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ISSN 2532-8913

In pratica: come si struttura un Antitrust Compliance Programme (di Francesco Piron)

In pratica: come si struttura un Antitrust Compliance Programme

(di Francesco Piron)

Il primo obiettivo nella strutturazione di qualsiasi ACP è evitare che lo stesso si traduca in un mero esercizio teorico o nella episodica trasmissione ai dipendenti e ai managers aziendali di dati e nozioni privi di un adeguato riscontro pratico e di un concreto risvolto operativo (circostanza che, altrimenti, vanificherebbe del tutto l’effettiva utilità del programma stesso).

Normalmente infatti si prevede che, accanto ad una (pur imprescindibile) attività didattica e documentale (consistente nell’organizzazione di workshop a tema e nella predisposizione di Guidelines di condotta antitrust aziendale), sia previsto anche lo svolgimento di sessioni periodiche di verifica ed aggiornamento, nonché il monitoraggio della documentazione contrattuale predisposta dal soggetto che si dota dell’ACP, al fine di evitare di incorrere in eventuali illeciti concorrenziali.

Ciò premesso, solitamente un Antitrust Compliance Program si articola in almeno 3 fasi:

PRIMA FASE: Esame giuridico-economico del contesto di riferimento.

Tra le attività ricomprese nell’esame giuridico-economico del contesto di riferimento sono incluse:

a. Esame approfondito della struttura del Gruppo societario ed individuazione dei diversi settori e mercati nei quali esso opera o nei quali, comunque, è in grado di esercitare (direttamente o indirettamente, tramite società collegate o partecipate) una influenza sensibile dal punto di vista concorrenziale;

b. Definizione, individuazione ed analisi dei “mercati rilevanti” sia dal punto di vista del prodotto (mediante identificazione di tutti i prodotti o servizi suscettibili di entrare in concorrenza con quelli della società/gruppo che si dota dell’ACP in quanto con essi intercambiabili o sostituibili dal punto di vista della domanda in ragione del relativo prezzo, uso e caratteristiche) che dal punto di vista geografico (mediante identificazione del territorio nel quale i prodotti o servizi dell’azienda che si dota dell’ACP vengono forniti in condizioni di concorrenza sufficientemente omogenee rispetto ad aree geografiche contigue, nelle quali le condizioni di concorrenza sono invece sensibilmente diverse);

c. Analisi – con riferimento a ciascuno dei mercati rilevanti come sopra individuati – delle principali caratteristiche e delle strategie competitive adottate dagli operatori concorrenti, della possibile evoluzione dei mercati stessi e degli scenari competitivi nel settore specifico.

d. Analisi e valutazione, per ciascuna Business Unit dell’azienda che si dota dell’ACP, delle modalità operative concretamente adottate dalle società che ne fanno parte nell’esercizio delle proprie attività (mediante interviste mirate ai soggetti che, in ragione delle mansioni svolte, potrebbero esporre la società alla violazione della normativa antitrust; ed esame della documentazione contrattuale e commerciale abitualmente utilizzata).

e. Valutazione della posizione competitiva e della quota di mercato detenuta dal Gruppo (e delle sue Business Units) in ciascuno dei “mercati rilevanti” individuati ai sensi del punto b) che precede;

f. Ricognizione e studio dei provvedimenti delle Autorità antitrust nazionali e comunitarie relativi ai mercati oggetto dell’attività del Gruppo;

* * *

SECONDA FASE: Risk assessment e predisposizione dell’Antitrust Compliance Program

La seconda fase prevede, in relazione a ciascuna Business Unit, lo svolgimento delle seguenti attività:

a. Identificazione (alla luce dei dati e delle informazioni raccolti nel corso della prima fase del programma) e segnalazione delle eventuali situazioni di potenziale criticità antitrust rilevate ed individuazione delle possibili soluzioni.

L’impatto dei rischi significativi deve essere valutato con riferimento alla possibilità di:

• impatto negativo sulla reputazione;

• ammende comminate all’azienda, soggette ad aumenti in caso di recidiva;

• azioni di risarcimento del danno;

• attività che esulino dal core business dell’azienda;

• spese legali;

• nullità di accordi e/o clausole anticoncorrenziali;

• ammende e, in alcuni casi, interdizione dallo svolgimento di attività professionali e responsabilità

penale di dirigenti e personale dell’azienda;

• riduzione di personale qualora vengano avviati procedimenti disciplinari interni.

b. Predisposizione di Guidelines di condotta antitrust (che verranno illustrate e presentate a dirigenti e quadri nel corso dei workshop aziendali) contenenti una descrizione sintetica della normativa di riferimento (focalizzandosi in particolare sui mercati rilevanti per l’attività della Business Unit), nonché l’individuazione di uno standard operativo di procedura interna che consenta, da un lato, l’individuazione preventiva di eventuali situazioni di potenziale rilevanza sotto il profilo antitrust (c.d. “risk assessment”) e, dall’altro, la corretta e rapida adozione di misure da parte dell’impresa idonee a prevenire, eliminare o ridurre il rischio di eventuali violazioni di legge;

c. Workshop aziendali finalizzati ad illustrare a dirigenti, quadri e responsabili commerciali della Business Unit le Guidelines e la normativa antitrust rilevante per lo specifico settore in cui opera la Business Unit, fornendo loro informazioni concrete circa le modalità di gestione dei contratti e dei rapporti commerciali, nonché ulteriori suggerimenti pratici circa il linguaggio da utilizzare nelle comunicazioni interne ed esterne, il sistema di documentazione interna, le condotte da seguire in caso di richieste di informazioni o ispezioni a sorpresa (c.d. “dawn raids”) da parte dei funzionari della Autorità antitrust ed i principali diritti spettanti all’impresa soggetta ad ispezione ed i principali diritti che spettano all’impresa soggetta ad ispezione (“right to legal advice”, “right against self incrimination”, “legal professional privilege”, “relevance” and “confidentiality”)

d. Predisposizione, in funzione delle specifiche esigenze di ciascuna Business Unit, di una “check list antitrust” (destinata, in particolare, ai ruoli interni organizzativi, ai top managers o dirigenti in posizione critica che, in ragione delle mansioni svolte, potrebbero esporre l’impresa alla commissione di violazioni di natura antitrust) al fine di fornire un supporto pratico e veloce per individuare i comportamenti in linea di massima vietati, quelli conformi alla normativa e quelli che richiedono invece un attenta valutazione, caso per caso, con i consulenti legali interni e/o esterni.

* * *

TERZA FASE: Aggiornamento e monitoraggio periodico

La terza fase del programma, successiva al completamento della fase prettamente didattica, ha lo scopo di verificare periodicamente (con cadenza semestrale o annuale) l’effettivo recepimento da parte dei dirigenti e quadri delle nozioni e dei principi loro trasmessi nel corso dell’ACP, fornendo altresì gli eventuali aggiornamenti che dovessero rendersi necessari a seguito dell’evoluzione della normativa antitrust nazionale e comunitaria e garantendo la costante disponibilità di consulenza in materia.

La valutazione del rischio residuo o “netto” successiva alla prima attuazione dell’ACP dipende da una valutazione critica dell’efficacia dei controlli. Al fine di misurare e fare un bilancio del rischio residuo, è possibile valutare i seguenti elementi:

• esistono misure di controllo?

• come vengono documentati i controlli?

• come vengono articolati i controlli (sono chiari e inequivocabili)?

• la documentazione relativa ai controlli è facilmente reperibile e costantemente aggiornata?

• in che modo il personale viene a conoscenza dell’esistenza delle misure di controllo?

• qual è il “tasso di successo” (per esempio la percentuale di personale formato con successo)?

• che tipo di struttura occorre per monitorare attraverso i controlli il grado di conoscenza e di conformità?

• che tipo di sanzioni sono previste nel caso in cui i controlli non siano stati svolti adeguatamente?

La valutazione degli elementi succitati consente all’azienda di rivedere le proprie stime di rischio sulla base delle risultanze e determina l’opportunità/necessità per l’azienda di optare per ulteriori azioni/controlli.

Sempre a tal fine, solitamente si predispongono:

a. periodici “antitrust awareness tests” aziendali (destinati ai ruoli interni organizzativi, ai dirigenti ed ai quadri che, in ragione delle mansioni svolte, possano esporre l’impresa alla commissione di violazioni di natura antitrust) finalizzati a valutare l’effettivo recepimento da parte degli stessi delle nozioni antitrust loro trasmesse nel corso dell’ACP ed il grado di consapevolezza degli obblighi loro derivanti nello svolgimento delle attività aziendali;

b. Workshop aziendali periodici (almeno uno all’anno) finalizzati all’aggiornamento del personale, nonché a colmare le eventuali lacune o incertezze in materia antitrust che dovessero emergere dai risultati degli awareness tests di cui al precedente punto a);

c. Consulenza in materia contrattuale ed antitrust al fine di monitorare – secondo le richieste ed esigenze aziendali che variano da caso a caso – il contenuto di contratti, accordi ed intese di cui siano parte le società del gruppo che si dota dell’ACP evitando che le stesse incorrano in violazioni della normativa antitrust.

***

Magari l’analisi e la costruzione in concreto di un ACP fosse solo questo. Le attività che un serio ACP richiede sono time consuming e molteplici, altrettanti però sono i vantaggi che derivano dalla sua implementazione (!). 

   (24 febbraio 2016)

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Prevenire è meglio che curare: gli Antitrust Compliance Program (di Francesco Piron)

Prevenire è meglio che curare: gli Antitrust Compliance Program

(di Francesco Piron)

Negli ultimi anni i settori dell’energia elettrica e del gas naturale sono stati - sotto il profilo antitrust - oggetto di grande attenzione sia da parte degli organismi comunitari (dalla c.d. “sector inquiry” nel settore energetico all’ambizioso progetto “Towards an Energy Union” annunciato dalla Commissione lo scorso febbraio) sia delle autorità nazionali garanti della concorrenza (si vedano le recenti indagini conoscitive congiunte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato “AGCM” e dell’Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico “AEEGSI” in materia di stoccaggio, di aggiornamento dello stato della liberalizzazione nel settore dell’energia elettrica e del gas naturale, i numerosi casi di procedimenti istruttori avviati in materia di energia, ecc.).
Nella prospettiva degli operatori ciò ha significato, nel corso degli anni, l’avvio di numerosi procedimenti sanzionatori ed attività d’indagine culminati spesso con misure particolarmente onerose, quali misure cautelari, ordini di cessazione della condotta lesiva e sanzioni pecuniarie amministrative che, nel caso di comportamenti illeciti dal punto di vista antitrust, possono, a seconda della gravità, arrivare addirittura ad importi pari al 10% del fatturato totale realizzato dal Gruppo a cui appartiene l’impresa ritenuta responsabile.
Anche di recente, l’AGCM, in esito ad una complessa istruttoria, in cui ha coinvolto l’AEEGSI per gli aspetti strettamente regolatori, ha inflitto complessivamente 6 milioni di euro di sanzioni a diversi esercenti la vendita di energia elettrica e/o gas naturale per violazioni circa le nuove regole e procedure contrattuali in tema di vendite fuori dei locali commerciali o a distanza introdotte dalla “Consumer Rights Directive” recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 21/2014 (si veda il Bollettino AGCM n. 44/2015 del 07/12/2015).
Anche questi più recenti “casi di cronaca” evidenziano quanto oggi sia sempre più importante per le società di settore dotarsi di efficaci strumenti di compliance tesi a prevenire la commissione di violazioni della normativa antitrust e/o regolamentare nonché rivolti a rispondere in modo adeguato e organizzato alle eventuali attività di vigilanza (ispezioni, richieste di informazioni ecc.) poste in essere dagli Uffici delle Autorità antitrust e/o da quelle di Regolazione. E’ utile evidenziare, infatti, che la stessa previsione di un compliance program adottato all’interno della società potrebbe essere valutata come “comportamento operoso”, e portare quindi ad una riduzione dell’importo di eventuali sanzioni.

Come noto, la finalità principale dei programmi di compliance è la prevenzione della commissione di comportamenti in contrasto con la normativa antitrust e regolamentare del settore specifico.

In ambito antitrust ad esempio, a livello comunitario, nel documento “Compliance matters. What companies can do better to respect EU competition rules”[1] , la Commissione Europea “suggerisce” alle imprese di dotarsi di un programma di compliance antitrust al fine di prevenire la violazione delle regole di concorrenza fissate dall’Unione Europea [2]. Nella medesima pubblicazione la Commissione Europea afferma peraltro che: “La Commissione non intende imporre obblighi, ma un’azienda dovrebbe stanziare risorse sufficienti — adeguate alle proprie dimensioni e ai rischi cui è esposta — all’elaborazione di un programma di compliance credibile”.

A livello nazionale, l’AGCM nelle proprie “Linee guida sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità” [3] , individua - tra le circostanze attenuanti ai fini dell’adeguamento dell’importo della sanzione - l’adozione ed il rispetto di uno specifico programma di compliance, adeguato ed in linea con le best practice europee e nazionali.

Il c.d. Antitrust Compliance Program (“ACP”), ovvero programma di conformità alla normativa antitrust è, insomma, uno strumento particolarmente consigliabile, non solo per le imprese che detengono nel/i mercato/i rilevante/i una posizione dominante (anche a livello di Gruppo) – vuoi per la loro posizione di monopolisti legali (TSO, distributori ecc.) vuoi per il significativo grado di potere di mercato esercitato –, ma anche per quelle imprese che, pur non avendo una posizione dominante all’interno dello/degli stesso/i, hanno comunque una posizione “non irrilevante” in quanto nello svolgimento della proprie attività:
(i) rivestono una posizione di “controparte necessaria” in virtù della gestione di una infrastruttura essenziale (ad es. gestore di un terminale di rigassificazione);
(ii) stipulano accordi, a monte o a valle del mercato rilevante ove operano, con altre imprese, direttamente o potenzialmente, concorrenti (ad es. grossisti e società di vendita di gas e energia elettrica);
(iii) hanno occasioni di frequenti contatti con imprese, direttamente o potenzialmente, concorrenti (es. partecipando attivamente ad associazioni di imprese o di categoria, consorzi, ecc.);
(iv) operano su mercati “regolati” e quindi soggetti ad una azione particolarmente incisiva di vigilanza da parte delle autorità a ciò preposte com’è nel caso appunto degli operatori soggetti alla regolazione dell’AEEGSI.

In concreto, l’ACP consiste nel prevedere una serie di procedure aziendali interne che permettano all’impresa interessata, e soprattutto ai loro top managers, di tenere in debito conto i vincoli posti dalle norme imperative a tutela della concorrenza e da quelle di regolazione specifiche del settore, limitando al minimo i rischi di violare tali norme e quindi di essere sottoposti a onerosi procedimenti sanzionatori. Inoltre, l’ACP fornisce suggerimenti pratici circa il linguaggio da utilizzare nelle comunicazioni interne ed esterne, l’uso della posta elettronica e delle segreterie telefoniche, il sistema di documentazione interna, ecc., nonché altri suggerimenti circa le condotte interne da seguire in caso di richieste di informazioni ed ispezioni a sorpresa (c.d. “dawn raids”) da parte dei funzionari dell’Antitrust e, con preavviso, da parte dell’autorità di regolazione, ed i principali diritti dell’impresa soggetta ad ispezione (“right to legal advice”, “right against self incrimination”, “legal professional privilege”, “relevance” and “confidentiality”).

Tra le principali finalità infatti dell’ACP, assumono particolare rilievo le seguenti:
(i) aumentare il grado di consapevolezza della normativa specifica di settore e di quella antitrust tra il personale direttivo direttamente coinvolto in attività decisorie/operative sensibili sotto il profilo antitrust;
(ii) prevenire la violazione della normativa di settore e di quella antitrust nazionale e comunitaria da parte dei managers e dei dipendenti dell’impresa interessata così come da parte dei soggetti esterni ma strettamente collegati all'impresa (es. fornitori, clienti);
(iii) instaurare confronti dialettici con le autorità antitrust e con le altre autorità di regolazione anche al fine di ottenere risposte sulla legittimità delle azioni intraprese dall’impresa in anticipo rispetto all’inizio di un eventuale procedimento/indagine;
(iv) guadagnare in termini di immagine e credibilità nei confronti di interlocutori esterni (tra cui le stesse autorità).

Quanto alla struttura ed ai contenuti di un ACP, premesso che ogni Programma deve necessariamente essere personalizzato in relazione alle specifiche esigenze dell’impresa/gruppo societario che intende dotarsi dello stesso e alle peculiari caratteristiche del mercato rilevante in cui essa opera, nella sezione “IN PRATICA” della presente rivista ho individuato, sperando di fare cosa utile per gli operatori pratici e per coloro che vogliano studiare, con approccio empirico, il tema, gli elementi fondamentali di un ACP.
In conclusione, il segreto per un qualsiasi programma di compliance di successo, sia esso relativo a problematiche antitrust sia ad altri temi di compliance regolamentare (e non solo), consiste nel far sì che i comportamenti in esso previsti entrino a far parte della cultura aziendale. Il programma di compliance deve essere progettato per promuovere una cultura etica durevole dell’integrità antitrust, in grado di favorire la libera ed equa concorrenza e il pieno rispetto della legge.

  (24 febbraio 2016)

[1] http://ec.europa.eu/competition/antitrust/compliance/

[2] Cfr. “Compliance matters. What companies can do better to respect EU competition rules”, par. 1.2 Benefits of compliance, pag. 9 “One important reason why a company should comply with competition rules, apart from being seen as doing business ethically, is the potentially high cost of non-compliance”.

[3] Cfr. delibera AGCM 22 ottobre 2014, n. 25152: “… 23. Le circostanze attenuanti includono, a titolo esemplificativo: - (…) l’adozione e il rispetto di uno specifico programma di compliance, adeguato e in linea con le best practice europee e nazionali. La mera esistenza di un programma di compliance non sarà considerata di per sé una circostanza attenuante, in assenza della dimostrazione di un effettivo e concreto impegno al rispetto di quanto previsto nello stesso programma (attraverso, ad esempio, un pieno coinvolgimento del management, l’identificazione del personale responsabile del programma, l’identificazione e valutazione dei rischi sulla base del settore di attività e del contesto operativo, l’organizzazione di attività di training adeguate alle dimensioni economiche dell’impresa, la previsione di incentivi per il rispetto del programma nonché di disincentivi per il mancato rispetto dello stesso, l’implementazione di sistemi di monitoraggio e auditing)”.

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Dialogo tra un imprenditore vitivinicolo (Bernardino Sani) e un avvocato esperto del settore (Paolo Biasin)

Dialogo tra un imprenditore vitivinicolo (Bernardino Sani[1]e un avvocato esperto del settore  (Paolo Biasin[2])

Risposte a qualche caso pratico in viticoltura

IMPRENDITORE: Buongiorno Avv. Biasin, come può immaginare operare in Italia in un settore come quello della viticoltura è divenuto oramai un percorso a ostacoli, tra centinaia di disposizioni locali, nazionali e comunitarie, spesso tra loro non coerenti e soggette a diverse interpretazioni, ostacoli burocratici e adempimenti amministrativi.

ESPERTO: Buongiorno Dott. Sani, purtroppo anche dalla mia esperienza, Le confermo che molti imprenditori del settore, nostri assistiti, debbono quotidianamente districarsi in una vera e propria selva di adempimenti e prescrizioni burocratiche.

IMPRENDITORE: Guardi avvocato, tra le tante tematiche critiche, si può partire – è proprio il caso di dire “dal basso” –  dalla concimazione… Ebbene, mi chiedevo cosa prevede esattamente il quadro normativo circa i quantitativi massimi di distribuzione di letame per ettaro (nitrati nel terreno)? Valgono tali limiti anche per un qualsiasi concime chimico di sintesi?

ESPERTO: Per quanto riguarda la concimazione, osserviamo che tutta la tematica è oggetto di particolare attenzione sin dall’introduzione della c.d. direttiva “Nitrati”, n. 91/676/CEE. Con tale normativa, diretta principalmente alla tutela delle acque dall’inquinamento da azoto nitrico conseguente all’attività zootecnica ed agricola, l’Unione Europea ha fissato un limite allo spandimento degli effluenti zootecnici pari a 170 kg di azoto per ettaro (210 kg/ha per i primi quattro anni). Inoltre la direttiva ha imposto alla normativa nazionale e, successivamente, a quella regionale di individuare determinate zone vulnerabili (già inquinate o sottoposte a rischio senza un adeguato intervento) per le quali predisporre specifici programmi d’azione (ovvero presentare una specifica comunicazione ovvero un piano di utilizzazione agronomica PUA).

Le normative regionali in genere – quali ad esempio quelle della Toscana e del Veneto – nel definire la normativa di dettaglio, si sono in effetti concentrate, più che sui fertilizzanti di sintesi, principalmente sull’utilizzo degli effluenti da allevamento (letami e liquami) per i quali sono state previste delle restrizioni specifiche in tema di spandimento, stoccaggio etc., aspetti che evidentemente poco interessano i concimi chimici. Ciò anche in ragione del contenuto della direttiva comunitaria la quale prevede appunto la possibilità di stabilire specifiche restrizioni nell’impiego di concimi organici animali.

IMPRENDITORE: Ma Le sembra corretta la possibilità di regimi differenziati a seconda dei casi?

ESPERTO: La possibilità di un “regime differenziato”, ovvero della mancanza di un limite massimo di nitrati per ettaro, in caso di utilizzo di concimi chimici rispetto ai limiti espressamente indicati per i liquami, non sembra affatto coerente con le finalità della direttiva comunitaria. E’ proprio la direttiva a stabilire che i programmi di azione possono comportare l’adozione di misure dirette a limitare l’impiego di fertilizzanti contenenti azoto, indiscriminatamente sia di origine animale sia chimica e di sintesi; del resto, la principale finalità della direttiva è, come detto, proprio la tutela delle acque e la riduzione dell’inquinamento idrico.

Pertanto, pur essendo possibile rilevare una mancata esplicitazione normativa, si può comunque ritenere che si debba garantire la tutela dal rischio ambientale di inquinamento delle acque in tutti i casi in cui si utilizzino fertilizzanti contenenti azoto.

IMPRENDITORE: Interessante. Mi vien voglia di sottoporLe un altro tema spinoso, quello sull’abbruciamento dei residui agricoli.Mi risulta che lo scorso anno sia stata approvata una legge che non permette di bruciare i residui agricoli come avveniva in passato. Adesso, a distanza di un anno, sembra che si vada per quantitativi minimi giornalieri. In poche parole se uno fa un falò tutti i giorni può bruciare più di prima e nessuno può controllare. In concreto, noi lo scorso anno abbiamo acquistato una costosa macchina cippatrice di cui potevamo fare a meno per adeguarsi alla nuova legge.

ESPERTO: Per quanto attiene l’abbruciamento dei residui agricoli la normativa, sebbene anche in questo caso oggetto di vari interventi “stratificati”, risulta per certi versi più chiara e semplice. La disciplina di settore va rinvenuta nella legge n. 116/2014, di conversione del decreto legge n. 91/2014 (c.d. “Decreto Competitività”) e in particolare nell’art. 14 del decreto n. 91/2014, che disciplina vari aspetti relativi allo smaltimento dei rifiuti. Per quel che ci interessa, con riferimento alla bruciatura dei residui colturali, viene confermata l’esclusione dalla gestione dei rifiuti di una quantità giornaliera inferiore ai tre metri steri ad ettaro. Il testo definitivo della norma è il seguente:

Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti.

Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.

I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)”.

Come si vede, la possibilità di bruciare, entro limiti giornalieri stabiliti, i residui colturali, non viene più presentata come una semplice deroga ma come una normale pratica colturale.Inoltre, i Comuni possono indicare non più i luoghi e i periodi in cui tale pratica è consentita, ma, al contrario, luoghi, tempi e modalità vietati. Per completezza, si deve anche considerare che, in sede di conversione del decreto n. 91/2014, è stata introdotta – sempre nel comma 8, recante le modifiche al Codice ambientale – una nuova norma di modifica dell’art. 256-bis (articolo, quest’ultimo, che aveva inserito nel Codice ambientale le sanzioni penali per la bruciatura dei rifiuti) escludendo da tali sanzioni la bruciatura di materiale vegetale.

Il testo è il seguente: “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente articolo non si applicano all'abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato.Questa norma è senz’altro positiva, perché corregge un’evidente sproporzione – più volte segnalata da molte associazioni di categoria – che l’introduzione dell’articolo 256- bis nel Codice ambientale aveva creato.

IMPRENDITORE: Ma allora ciò significa una sorta di totale depenalizzazione dell'abbruciamento di materiale?

ESPERTO: No questo non deve essere interpretato come una totale depenalizzazione della bruciatura dei materiali vegetali. Infatti, nei casi in cui non vengano rispettati i limiti ed i termini fissati dalla legge, l’attività di abbruciamento dei materiali vegetali resta comunque sottoposta al regime sanzionatorio previsto dall’art. 256 dello stesso Codice ambientale (Attività di gestione di rifiuti non autorizzata).

IMPRENDITORE: Avvocato La ringrazio molto per questi primi spunti, avere la possibilità di confrontarsi sul piano giuridico su questi temi è un’opportunità preziosa.

ESPERTO: Dott. Sani è stato un piacere. Sono felice che, grazie ad un rivista come “Il Merito”, attenta  alle esigenze concrete degli imprenditori, ci sia l’occasione di condividere con chi opera “sul campo” queste nuove tematiche del settore vitinicolo.

  (27 gennaio 2016)

[1] Il dott. Bernardino Sani è un noto imprenditore del settore: enologo, è amministratore delegato dell’azienda agricola Argiano S.p.A – Montalcino (SI).

[2] L’avv. Paolo Biasin è avvocato presso lo Studio Macchi di Cellere Gangemi di Verona, esperto di agro alimentare.

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La neutralità della rete (di Irene Polito)

La neutralità della rete 

(di Irene Polito*)

Sommario: 1. Il principio -  2. Il dibattito attorno alla neutralità - 3. I diritti nella rete - 4. Una breve conclusione … all’insegna del merito

1. Il principio

La neutralità della rete è un principio[1] affermatosi negli ultimi anni,  al centro di un dibattito che, coinvolgendo stakeholders, istituzioni europee e internazionali, mette in relazione  tecniche, strumenti e  policy utilizzate per gestire il trasporto delle informazioni sulla rete.  Viene inteso come quel carattere della rete in base al quale, secondo la logica del “best effort”[2] , qualsiasi forma di comunicazione elettronica veicolata da un operatore deve essere trattata in modo uniforme, indipendentemente dal contenuto, dall’applicazione, dal servizio, dal terminale, nonché dal mittente o dal destinatario.

 L’applicazione del principio di neutralità comporta, insomma, l’assenza di corsie preferenziali per i contenuti e di criteri arbitrari di gestione del traffico da parte degli operatori[3] e implica quindi il divieto[4] – per gli stessi operatori –  di discriminare dati e informazioni, attraverso differenziazioni (prioritisation) o pratiche di traffic management.

Il concetto di neutralità racchiude quindi l’insieme delle condizioni tecniche, giuridiche e commerciali in virtù delle quali si garantisce la parità di trattamento dei dati veicolati in rete e la facoltà degli utenti di accedere liberamente a contenuti, servizi e applicazioni di propria scelta. Il principio di una rete neutrale può dunque essere considerato un reale strumento di garanzia per la salvaguardia della sua natura libera e democratica. E infatti, di pari passo con l’evoluzione del concetto di neutralità si è affermata la suggestiva visione della rete come una moderna e democratica agorà, un luogo aperto dove ciascuno liberamente acquisisce e scambia contenuti, veicola conoscenza e idee. Tuttavia la rete deve tener conto delle (spesso inevitabili) attività di gestione del traffico da parte degli operatori poste in essere per mantenere adeguati i livelli di concorrenza del mercato. Tali pratiche, funzionali all’efficienza e alla sicurezza della rete stessa, sono dirette ad evitarne il congestionamento e  impedire la diffusione di contenuti o servizi illegali.

Perciò il ricorso a pratiche di traffic management da parte degli operatori costituisce ormai una prassi diffusa,  al punto di considerarsi lecita, purché non arbitrariamente discriminatoria o restrittiva della concorrenza. Difatti, se non disciplinate, le attività di gestione del traffico sono in grado di alterare il carattere neutrale della rete condizionandone l’accesso, la qualità dei servizi offerti e la libera circolazione dei contenuti a danno degli utenti. Per questo motivo tutte le azioni di traffic management devono essere attuate attraverso regole, capaci di assicurare il carattere aperto, democratico e universale della rete, e di rispettare i principi di trasparenza, informazione, accesso e concorrenza tra servizi applicazioni e contenuti.    

2. Il dibattito attorno alla neutralità

La dimensione universale della rete, il suo carattere neutrale, le garanzie, le libertà ad essa connesse hanno generato un dibattito nel quale gli Stati Uniti d’America – tradizionalmente sensibili allo sviluppo tecnologico e alle garanzie democratiche – hanno ricoperto un ruolo centrale[5]. In particolare la Federal Communication Commission (FCC) ha elaborato una serie di regole finalizzate a proteggere la libertà[6] di espressione, l’innovazione, gli investimenti nella banda larga e l’acceso a una rete equa, aperta e veloce[7].

Le regole create dall’FCC[8] prevedono l’assenza di blocchi (per i fornitori di banda larga che non possono ostruire l’accesso ai contenuti leciti, alle applicazioni, ai servizi o ai dispositivi non dannosi) e  di strozzature  (i fornitori di banda larga non possono affievolire o danneggiare il traffico lecito su internet sulla base di contenuti, applicazioni, servizi o dispositivi non dannosi).

Nessuna priorità è prevista per i pagamenti in rete, infatti i fornitori di banda larga non possono – sempre secondo l’FCC – favorire il traffico in internet sulla base di discriminazioni o preferenze di alcun genere, in altre parole: “no fast lanes”.

Anche l’Europa[9] ha fatto sentire la propria voce nel dibattito sulla neutralità, elaborando regole a  garanzia di una rete aperta e democratica in grado di coniugare garanzie di pluralismo, sviluppo delle tecnologie  e completezza dell’informazione. Nel dibattito sulla neutralità l’Europa ha quindi prestato particolare attenzione[10] alla previsione di regole a presidio della trasparenza informativa degli utenti al fine di offrire servizi in linea con gli standard contrattuali pattuiti con gli operatori.

 Tra le più recenti iniziative nazionali in tema di neutralità vi è l’emanazione della Dichiarazione dei diritti di Internet[11]. Può dirsi in generale che i principi affermati nella Dichiarazione tengono conto del valore universale della rete, intesa come uno spazio democratico che rende possibili innovazione, concorrenza e affermazione di diritti.

In particolare nell’articolo 4 della Dichiarazione, rubricato “Neutralità della rete”, viene sancito il diritto di ogni persona a che i dati trasmessi e ricevuti in internet non subiscano discriminazioni, restrizioni o interferenze in relazione al mittente, ricevente, tipo o contenuto dei dati, dispositivo utilizzato, applicazioni o, in generale, legittime scelte delle persone. Secondo tale previsione, dunque, il diritto ad un accesso neutrale alla rete è condizione necessaria per l’effettività dei diritti fondamentali della persona.

Negli ultimi anni la neutralità della rete è stata oggetto di molteplici disegni di legge[12].

 Il più recente è stato presentato nello scorso luglio nell’ambito dei lavori della Commissione per i trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera. 

Il disegno di legge ha in primo luogo come obiettivo quello di stabilire regole che possano evitare una Rete con corsie preferenziali, determinando conseguenti vantaggi e svantaggi per i clienti nell’uso di servizi e/o contenuti.

 In secondo luogo prevede regole per la prioritizzazione del traffico in Rete e il diritto per gli utenti di scegliere contenuti e servizi indipendentemente dalla piattaforma che utilizzano.

 Non esclude, infine, la commercializzazione di servizi a valore aggiunto purchè questi non siano discriminatori per gli utenti e impediscano forme di degradazione del traffico in Rete tranne che per motivi di congestione della rete o per ragioni di sicurezza.

La ratio ispiratrice di tutti i disegni di legge fino ad ora esaminati dal Parlamento è quella di garantire una Rete realmente neutrale attraverso una filiera neutrale, non discriminando i contenuti sulle diverse piattaforme tecnologiche che ancora oggi, sono tra loro spesso non compatibili determinando c.d.“walled gardens” (“sistemi chiusi”), nei quali l’utente è costretto o è preferenzialmente indotto a usare determinate applicazioni rispetto ad altre.

3. I diritti nella rete

Spazio di comunicazione, confronto, partecipazione, sviluppo economico e sociale. Si sa, la rete è ormai divenuta una presenza indispensabile della vita quotidiana, un luogo nel quale i diritti della persona trovano piena tutela e reali garanzie. Internet, con il suo carattere neutrale libero e aperto, contribuisce infatti alla realizzazione della c.d. net freedom di ciascun individuo. Tale espressione, che pure assume una varietà di significati nel dibattito pubblico, riguarda in senso lato il pieno godimento dei diritti costituzionali di libertà di comunicazione e informazione, di manifestazione del pensiero, di aggregazione e partecipazione politica, di accesso alle informazioni presenti in rete[13].

Il rapporto rete/individuo ha stimolato la creazione dei c.d. nuovi diritti, riconducibili però sempre all’articolo 2 della Costituzione che costituisce la “valvola aperta” all’evoluzione sociale ed alle trasformazioni dei diritti contenuti nella nostra carta costituzionale.  E tra i diritti di nuova creazione assume particolare rilievo l’accesso alla rete, quale strumento attraverso cui esercitare altre libertà fondamentali, quali la libertà di manifestazione del pensiero (art.21) e la libertà d’impresa (art.41).

Per questa via la rete può accelerare il processo di democratizzazione della società, attraverso la moltiplicazione di centri informativi e decisionali, in particolare promuovendo un’informazione plurale e svincolata dai tradizionali circuiti editoriali fatta dai singoli che divengono, da meri utenti, produttori attivi e protagonisti consapevoli di contenuti. La democrazia ai tempi di internet si svolge infatti attraverso l’utilizzo massivo di applicazioni interattive e social network, che rappresentano lo strumento più immediato e di larga diffusione per la partecipazione dei cittadini alla vita democratica di un paese.

L’evoluzione tecnologica ha finito anche per cambiare il modo di svolgere le campagne elettorali che oggi si svolgono secondo modalità e tempi assai differenti dalla ormai datata legge sulla par condicio del 2000[14]

Gli effetti di questa innovazione si apprezzano anche sul versante della pubblica amministrazione. Grazie alla rete si sono infatti sviluppati concetti quali quali l’e-government[15], l’e-democracy e l’open data.

Gli open data sono dati che possono essere liberamente utilizzati, riutilizzati e redistribuiti, con la sola limitazione della richiesta di attribuzione dell’autore e della redistribuzione “allo stesso modo” (ossia senza che vengano effettuate modifiche), oltrechè delle fondamentali garanzie di privacy e tutela dei diritti.

I dati prodotti e detenuti dalla pubblica amministrazione rappresentano una risorsa in termini di efficienza del settore pubblico, di trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa, più in generale un elemento per favorire la crescita economica e la competitività. In primo luogo, gli open data contribuiscono all’evoluzione del concetto di trasparenza, intesa come “accessibilità totale (…) delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione”,  in una accezione ben più ampia rispetto a quella della legge generale sul procedimento amministrativo (n.241/1990). In secondo luogo, i dati pubblici servono  per valorizzare e rendere fruibile la massa immensa di informazioni prodotte dal settore pubblico[16].

Mettere a disposizione   del cittadino e delle imprese dati gestiti dall’amministrazione in formato aperto rappresenta un epocale passaggio culturale necessario per il rinnovamento delle istituzioni nell’ottica di garantire sempre maggiore trasparenza e pubblicità. Si favorisce infatti così un controllo costante dei cittadini sull’operato e sui processi decisionali dei soggetti istituzionali, funzionale alla maggior efficienza dell’apparato burocratico.

Nell’ottica della condivisione dei dati, i cittadini non sono più soltanto consumatori passivi di informazioni messe a disposizione dalle amministrazioni, ma hanno l’opportunità di riutilizzare e integrare i dati messi loro a disposizione, collaborando effettivamente con i soggetti istituzionali e partecipando attivamente al governo della cosa pubblica. In questa direzione sembra muovere, di recente, la c.d. Legge Madia che, proprio comprendendo il valore dell’accesso e della condivisione pubblica dei dati attraverso la rete, all’articolo 7[17], ha previsto una delega al Governo per l’adozione di uno o più decreti legislativi recanti disposizioni in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni.

4. Una breve conclusione … all’insegna del merito

Neutralità della rete e open data rappresentano un’opportunità di crescita e sviluppo di un sistema- paese che si vuole auspicabilmente fondato sul merito e sulla valorizzazione delle competenze.

Favorendo la circolazione delle idee, si può consentire alle migliori di emergere; aprendo i dati si può fornire un impulso – anche  con l’aiuto di efficaci provvedimenti legislativi di futura emanazione - allo sviluppo e alla crescita economica: nella società dell’informazione i dati e le informazioni custodite dalle pubbliche amministrazioni (si pensi ai dati per piani urbanistici, a quelli sulla formazione, sul lavoro, sulla criminalità, sulla salute, ambientali etc.) possono infatti essere utilizzati come “benzina” per l’economia dell’immateriale, per produrre beni e servizi, per avviare start-up innovative. Questi dati possono, ove opportunamente integrati con quelli dei privati, favorire ad esempio aperture di punti vendita, valutazioni ottimali del rischio di credito, consentire l’ottimizzazione del consumo energetico. A costo zero. 

* Le opinioni contenute in questo scritto sono espresse dall’autrice a titolo personale e non impegnano in alcun modo l’istituzione di appartenenza.

[1]Il primo a definire il concetto, che tuttavia resta controverso per la dottrina, di neutralità della rete fu Tim Wu  che, nel 2003, elaborò l’idea di una rete informativa pubblica utile a trattare tutti i contenuti i siti e le piattaforme allo stesso modo. Tim Wu in quell’anno pubblicò infatti sul primo blog dedicato al tema: «Network neutrality is best defined as a network design principle. The idea is that a maximally useful public information network aspires to treat all content, sites, and platforms equally». «Network neutrality is best defined as a network design principle. The idea is that a maximally useful public information network aspires to treat all content, sites, and platforms equally». Sulla neutralità della rete può leggersi anche, dello stesso Tim Wu, Network Neutrality, Broadband Discrimination, Journal of Telecommunications and High Technology Law, Vol. 2, p. 141, 2003.

[2]L’espressione “best effort” indica che la qualità della trasmissione è “la migliore possibile”, senza necessariamente garantire specifici livelli di servizio. Ciò potrebbe apparire un limite, ma in realtà costituisce un vantaggio enorme poiché semplifica la realizzazione delle infrastrutture, rende più facile incrementare le prestazioni degli apparati e dei sistemi di comunicazione e stimola lo sviluppo di applicazioni che ottimizzano l’utilizzo delle infrastrutture stesse. 

[3]C.d. Internet Service Provider (ISP), ovvero operatori che offrono servizi di trasporto in rete.

[4] Di net neutrality si è discusso soprattutto con riguardo al ruolo degli Internet Service Provider   che contestano agli Over The Top (c.d. OTT che offrono servizi applicativi, come Apple, Netflix o Google) di saturare la rete, traendone ingenti guadagni, senza contribuire agli investimenti che gli operatori di telecomunicazione devono fare per garantire il funzionamento della rete stessa. Esiste una forte separazione tra ISP e OTT che alimenta il dibattito sulla neutralità soprattutto in relazione alle forme di gestione del traffico e di garanzia dei diritti fondamentali degli utenti. In questo contestoInternet è omologabile ad un servizio commodity, dai bassi margini e con scarsa capacità di differenziazione.  Per questo motivo molti ISP vorrebbero stipulare accordi commerciali che definiscano la velocità e le condizioni secondo le quali il singolo OTT è messo nelle condizioni di operare sulle reti di trasporto degli stessi ISP. In altre parole, gli ISP vorrebbero poter incassare una sorta di pedaggio. Di fatto, accadrebbe che l’utente avrebbe servizi OTT più o meno veloci in funzione di quanto essi (OTT) hanno singolarmente negoziato con l’ISP utilizzato da quello specifico utente. In questo scenario, la rete non è più neutrale, ma privilegia chi ha specifici accordi commerciali “aggiuntivi” rispetto a quanto già previsto.

[5]Il 2002 ha visto l’emanazione del Cable Modem Order, atto nel quale si sanciva l’uscita della banda larga dal novero dei servizi di telecomunicazione regolamentati classificandola, genericamente, come un “information service” (testo integrale su https://apps.fcc.gov/edocs_public/attachmatch/FCC-02-77A1.pdf).

[6]La Federal Communication Commission ha emanato nel 2009 l’Open Internet Order che definiva la net neutrality un modello inclusivo del principio di trasparenza, il divieto di blocco e il divieto di discriminazione irragionevole nella trasmissione del traffico sulla rete.

[7] Nel 2010 il dibattito americano sulla neutralità della rete si è arricchito di una celebre decisione - resa dalla Corte Federale del distretto di Columbia  sul caso Comcast , una società fornitrice di servizi internet. La società rallentava il traffico degli utenti che scaricavano file da BitTorrent, e  la Federal Communications Commission gli aveva pertanto ordinato di cessare l’attività per preservare la neutralità della rete.  Di contro l’FCC era colpevole secondo l’ISP di avere oltrepassato i limiti delle sue competenze regolative. Nel 2010 la Corte di appello federale del District of Columbia ha dato ragione alla società Comcast, affermando che l’ FCC non ha il potere di regolare la neutralità della rete. La decisione ammetteva per gli ISP la facoltà di limitare o ostacolare, discrezionalmente, l’accesso alla rete da parte degli utenti.  Il percorso americano verso l’affermazione della neutralità della rete è proseguito poi con il Net Neutrality Bill che, nel 2010, prevedeva un obbligo, da parte degli Internet Service Provider, di non discriminazione nella fornitura dei servizi di accesso.

[8] Un'altra tappa importante è rappresentata dalla sentenza del 14 gennaio 2014 nella causa Verizon nei confronti dell’FCC.

[9] La Commissione europea  in occasione della review del pacchetto direttive Telecom del 2002 ha dichiarato di voler tutelare il principio della neutralità inserendolo nella Direttiva 2009/140/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009 “recante modifica delle direttive 2002/21/CE che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica, 2002/19/CE relativa all’accesso alle reti di comunicazione elettronica e alle risorse correlate, e all’interconnessione delle medesime e  2002/20/CE relativa alle autorizzazioni per le reti e  i servizi di comunicazione elettronica”.

[10] In Italia, in particolare, al fine di promuovere la concorrenza nei mercati delle comunicazioni elettroniche e garantire che vengano rispettati i diritti fondamentali degli utenti, quali la libertà di manifestazione del pensiero e l’accesso all’informazione in rete,  l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha adottato la  delibera n. 40/11/CONS - ”Neutralità della rete: avvio di consultazione pubblica” e la delibera n. 714/11/CONS  - “La neutralità della rete: pubblicazione delle risultanze della consultazione pubblica di cui alla delibera n. 40/ 11/CONS”. L’ analisi svolta dal regolatore ha evidenziato la necessità di rafforzare il presidio della trasparenza informativa per gli utenti, affinché i servizi loro offerti siano conformi ai criteri di chiarezza, adeguatezza e accessibilità.

[11]La Dichiarazione è fondata sul riconoscimento della libertà, eguaglianza, dignità e diversità di ogni persona, e configura la rete come uno spazio fondamentale per lo sviluppo dell’individuo - singolo e in società - e come uno strumento essenziale per promuovere la partecipazione individuale e collettiva ai processi democratici e l’eguaglianza sostanziale. 

[12] Dal 2011 disegno di legge N. 2576 presentato nell’ambito della sedicesima Legislatura.

[13]Questi principi sono stati richiamati all’articolo 1, paragrafo 3, della Direttiva Quadro 2002/21/CE, integrata dalla 140/09/CE e nella citata Dichiarazione della Commissione sulla neutralità della rete.

[14]La legge sulla c.d. par condicio è la n.28 del 22 febbraio del 2000, mai  novellata. E’ pertanto ormai vieppiù evidente lo scollamento tra le tecnologie oggi utilizzate e le modalità di tutela del pluralismo nei mezzi d’informazione. Ragion per cui l’Agcom ha segnalato al Governo la necessità di aggiornare la legge n. 28 del 2000.

[15]Attraverso l’e-government si consegue l’obiettivo di informatizzare la struttura burocratica, digitalizzare i documenti, ottimizzare i servizi pubblici rendendoli accessibili e trasparenti, conferendo agli utenti condizioni chiare e garantite di utilizzo degli stessi.

[16]A livello comunitario, al fine di agevolare il riutilizzo delle informazioni in possesso degli enti pubblici degli Stati membri, l’Unione Europea ha adottato la Direttiva 2003/98/CE del 17 novembre 2003 (recepita dall’ordinamento italiano con il decreto legislativo 24 gennaio 2006 n. 36, “Attuazione della direttiva Vademecum – Open Data 10 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti nel settore pubblico”) che ha attribuito a ciascuna Amministrazione la possibilità di autorizzare il riutilizzo delle informazioni che vengono raccolte, prodotte, e diffuse nell’ambito del perseguimento dei propri compiti istituzionali. Successivamente, con il Codice dell’Amministrazione Digitale (D. Lgs. n. 82/2005), è stato introdotto l’importante principio di “disponibilità dei dati pubblici” (enunciato all’art. 2, comma 1, e declinato dall’art. 50, comma 1, dello stesso Codice) che consiste nella possibilità, per soggetti pubblici e privati, “di accedere ai dati senza restrizioni non riconducibili a esplicite norme di legge” (art.1, lett. o). In tale ottica, con la riforma del Codice dell’Amministrazione Digitale (D. Lgs. n. 235/2010), il Legislatore ha inteso recepire espressamente la dottrina dell’Open Data, sollecitando le Amministrazioni ad aprire il proprio patrimonio informativo; nella sua attuale formulazione, infatti, l’art. 52, comma 1-bis, D. Lgs. n. 82/2005, prevede espressamente che “le pubbliche amministrazioni, al fine di valorizzare e rendere fruibili i dati pubblici di cui sono titolari, promuovono progetti di elaborazione e di diffusione degli stessi anche attraverso l’uso di strumenti di finanza di progetto”, utilizzando formati aperti che ne consentano il riutilizzo.

[17]  Legge 7 agosto 2015, n. 124 (“Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche”) - Art. 7 – Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza.

   (31 dicembre 2015)

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