punto di forza della Legge Stadi, forse passato inosservato da parte dei commentatori della prima ora, sta nell’aver sostanzialmente ricondotto l’infrastruttura stadio, ancorché di proprietà di un soggetto privato, tra i beni di pubblica utilità, tale per cui possa essere dichiarato dal Comune l’interesse pubblico dell’opera. Come noto, a mente dell’art. 2 della L. n. 2359/1865, possono essere dichiarate di pubblica utilità non solo le opere che si debbano eseguire nell’interesse pubblico per conto dello Stato, delle province dei Comuni, ma anche quelle che allo stesso scopo intraprendono corpi morali, società private o particolari individui.

Tale escamotage giuridico permette quindi all’amministrazione di estendere automaticamente a beneficio dei promotori dell’iniziativa, le procedure amministrative più snelle per arrivare alla cantierizzazione dell’opera. Si potrebbe quasi ipotizzare che il legislatore abbia voluto in un certo senso ampliare la platea del cosiddetto “partneraiato pubblico privato istituzionalizzato”, quello cioè che, secondo alcuni studiosi, pur non ricadendo nell’alveo del contratto di partnerariato pubblico privato in senso stretto, previsto ai sensi del codice degli appalti (i.e. concessioni di lavori/servizi, sponsorizzazione, locazione finanziaria, disponibilità), vede la fattiva partecipazione della pubblica amministrazione (anche attraverso il supporto di un fondo di garanzia) affinché sia realizzato un progetto di pubblico interesse,  in cui i ricavi commerciali prospettici consentono di prevedere un integrale recupero dei costi di investimento sopportati dal privato.

Tuttavia, l’apparente sforzo ampliativo del larvale genus dei PPP dato dalla dichiarazione di pubblica utilità estesa anche agli stadi “privati”, cioè quelli edificati da privati su aree private, viene in un certo senso vanificato dal permanere della sostanziale dicotomia tra gli stadi “privati” e gli interventi che sono “da realizzare su aree di proprietà pubblica o su impianti pubblici esistenti”. Apparentemente, ai sensi della letterale lettura della lettera d) del comma 304, solo a questi ultimi impianti si applicano, in quanto compatibili, le previsioni del Codice degli Appalti in materia di finanza di progetto. Gli impianti “privati” dunque, nonostante la dichiarazione di pubblica utilità, continuerebbero a non beneficiare di nessun altro titolo al di fuori delle necessarie autorizzazioni edilizie che, tuttavia non possono essere equiparate alla concessione di costruzione e gestione e/o agli altri contratti di natura pubblicistica di cui beneficiano gli interventi di partenariato pubblico privato (e.g. contratto di disponibilità).

Il mancato riconoscimento di un titolo, allo stato autorizza a ritenere ad escludere la possibilità di estendere per via analogica agli stadi “privati” le norme di settore in materia di  project financing, in quanto opere di pubblica utilità, sembra se non proprio compromettere - c’è sempre la previsione dell’accesso al fondo di garanzia di cui sopra -, quantomeno limitare a mera dichiarazione d’intenti uno dei presupposti per i quali la Legge Stadi era stata varata, ossia l’accesso a modalità innovative di finanziamento, quali ad esempio i “project bond” di cui all’art. 157 del Codice degli Appalti. A mente di detto articolo possono emettere obbligazioni e/o titoli di debito, in deroga di una serie di previsioni del codice civile, tutte le società progetto che realizzino infrastrutture pubbliche o di pubblica utilità, nonché le società che abbiano un contratto di partenariato pubblico privato. Che la questione della estensibilità dei benefici di cui all’art. 157 del Codice degli Appalti sia tutt’altro che banale, lo si evince anche dalla recente modifica all’articolo stesso per cui è stato espressamente chiarito che la norma si applica alle società titolari delle autorizzazioni alla costruzione d’infrastrutture del Piano di sviluppo della rete energetica, a quelle titolari di autorizzazioni per la realizzazione di reti di comunicazione elettronica e alle società titolari di licenze individuali per l’installazione e la fornitura di reti di telecomunicazioni pubbliche. Ragione per cui, allo stato attuale, ci sentiamo di poter escludere tale rinvio analogico in tema di edificazione di stadi “privati”.

In mancanza di un espresso contratto di Partenariato Pubblico Privato, l’equiparazione tra le due tipologie di stadi, avrebbe potuto avvenire con la semplice inclusione del promotore, una volta che lo stadio sia stato dichiarato di pubblico interesse, tra le società di progetto di cui all’art. 156 del Codice degli Appalti e la espressa menzione dell’applicabilità anche a questa fattispecie delle norme in materia di project financing, in quanto applicabili. Tale inclusione, avrebbe reso immediatamente estensibile in via analogica, anche agli stadi privati, le disposizioni in materia di project bond e/o di privilegi su crediti in favore dei soggetti finanziatori.  Norme che sono state salutate con favore da parte del mercato finanziario, in quanto strumenti in grado di facilitare l’accesso al mercato alternativo al finanziamento delle infrastrutture pubbliche o di pubblico interesse. Tale previsione consentirebbe di dare piena attuazione al presupposto della Legge Stadi di consentire ai promotori l’accesso a modalità innovative di finanziamento.

Come noto la Legge Stadi richiedere ai fini della dichiarazione di pubblico interesse da parte del Comune interessato che venga depositato dai soggetti promotori “[..] uno studio di fattibilità, a valere quale progetto preliminare [..]”corredato di un piano economico finanziario e di un accordo con una (o più) associazione/i sportive utilizzatrici prevalenti dell’impianto. All’occhio dell’osservatore più attento, tuttavia, non sarà sfuggito come l’implicito rinvio alla procedura di cui all’art. 153 del Codice degli Appalti (n.d.r. in materia di project financing) contenga una omissione piuttosto significativa, quella relativa all’asseverazione del piano economico finanziario da parte di una banca e/o soggetto terzo asseveratore.

Con riferimento agli stadi da realizzare su terreni di proprietà pubblica o di proprietà di enti pubblici, la lacuna appare piuttosto grave e inspiegabile, se solo si considera che tanto a livello nazionale che comunitario ormai la tematica della bancabilità del progetto ha assunto un ruolo cruciale. Il Codice degli Appalti prevede espressamente che negli affidamenti di concessioni in project financing, non solo il piano economico finanziario debba essere asseverato, ma è altresì richiesta l’evidenza del coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori nel progetto. Anche con riferimento alle concessioni per la realizzazione/gestione dello opere pubbliche, il Codice degli Appalti richiede che le offerte debbano prevedere il preliminare coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori (n.d.r. che si suppone che abbiano preventivamente asseverato il piano economico finanziario). Addirittura il bando potrebbe prevedere che la stessa offerta debba essere corredata anche da una manifestazione d’interesse a finanziare l’operazione sottoscritta da uno o più istituti di credito.

Sebbene si possa ipotizzare, almeno per quel che attiene la realizzazione/ristrutturazione di stadi “privati”, che tale omissione vada letta in un’ottica di sostanziale semplificazione della procedura, tuttavia non si può tacere che uno dei capisaldi della Legge Stadi, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli stessi, consiste nel mantenimento dell’equilibrio economico finanziario del progetto. Ebbene, in tal caso non si vede come il piano economico finanziario allegato al studio di fattibilità, che costituisce un parametro assolutamente nodale ai fini della determinazione di possibili squilibri economici finanziari, possa essere lasciato alla sola determinazione di una delle parti in gioco, che peraltro  ha tutto l’interesse a spostare verso l’alto i parametri di equilibrio economico-finaziario.

Del resto, ai fini della dichiarazione di pubblica utilità e/o della successiva conferenza di servizi decisoria (si veda infra) di cui alla Legge Stadi, lo studio di fattibilità ed il corredato modello economico finanziario, appaiono cruciali nella logica della valutazione della opere di urbanizzazione e delle modifiche al progetto che potrebbero essere richieste dalle amministrazioni pubbliche sulla base delle analisi socio economiche dell’opera rispetto all’area in cui essa dovrà essere realizzata e/o rispetto al contesto produttivo e commerciale esistente.

Su queste basi le amministrazioni locali da una parte chiedono ai soggetti proponenti, soprattutto per quel che attiene la costruzione di stadi exnovo, i maggiori e più gravosi interventi di urbanizzazione e/o riqualificazione delle aree su cui è prevista la costruzione dello stadio. Di converso, gli enti locali sono chiamati a riconoscere ai proponenti analoghe quantità d’interventi compensativi, al fine di garantire il rispetto dell’equilibrio economico finanziario del progetto, che si tramutano fatalmente in metri cubi edificabili aggiuntivi per poter rendere finanziariamente sostenibile il progetto.

In funzione di quanto sopra la: (i) asseverazione del piano economico finanziario da parte di un soggetto terzo; e (ii) la previsione della presenza degli istituti di credito fin dagli albori della proposizione del progetto, permetterebbe, la supervisione da parte di esperti terzi del modello economico finanziario e la copertura economica dell’opera, che è la migliore garanzia per evitare la realizzazione di cattedrali nel deserto o, ciò che è anche peggio, l’interruzione del progetto a metà causa il venir meno dei fondi.

Sempre con riferimento al tema dell’impatto dello stadio sul tessuto economico sociale della città, è appena il caso di dire che, almeno con riferimento agli stadi da realizzare ex novo, sarebbe stato davvero importante prevedere l’inserimento anche in via sperimentale del cosiddetto “debàt public”o “Planning Act” tipico delle esperienze francesi e anglosassoni in tema di lavori pubblici. Ciò avrebbe permesso il coinvolgimento preventivo della cittadinanza interessata dalla realizzazione dello stadio, al fine di evitare possibili fenomeni di NIMBY (“not in my back yard”) che spesso contribuiscono, unitamente alle lentezze burocratiche a ritardare (se non ad interrompere del tutto) la realizzazione delle opere pubbliche.

Sempre a proposito di tempistiche burocratiche, la Legge Stadi ha riservato, almeno sulla carta come vedremo, una corsia privilegiata rispetto alle procedure connesse alle conferenze di servizi. Infatti, vengono previste due conferenze: una preventiva, che dovrebbe concludersi, entro novanta giorni dalla presentazione dello studio di fattibilità, con la dichiarazione di pubblico interesse della proposta e l’eventuale indicazione delle condizioni necessarie per ottenere i successivi atti di assenso sul progetto. Una decisoria, a valle del deposito presso il Comune interessato del progetto definitivo. A tale conferenza sono chiamati a partecipare tutti i soggetti ordinariamente titolari di competenze in ordine al progetto presentato e può concludersi con la richiesta al proponente di modifiche al progetto strettamente necessarie e/o con la relativa delibera di approvazione in via definitiva del progetto. La procedura decisoria deve concludersi entro centoventi giorni dalla presentazione del progetto.

In caso di superamento dei termini sopra descritti, la Legge Stadi prevede inoltre che, con particolare riferimento agli stadi più grandi (i.e. quelli con capienza compresa tra 4 e 20 mila spettatori all’aperto) sia il Consiglio dei ministri, previo parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici (da esprimersi entro trenta giorni dalla richiesta) ad adottare in via sostitutiva, entro il termine di sessanta giorni, i provvedimenti necessari.

La Legge Stadi sul piano autorizzatorio ha, in un certo senso, anticipato quelle che sono gli indirizzi di cui alla bozza del Decreto Legislativo approvata dal Consiglio dei Ministri, in esame preliminare, lo scorso 21 gennaio e recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (c.d.” legge Madia”). Senza voler scendere in questa sede nell’esame analitico del decreto legislativo sopra richiamato, basti ricordare che ai sensi di quest’ultimo vengono apportate significative semplificazioni e snellimenti nell’ottenimento dell’assenso alle procedure di conferenza decisoria e preliminare, prevedendo anche in questo caso il rimedio ultimo dell’opposizione al Consiglio dei Ministri che sarà chiamato, in tempi sufficientemente rapidi, ad adottare una deliberazione in merito alla conclusione delle conferenza di servizi.

Tuttavia, il problema maggiore da un punto di vista autorizzatorio risiede nel fatto che, avendo la Legge Stadi come obiettivo prioritario il recupero degli impianti esistenti (cfr. comma 305), anche l’iter autoirzzatorio semplificato è stato pensato unicamente in quella direzione. La Legge Stadi infatti non contempla gli aggravi procedurali rivenienti dai riequilibri economici finanziari dovuti alle modifiche progettuali richieste dagli enti locali competenti. La Legge Stadi, infatti, escludendo  espressamente che la procedura semplificata di cui all’iter sopra descritto possa trovare attuazione per opere non strettamente funzionali allo stadio e/o di natura residenziale, di fatto costringe i promotori (n.d.r. il caso Roma docet) all’apertura di un doppio binario autorizzatorio con evidenti innalzamenti dei costi, allungamento dei tempi ed incertezza, fino alla fine, circa la reale fattibilità dell’opera. Tutto questo ovviamente rischia di limitare il reale interesse delle società alla realizzazione degli stadi.

Si auspica quindi che tale spinosa, quanto essenziale, tematica possa trovare soluzione con il decreto legislativo attuativo della legge Madia, che laddove più celere ed efficace, ai sensi del comma 304 lett. e) della Legge Stadi, dovrebbe trovare automatica attuazione.

In conclusione, possiamo dire che la Legge Stadi contiene in sé validi spunti che, con pochi ma auspicabili interventi, potrebbero dare un significativo impulso alla crescita del settore. Ricordiamo infatti che la realizzazione e gestione di stadi di proprietà si è rivelato un business senz’altro profittevole per le società di calcio (si pensi che nel 2014 la Juventus ha ricavato circa 50 Mln. dalla sola gestione dello stadio),  ma che tarda a prendere piede in Italia anche in relazione alle criticità sopra ricordate. La speranza è che, anche alla luce della candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024, il legislatore voglia risolvere le ultime criticità ancora riscontrabili sul tema sì da potersi dotare di un nuovo volano per lo sviluppo del settore infrastrutturale italiano che rimane strategico per l’Italia.

  (31 marzo 2016)

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