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ISSN 2532-8913

Misericordia, inclusione e speranza. Costruire organizzazioni aperte alla relazione (di Martin Schlag)

Misericordia, inclusione e speranza. Costruire organizzazioni aperte alla relazione

di Martin Schlag

Nella vita di ogni giorno sentiamo spesso utilizzare le parole misericordia, inclusione e speranza da persone aventi cultura e modi di pensare diversi. Queste tre parole legate tra di loro da un filo immaginario costituiscono la chiave per potere creare delle organizzazioni che pongono le relazioni umane al centro del loro interesse. Si potrebbe cominciare da due figure della mitologia greca - Giasone e Ulisse - per analizzare due differenti comportamenti nell’affrontare le sfide che li attendono.

Ambedue devono affrontare il canto ammaliatore delle sirene che distrae l’equipaggio impedendo il ritorno a casa.

Ulisse, pur di ascoltare le bellissime melodie, preferisce farsi legare all’albero della nave e far tappare le orecchie con la cera all’equipaggio. Il suo è quindi un atteggiamento essenzialmente esclusivo.

Giasone invece, per superare il luogo abitato dalle sirene, porta con sè Orfeo, inutile nel remare, ma utile con il suo canto più bello e potente di quello delle sirene tanto da surclassarle.

A ben vedere, quindi, Giasone, a differenza di Ulisse, ha un atteggiamento inclusivo poiché rinuncia al piacere personale e preferisce non ostacolare l’affermazione del bene comune e cioè il ritorno a casa della nave.

L’inclusione e l’esclusione sono due atteggiamenti - alternativi - che si presentano costantemente nelle attività che si affrontano ogni giorno; tocca a ciascuno di noi la scelta.

L’atteggiamento inclusivo porta con naturalezza al bene comune e si realizza non solo come somma dei beni individuali. A ben vedere, il bene comune non è una somma ma un prodotto. Ed infatti, facendo un parallelismo con le operazioni aritmetiche, nell’addizione se un addendo è zero il risultato finale non cambia; nella moltiplicazione, invece, se uno dei due numeri è uguale a zero, il prodotto sarà pari a zero indipendentemente dal valore dell’altro numero. Allo stesso modo, se in una comunità la dignità umana di uno dei suoi componenti è calpestata, o se uno dei due in una coppia vuole stravincere, il bene comune della comunità, e quindi la comunità stessa è distrutta.

Ogni persona desidererebbe lavorare per il bene comune e avere relazioni buone in senso umano: è proprio insito in ciascuno di noi.

Tale desiderio nell’economia significa includere i poveri, gli emarginati, i sottoprivilegiati nella società e nel mercato. Spesso però si viene ad essere ostacolati dalla presenza dei concorrenti, dei nemici, degli inopportuni, dei fastidiosi o degli antipatici, i quali nei momenti di scarsità e difficoltà diventano ingombranti.

Essi vanno affrontanti ricordandosi che l’essere umano sperimenta la relazionalità con la vita, le persone o il mondo, come dono e misericordia. Tali fattori rendono ogni persona unica e irripetibile.

La misericordia va intesa non solo come la compassione soggettiva della miseria altrui, ma soprattutto come lo sforzo oggettivo di rimuovere le cause del male nella misura in cui risulta possibile. La misericordia infatti oltre a rivendicare la giustizia, ossia il dare ciò che compete come giusto, si impegna a affermare il diritto di riconoscere alle persone ciò che gli appartiene, come il tempo, l’impegno o i soldi.

Il dono invece è il cuore della misericordia, in tutta la sua ampiezza. La teoria del dono da decenni affascina e sconcerta l’interesse delle scienze sociali proprio perchè ha tolto le coordinate al calcolo utilitarista oggi predominante, basato sul principio di giustificare qualsiasi attività umana solo se si riceve qualcos’altro come vantaggio.

Il dono infatti oltre a riempire di un profondo desiderio di umanità le attività umane, nella realtà si presenta come l’elemento costitutivo dell’ordine sociale. Ciò che sembra essere dovuto per giustizia si presenta infatti come dono di chi avrebbe la forza e la potenza fisica umana di sottomettere gli altri al proprio arbitrio.

Vivere secondo giustizia è un atto di rinuncia libera, non costretta, da parte di chi potrebbe farne a meno; il potente infatti avrebbe la forza per imporre i suoi voleri, ma per un imperativo di coscienza si sottomette a una norma che dà spazio al meno forte, riconoscendone il diritto.

Anche i grandi pilastri della società umana quali la dignità umana, la libertà e l’uguaglianza sono essenzialmente doni. Delle grandi teorie che sono state sviluppate per fondare questi valori, la teoria della riconoscenza di ogni individuo come persona è quella che si è affermata di più.

Essa non si basa su una qualità, ma sulla relazionalità che è insita in ogni persona fin dal momento del concepimento. Per il mero fatto di esistere un essere umano possiede uno spazio sociale che gli è dovuto ed effettivamente donato dalla riconoscenza libera degli altri uomini. Argomentando a pari, anche quando il diritto è negato, la negazione avviene in seguito al riconoscere l’esistenza di un nuovo essere umano: la negazione quindi si rivolge contro “qualcuno”.

Allo stesso modo la dignità può essere affermata come la capacità, dell’uomo e della donna, di entrare in relazione con Dio che come creatore, redentore e santificatore è donazione di se stesso.

Nella sfera socio-politica il dono si presenta anche come misericordia, non solo come giustizia: l’incondizionata accettazione dell’altro come fine e non solo come mezzo - si pensi al criminale o al nemico - produce un atteggiamento che va oltre il dovuto.

Anche la carità sociale trova nel dono la definizione di virtù come amore per il bene comune, anche se nella realtà ferita dal peccato e dal male, alcuni membri della società non adempiono il loro dovere. Vuol dire che non si comportano secondo le richieste del bene comune e non adempiono i doveri verso la comunità. Interviene a questo punto la cosiddetta solidarietà sociale a supplire la loro trascuratezza.

Volgendo lo sguardo dalla politica alla sfera economica, vediamo anche lì l’importanza del dono sia nell’ambito della giustizia che in quello della gratuità.

Il cardine dell’economia del libero mercato è la proprietà privata senza la quale non esisterebbe lo scambio che si basa sull’esistenza di più proprietari: offro a un altro un bene mio in cambio di uno suo.  La proprietà, come la dignità umana, è frutto di una riconoscenza in cui si stabiliscono e si rispettano limiti di libertà individuale e familiare.

Questi limiti però non esistono nella natura del mondo immateriale, ma sono frutto di una rinuncia alla prepotenza dei forti, e quindi si affermano sempre come un dono.

La proprietà privata infatti, se giuridicamente parlando viene definita come un diritto, dal punto di vista antropologico si afferma invece come un dono.

Anche lo scambio giusto contiene un dono. La mancata sopraffazione del più forte economicamente parlando, non è altro che una rinuncia donata.

In generale, il dono permea tutti i rapporti economici o in altre parole tutto il mercato, formato da innumerevoli relazioni fra persone. Questi rapporti possono avere un carattere molto diverso: di sopruso, dominazione, aggressione, alienazione, ecc.; oppure di amicizia, cooperazione, inclusione, ecc.; dipenderà dall’atteggiamento con cui gli operatori economici ci si avvicinano. In altre parole dipende dal loro pre-dono: essi daranno un senso umano al mercato solo se vedono negli altri operatori economici persone con dignità e non pezzi tecnici in una macchina.

La vita in un mondo concorrenziale è competitiva e dura. Se vogliamo che sia anche umana, deve esserci spazio per il dono e la gratuità.

Infine anche nell’economia globale di mercato - che affermiamo come sistema più capace di includere i poveri e creare prosperità per tutti - ci sono ambiti, in cui la generosità del dono e della misericordia sono imprescindibili. Sono in concreto tre: l’educazione, la sanità, e l’aiuto iniziale per uscire dalla “trappola della povertà”.

In questi tre ambiti il dono necessario è la donazione di mezzi materiali, che assumono un carattere quasi di investimento. Senza di loro il sistema crollerebbe.

(23 giugno 2016)

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Il Merito come Metodo (di Simone Lucattini)

Il Merito come Metodo

(presentazione della rivista “Il Merito. Pratica per lo sviluppo”, Luiss, 9 giugno 2016)

di Simone Lucattini

Il Merito. Pratica per lo sviluppo” è il nome della Rivista on line creata, a fine 2015, da un gruppo di accademici, professionisti, imprenditori, civil servant.

La Rivista, anche graficamente, si articola su due livelli, tra loro comunicanti: una parte più teorica - titolata “Nel Merito” - ed una di taglio maggiormente pratico, titolata, appunto, “In Pratica”: una impostazione piuttosto innovativa, alla cui base v’è una precisa scelta di metodo.

Abbiamo fin qui pubblicato 39 contributi e registrato, al 23 giugno 2016, oltre 14.000 accessi. Molti i temi affrontati: debiti della P.A., appalti, energia, comunicazioni, banche, pratiche commerciali scorrette, antitrust, giustizia, università. Agli Autori è stato chiesto, dove possibile, di studiare questi temi dal punto di vista della certezza delle regole, fondamentale per attrarre gli investimenti dall’estero e creare sviluppo e crescita.Regole del gioco chiare, certe e stabili sono infatti una pre-condizione affinché nei mercati i meriti possano emergere. Di certo un contesto come l’attuale, con 21 mila leggi statali, 30 mila leggi regionali, 70 mila regolamenti, 63 mila norme di deroga non premia chi merita ma chi è più bravo a districarsi in questa selva normativa, magari ad avvicinare il potere, intento a confezionare l’ultima regola.

Ma torniamo alla Rivista. E’ consuetudine, in queste occasioni, mettere in risalto l’originalità dell’iniziativa appena intrapresa, per mostrare come essa intercetti un fermento, un vento, “il nuovo”.

Non farò altrettanto. Sul tema Merito/Meritocrazia si è infatti accumulata, in questi anni, una enorme letteratura, senz’altro sproporzionata rispetto alla limitatezza dell’esperienza, a quanto cioè il merito viene in concreto praticato. Se ne parla tanto di merito, ogni bravo politico, di maggioranza e opposizione, sociologo, studioso fa la sua parte. Il principio del merito è più volte richiamato anche dalla legge-delega n. 124/2015 per la riorganizzazione della pubblica amministrazione, e speriamo non si tratti, alla fine, di norme-manifesto.

Ma quando una nuova rivista apre i battenti è inevitabile chiedersi quale sia il senso e l’utilità, e se essa possa avere un respiro sufficientemente lungo. Bisogna allora guardare in alto, ai principi – alla scintilla iniziale –  e poi al metodo che s’intende seguire.

La scintilla iniziale … Nelle lunghe discussioni che hanno preceduto la creazione della Rivista, le parole che più sentivo ripetere dagli amici componenti della Redazione erano: Preoccupazione e Coraggio.

Preoccupazione per un contesto tuttora anti-meritocratico. Sono i dati a parlare, e ci dicono che l’Italia è “maglia nera” in Europa nei seguenti indicatori: libertà del sistema economico, attrattività per i talenti, qualità del sistema formativo, pari opportunità, certezza delle regole, trasparenza, mobilità sociale (sono dati del 2016, messi assieme dal Forum della meritocrazia, ma ripresi da OCSE, Eurostat e da altri autorevoli centri di ricerca europei).

E poi – si diceva, in quelle prime discussioni – ci vuole un bel Coraggio, per titolare una rivista al Merito. Il rischio è di scadere nell’invettiva (piuttosto facile) contro il raccomandato di turno, il fannullone, la casta; ovvero di perdersi in sofferte meditazioni sul concetto di meritocrazia, sui mille e nessun modi per misurarla; o ancora di apparire presuntuosi e velleitari. 

Niente di tutto questo, direi. Anche se, certo, sta al Lettore giudicare.

L’obiettivo perseguito dalla Rivista – prima di tutto e fondamentalmente – è di entrare “nel merito” dei problemi. In tal senso, il merito è soprattutto un metodo. Il merito come pratica: non è teoria, non è un vuoto slogan.

Non interessa parlare, in generale, del concetto di meritocrazia, sempre sospeso tra egalitarismo (Rawls, riduceva tutto alla “lotteria della natura” che distribuisce casualmente i talenti) e liberalismo (per cui – contrariamente a quanto si crede –  il merito non è così importante perché non serve a risolvere il problema del coordinamento sociale, basta leggere Hayek o, ancor prima, Hume al riguardo).

Una cosa è certa però: il merito è oggi una impellente questione nazionale. Non sono solo i vincoli europei ad impedire la crescita; ci sono vincoli anti-merito e anti-crescita tutti italiani: lo spread del merito – per certi versi anche più preoccupante rispetto a quello sui titoli di stato – è a 30 punti meno rispetto alla Germania, ma anche inferiore di oltre 10 punti alla Spagna (sono dati, anche questi, tratti dal Forum della meritocrazia). Ma, al di là delle “classifiche”, dei vari “meritometri”, questo è il risultato – sotto gli occhi di tutti – di un sistema burocratico- fiscale- giudiziario che tende a comprimere le energie vitali. Solo qualche dato, sparso ma significativo: Italia ferma, da anni, al 137 posto per efficienza del sistema fiscale; in risalita, ma al 111 posto, per capacità di far rispettare i contratti (Doing Business 2016); il Fondo monetario ha stimato che se l’efficienza del settore pubblico aumentasse al livello delle migliori regioni del Paese il PIL crescerebbe del 2%.

Vi sono poi elementi culturali, forse non immediatamente misurabili, ma non meno determinanti: un capitalismo di relazioni; una classe dirigente – politica e non – troppo spesso selezionata per cooptazione; una cultura dell’obbedienza, della fedeltà, diffusa e difficile da rimuovere. Nel complesso, un sistema che rischia di essere perdente in partenza, perché la competizione globale non fa sconti. Lì vincono sistemi amministrativi efficienti in grado di dare certezze agli operatori economici e, quindi, attrarli; e vince la capacità d’innovazione, spesso frutto di investimenti in ricerca mirati e selettivi, non distribuiti “a pioggia” o secondo un criterio “solidaristico”.

Anche come scelta individuale il merito, a ben vedere, non è neppure “economico”. Anzi, puntare sul merito in Italia significa rischiare, rischiare molto, troppo. E’ più sicuro sussurrare nell’orecchio dei potenti, trovare la scorciatoia, o il buco in cui infilarsi. Ma così il rischio è di non crescere o, peggio di affondare lentamente, e comunque perdere terreno in termini di competitività, tutti insieme, anche i c.d. “furbi” che del merito si fanno beffa. E allora il merito sembra divenire una strada obbligata: per competere, e anche per far fronte ai bisogni sociali.        

Ritengo, in altri termini, che merito e bisogno debbono e possono coesistere.

Prezzolini, già nel 1921, notava – al solito sarcastico – come in Italia “il fesso si interessa al problema della produzione della ricchezza. Il furbo a quello della distribuzione”.  Arguta osservazione, senza dubbio.  Però premiare i meriti – di chi produce – non esclude il momento redistributivo, anzi. Infatti, un Paese più competitivo, affrancato da logiche e retaggi familistici e corporativi, produce più ricchezza, più crescita. Che consente di rispettare i vincoli europei – costruiti sul rapporto prodotto interno lordo/ deficit pubblico – e aiutare chi ha bisogno. Merito e bisogno, appunto: spinta individuale e stato sociale. Non è una astrazione, ma l’essenza più profonda del modello europeo di economia sociale di mercato: libertà di mercato e giustizia sociale.  

Merito, dunque, ­– si diceva – come urgente questione nazionale. La nostra Rivista parte da questa urgenza. E’, sì, una urgenza, ma con profonde radici e riferimenti culturali che vengono da lontano, e non sono soltanto anglosassoni. Per una iniziativa come “Il Merito. Pratica per lo sviluppo”, anche in Italia, gli Autori cui ispirarsi infatti non mancano. Penso ad Einaudi, anzitutto, alle sue Prediche inutili, al tema lì affrontato dell’eguaglianza “nei punti di partenza”, e soprattutto al Suo invito a Conoscere per deliberare; a Luigi Sturzo, Appello ai liberi e forti; a Gobetti, e alla sua Rivoluzione liberale, e ancora a Rosselli, Socialismo liberale; e non ultimo al dibattito riformista sull’ “alleanza tra merito e bisogno” sviluppatosi nei primi anni Ottanta.

Tutti testi fondamentali. Ad ognuno, comunque, il suo preferito. La Rivista non pretende certo di sviluppare una visione del mondo. La condivisione, dentro la redazione e con gli Autori, è stata prevalentemente sul metodo. Ebbene, a livello di metodo, la Rivista si propone di valutare la realtà empiricamente, senza preconcetti: realismo e metodo gradualistico, fatto di esperimenti, riaggiustamenti, anche correzioni. A questo serve il doppio livello “Nel Merito”/“In pratica” in cui – come detto – si articola la Rivista.                                                  

Nel Merito” – la parte “in alto”, più teorica – studia e propone. Compaiono qui saggi e studi.

In Pratica” è, invece, laboratorio e servizio. Laboratorio empirico e servizio per i lettori. Trovano qui spazio:

-          dialoghi tra imprenditori ed esperti, utili per focalizzare ed affrontare problemi di quotidiana vita imprenditoriale;

-          contributi di taglio operativo: “come fare qualcosa”, sempre al servizio dei Lettori;

-          interviste, magari ad imprenditori che sul merito hanno fondato la propria esperienza.

In una logica bottom-up, da questo laboratorio pratico ed empirico può innescarsi la reazione chimica: dalla pratica alle idee alle soluzioni. E’ qui che i due livelli – “Nel Merito” e “In Pratica” – dovrebbero fondersi sinergicamente. E’ qui che i Lettori potranno anche “sfidare” o “prendere il posto” degli Autori con idee più efficaci, più innovative, più eretiche. La Rivista vuole in definitiva realizzare una fusione di teoria e prassi, attraverso la competizione tra idee. Dietro questa impostazione vi è la consapevolezza che le soluzioni non si trovano bell’e fatte, già preconfezionate dietro l’ultimo diaframma da abbattere ogni volta con rinnovata foga, ma sono piuttosto avvicinabili pazientemente, per continue approssimazioni, faticosi aggiustamenti.

Ci vuole un metodo “dal basso” e ci vogliono anche competenze teoriche.  Teorici, non “dottrinari” – si badi bene –: non servono quelli che Einaudi definiva gli uomini “del punto di vista” che “prima di studiare sanno già quel che debbono dire”.

Dunque, il merito, si diceva, è soprattutto un metodo: saper entrare “nel merito” dei problemi. Per farlo ci vogliono competenza, studio, attenzione anche ossessiva; attitudine a sporcarsi le mani con i fatti, le cose vere, concrete.

In sintesi estrema il metodo del merito è: studio dei problemi/presa diretta sulla realtà/critica (anche eretica)/ proposte, auspicabilmente in grado di incidere.  Per fare tutto questo ci vuole un “sano e folle” pragmatismo, che però nasce da luoghi assai concreti: “biblioteche” e “territori”.

Forse tutto questo può apparire troppo ambizioso per una Rivista che nasce senza sponsor e “grandi firme”? Forse si, ma altrimenti ritengo sarebbe stato inutile anche solo iniziare.

Diceva un grande, e un po’ dimenticato, economista – Bruno De Finetti – che, almeno qualche volta, “occorre pensare in termini di utopia, perché ritenere di poter affrontare efficacemente i problemi in maniera diversa è ridicola utopia”.  

(23 giugno 2016)

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La natura di atto politico, immune dal sindacato giurisdizionale, del rifiuto governativo di avviare trattative finalizzate alla conclusione di intese per regolare i rapporti con confessioni religiose (di Luca Bertonazzi)

La natura di atto politico, immune dal sindacato giurisdizionale, del rifiuto governativo di avviare trattative finalizzate alla conclusione di intese per regolare rapporti con confessioni religiose
 
(di Luca Bertonazzi)

 

La Corte costituzionale, con la sentenza 10 marzo 2016, n. 52, qualifica come atto politico, in quanto tale immune dal sindacato giurisdizionale, il rifiuto governativo di avviare le trattative finalizzate alla conclusione di un’intesa, ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost., per regolare i rapporti con una confessione religiosa.

Tale conclusione si impone, ad avviso di chi scrive, in forza di una precisa ragione, che però rimane al di fuori della (pur brillante) motivazione offerta dalla Consulta: dato che il procedimento di cui all’art. 8, comma 3, Cost., considerato nella sua interezza, è ordinato al conseguimento di uno scopo – la regolazione dei rapporti tra Stato e confessione religiosa attraverso la traduzione in legge dell’intesa – la (palese) non configurabilità di una pretesa (nei confronti di Governo e Parlamento) all’esito positivo della procedura svela l’inconsistenza dell’affermazione di una pretesa (nei confronti del Governo) soltanto al suo avvio (o soltanto al suo approdo ad uno stadio intermedio, quale è la stipula dell’intesa).

Solamente se il perfezionamento dell’intesa, ferma restando la sua valenza di presupposto del successivo iter legis, si atteggiasse altresì come autonomo bene della vita, in considerazione di benefici, vantaggi e utilità implicati in virtù di puntuali opzioni di diritto positivo, risulterebbe davvero arduo continuare ad attrarre le decisioni governative in ordine all’avvio delle trattative nella successiva fase legislativa e a predicarne, per ciò solo, la natura politica. Non resterebbe, allora, che affermarne la natura intrinsecamente politica: scelte del genere, per i delicati apprezzamenti di opportunità che involgono, esprimono, istituzionalmente, una riserva di competenza a favore del Consiglio dei Ministri, che ne risponde politicamente di fronte al Parlamento.

  1. La vicenda.

Nel novembre 2003 il Consiglio dei Ministri deliberava, in coerenza con un parere dell’Avvocatura generale dello Stato, di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione di un’intesa, ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost., con l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (di seguito: UAAR), ritenendo la professione di ateismo non assimilabile ad una confessione religiosa.

L’UAAR ricorreva al TAR Lazio, che, con sentenza del dicembre 2008, dichiarava inammissibile il ricorso per difetto assoluto di giurisdizione, ascrivendo la deliberazione impugnata nel novero degli atti politici “non giustiziabili” (art. 31 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (1) e, oggi, art. 7, comma 1, ultimo periodo, del codice del processo amministrativo, approvato con d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104).

L’UAAR ricorreva in appello: la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza del novembre 2011, accoglieva l’appello e rimetteva le parti davanti al primo giudice (art. 105, comma 1, c.p.a.), ritenendo il rifiuto di avvio delle trattative espressivo bensì di discrezionalità (tecnica), ma privo di natura politica.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ricorreva, avverso tale sentenza, dinnanzi alle Sezioni unite della Corte di Cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., insistendo per la qualificazione del rifiuto di avvio delle trattative alla stregua di atto politico, come tale affrancato dal sindacato giurisdizionale.

Le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con sentenza 28 giugno 2013, n. 16305 (2), respingevano il ricorso, ritenendo il rifiuto di avvio delle trattative espressivo di discrezionalità (tecnica), ma privo di natura politica, e come tale non emancipato dallo scrutinio giurisdizionale.

Con sentenza del luglio 2014, il TAR Lazio, presso il quale il giudizio era stato nel frattempo riassunto ex art. 105, comma 3, c.p.a., respingeva nel merito il ricorso dell’UAAR, escludendo che la valutazione compiuta dal Governo, in ordine al carattere non confessionale dell’associazione ricorrente, fosse “manifestamente inattendibile o implausibile, risultando viceversa coerente con il significato che, nell’accezione comune, ha la religione”.

L’UAAR ricorreva al Consiglio di Stato: il giudizio d’appello è ancora pendente.

Tuttavia, nel settembre 2014 la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sempre convinta della qualificazione del rifiuto di avviare le trattative come atto politico sottratto al sindacato giurisdizionale, sollevava, davanti alla Corte costituzionale, un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di Cassazione, in relazione alla sentenza da quest’ultima resa nel giugno 2013, a Sezioni unite (quale Giudice regolatore della giurisdizione: art. 111, ultimo comma Cost., art. 362 c.p.c., art. 110 c.p.a.).

In particolare, la Presidenza del Consiglio dei Ministri domandava alla Corte costituzionale di dichiarare che non spettava alle Sezioni unite della Corte di Cassazione affermare la sindacabilità, ad opera dei giudici comuni, del rifiuto del Governo di avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa di cui all’art. 8, comma 3, Cost.

Data l’incidenza (in termini di improcedibilità) dell’eventuale accoglimento del ricorso sulla sorte del processo amministrativo, ancora pendente innanzi al Consiglio di Stato, l’UAAR interveniva (ammissibilmente), nell’aprile 2015, nel giudizio presso la Consulta.

A seguito dell’udienza pubblica celebrata nel gennaio 2016, con sentenza 10 marzo 2016, n. 52 la Corte costituzionale accoglieva il ricorso della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dichiarando “che non spettava alla Corte di Cassazione affermare la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio dei Ministri ha negato all’UAAR l’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, della Costituzione e, per l’effetto”, annullando “la sentenza della Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305”.

          1. Una motivazione alternativa a supporto di un dispositivo condivisibile.

Chi scrive condivide in pieno l’approdo cui è pervenuta la Consulta, ma non è persuaso fino in fondo dalla (pur brillante) motivazione offerta.

Qui di seguito si riporta, in sintesi, la ratio decidendi che chi scrive avrebbe posto a sostegno del (condivisibile) dispositivo.

Non è configurabile alcun obbligo di tradurre in legge l’intesa eventualmente stipulata con una confessione religiosa: né l’obbligo, in capo al Governo, di (esercitare il potere di) iniziativa legislativa per l’avvio dell’iter di formazione della legge che, recependo i contenuti dell’intesa, regola i rapporti tra lo Stato e la confessione religiosa; né l’obbligo, in capo al Parlamento, di approvare la legge, anche una volta che fosse stata perfezionata l’intesa e assunta, non importa se dal Governo o da altri soggetti titolati (art. 71 Cost.), l’iniziativa legislativa. Stando così le cose – e precisato che l’intesa è soltanto presupposto del procedimento legislativo – che senso ha discettare di obbligo di avviare le trattative (o di stipulare l’intesa)? La decisione di avviare o meno le trattative, così come quella di stipulare o meno l’intesa, partecipa della stessa natura di atto politico della successiva fase legislativa, risultando pertanto coinvolta la responsabilità politica, rispettivamente, del Governo (di fronte al Parlamento) e del Parlamento (di fronte al corpo elettorale).

Insensata si rivelerebbe l’imposizione (al Governo) dell’avvio delle trattative (e della stipulazione dell’intesa), se poi dell’intesa – che, si ribadisce, è soltanto presupposto del procedimento legislativo – non si assicurasse giudizialmente (come in effetti non si può assicurare giudizialmente), nei confronti di Governo e Parlamento, la traduzione in legge.

Essendo il procedimento, considerato nella sua globalità, strutturalmente e funzionalmente preordinato al conseguimento di uno scopo – nella specie, la regolazione dei rapporti tra Stato e confessione religiosa attraverso la traduzione in legge dell’intesa – è proprio la non configurabilità di una pretesa (nei confronti di Governo e Parlamento) all’esito positivo della procedura (unitariamente considerata) a mettere a nudo l’inconsistenza dell’affermazione di una pretesa (nei confronti del Governo) soltanto al suo avvio (o soltanto al suo approdo ad uno stadio intermedio).

A nulla varrebbe obiettare, con approccio sociologico, un implicito effetto di “legittimazione” in fatto, ricavabile dal solo avvio delle trattative o dalla sola stipula dell’intesa: l’interesse a ricorrere (al giudice amministrativo), empiricamente apprezzabile (anche sub specie di interesse morale) sul piano processuale, non surroga l’assenza di interesse giuridicamente rilevante sul piano sostanziale, a sua volta dipendente dalla natura di atto politico della decisione (governativa) di avviare o meno le trattative finalizzate alla stipula dell’intesa o della decisione (governativa) di stipulare o meno l’intesa, siccome decisioni (governative) che, quand’anche positive, mettono capo semplicemente al presupposto per l’avvio, del tutto eventuale, di un iter legislativo dall’esito assolutamente libero (3), del quale vengono a condividere la natura.

Si aprirebbe un varco verso orizzonti diversi solo se, per effetto di puntuali opzioni di diritto positivo, la stipula delle intese comportasse, per chi vi aspira, conseguenze variamente favorevoli sub specie di attribuzione di vantaggi, benefici, utilità (4). La stipula dell’intesa, ferma restando la sua valenza di presupposto di un procedimento legislativo assolutamente libero, diverrebbe altresì autonomo bene della vita oggetto, nel contempo, dell’aspirazione di chi ad esso anela e di un potere assegnato dalla legge al Governo (art. 2, comma 3, lett. l), della 23 agosto 1988, n. 400). In relazione ad un profilo siffatto, davvero arduo sarebbe continuare ad attrarre le decisioni (governative) in ordine all’avvio delle trattative o alla stipula dell’intesa nella successiva fase legislativa e a predicarne, per ciò solo, la natura politica.

Non rimarrebbe, allora, che (affrontare di petto il problema e) affermarne la natura intrinsecamente politica, in considerazione della “necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative”: “scelte del genere, per le ragioni che le motivano [e, quindi, per la loro intrinseca natura], non possono [istituzionalmente] costituire oggetto di sindacato da parte del giudice” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016 cit., sub 5.2 del “Considerato in diritto”) (5).

Un altro varco in direzione di differenti scenari (arg. da Corte cost., 5 aprile 2012, n. 81) (6) si dischiuderebbe altresì qualora il legislatore ordinario, nell’esercizio della sua discrezionalità, dettasse al Governo criteri e parametri – sostanziali e procedurali – per la selezione degli interlocutori con cui avviare, condurre e perfezionare trattative. “Se ciò accadesse, il rispetto di tali vincoli costituirebbe un requisito di legittimità … delle scelte governative, sindacabile nelle sedi appropriate” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016 cit., sub 5.1 del “Considerato in diritto”). Non poco problematico risulterebbe, allora, seguitare a predicare la natura politica delle decisioni governative in questione, vuoi come conseguenza della loro attrazione nel successivo iter legis, vuoi sub specie di natura intrinsecamente politica, cui farebbe velo, in effetti, l’ipotizzata regolazione della fase amministrativa di negoziazione e perfezionamento dell’intesa. Ma – realisticamente – nessuna regolazione del genere farebbe a meno di clausole generali capaci di prestarsi, a chiusura (ed estrema difesa) del sistema, a veicolare (immanenti) valutazioni di natura intrinsecamente politica, che per questa via tornerebbero a pervadere le decisioni (governative) in parola, quali ineliminabili valvole di sfogo del sistema.

          2. Osservazioni critiche sulla motivazione offerta dalla Consulta.

Non convince fino in fondo la Corte costituzionale allorché – sub 4) del “Considerato in diritto” – espelle a priori dal campo d’indagine ogni considerazione intorno al procedimento legislativo successivo all’intesa: certamente la fase legislativa (nella specie evidentemente mai avviata) era estranea all’oggetto del conflitto di attribuzioni, ma ciò non equivale (né autorizza) affatto a non tenere in conto le sue “caratteristiche” nell’ambito del ragionamento giuridico che guida verso la soluzione del caso.

Si trascura così un dato che è parso, invece, decisivo a chi scrive: insensata si rivelerebbe l’imposizione, al Governo, dell’avvio delle trattative (e della stipulazione dell’intesa), se poi dell’intesa – che è soltanto presupposto del procedimento legislativo – non si garantisse giudizialmente (come in effetti non si può garantire giudizialmente), nei confronti di Governo e Parlamento, la traduzione in legge. La manifesta assenza di una pretesa (nei confronti di Governo e Parlamento) all’esito positivo della procedura (unitariamente considerata) svuota di ogni significato e ricopre di velleità l’affermazione di una pretesa (nei confronti del Governo) soltanto al suo avvio (o soltanto al suo approdo ad un passaggio interlocutorio).

Relegata la fase legislativa al di fuori del suo percorso motivazionale, la Consulta – sub 5.2 del “Considerato in diritto” – individua tre “ragioni” a fondamento della sua decisione, le prime due di ordine “costituzionale” e la terza di ordine “istituzionale”:

  1. il “metodo bilaterale”, sotteso all’art. 8, comma 3, Cost., che “pretende una concorde volontà delle parti, non solo nel condurre e nel concludere una trattativa, ma anche, prima ancora, nell’iniziarla”;
  2. la “non configurabilità di una pretesa soggettiva alla conclusione positiva” delle trattative (e quindi alla stipulazione dell’intesa), che svuota “di significato l’affermazione di una pretesa soltanto al suo avvio”;
  3. il venire in rilievo di “determinazioni importanti, nelle quali sono già impegnate la … discrezionalità politica” del Governo “e la responsabilità che normalmente ne deriva in una forma di governo parlamentare”; “la necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative”; “scelte del genere, per le ragioni che le motivano, non possono costituire oggetto di sindacato da parte del giudice”.

Quanto all’argomento sub a), certamente il “metodo della bilateralità”, che l’art. 8, comma 3, Cost. ha esteso alle confessioni religiose non cattoliche, intende evitare che lo Stato detti unilateralmente la disciplina delle sue relazioni con le singole confessioni religiose, “sul presupposto che la stessa unilateralità possa essere fonte di discriminazione” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016, sub 5.1 del “Considerato in diritto”). Ma ciò nulla dimostra in ordine all’esistenza o meno, in capo al Governo, dell’obbligo di avviare una trattativa a fronte della richiesta in tal senso da parte di un’associazione. La struttura bilaterale del “metodo” non è affatto incompatibile, dal punto di vista logico, con eventuali obblighi di negoziare. Ad opinare diversamente, la matrice garantistica del “metodo bilaterale” finirebbe per (avvilupparsi in una singolare eterogenesi dei fini e) ritorcersi contro le associazioni che aspirano a negoziare con il Governo.

Quanto all’argomento sub b), vero è che dalla non giustiziabilità dell’aspirazione alla stipulazione dell’intesa si desume la non giustiziabilità dell’anelito all’avvio delle trattive: ma difetta la dimostrazione della bontà della premessa, semplicemente data per scontata. Né tale dimostrazione affonda le sue radici nel “metodo bilaterale”, poiché l’esperienza del diritto civile insegna che la bilateralità del negozio non è affatto incompatibile con eventuali obblighi di contrarre. Inoltre, una volta che fosse sancito, sul piano sostanziale, l’obbligo del Governo di stipulare l’intesa, non mancherebbero i rimedi processuali: il pensiero corre al ricorso giurisdizionale amministrativo contro la decisione di recedere dalle trattative o, giunte le stesse sulla soglia della sigla, contro la decisione di non perfezionare l’intesa o contro il silenzio-inadempimento inteso come omessa adozione dell’atto preliminare alla stipula dell’intesa (secondo lo schema di cui all’art. 11, comma 4-bis, della legge n. 241/90, che ben si presterebbe ad un’applicazione analogica).

Nell’argomento sub c), e in esso soltanto, risiede l’autentica ratio decidendi della sentenza, che chi scrive, come già anticipato, condivide pienamente, ma considera una motivazione per così dire di secondo livello, cui attingere solamente se, per effetto di precise opzioni di diritto positivo, la stipula dell’intesa comportasse, per gli aspiranti, l’attribuzione di vantaggi, benefici, utilità (7). Il perfezionamento dell’intesa smetterebbe d’essere soltanto il presupposto della successiva (assolutamente libera) fase legislativa e si ergerebbe ad autonomo bene della vita: diventerebbe estremamente problematico seguitare ad attrarre le decisioni (governative) in ordine all’avvio delle trattative (o alla stipula dell’intesa) nel successivo procedimento legislativo e a predicarne, per ciò solo, la natura politica.

Non rimarrebbe, allora, che (aggredire frontalmente il problema e) riconoscerne la natura intrinsecamente politica, in considerazione della “necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative”: “scelte del genere, per le ragioni che le motivano [e, quindi, per la loro intrinseca natura], non possono [istituzionalmente] costituire oggetto di sindacato da parte del giudice” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016 cit., sub 5.2 del “Considerato in diritto”) (8) (9).

Ma, sino a che l’intesa si atteggia solamente come presupposto del successivo iter legis, la motivazione per così dire di primo livello, a supporto del condivisibile dispositivo reso dalla Consulta, va rintracciata nella palese assenza di una pretesa, nei confronti di Governo e Parlamento, all’esito positivo della procedura di cui all’art. 8, comma 3, Cost., unitariamente considerata, che illumina l’inconsistenza dell’affermazione di una pretesa, nei confronti del Governo, soltanto all’avvio, più che mai velleitario, della procedura medesima (10).

  1. Prima ancora, art. 24 della legge 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.
  2. Su cui si veda G. DI MUCCIO, Atti politici e intese tra lo Stato e le confessioni religiose non cattoliche: brevi note a Corte di Cassazione, sez. unite civ., sentenza 28 giugno 2013, n. 16035, in www.federalismi.it, 2013.
  3. Sulla legge come atto libero nel fine, in mancanza di deputatio ad finem impressale da precetti costituzionali, è sempre attuale E. CHELI, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, 1961, 188 ss.
  4. Ma l’ipotizzato sentiero è tanto stretto da rasentare un impercettibile pertugio, giacché – secondo la costante giurisprudenza costituzionale (ribadita dalla stessa Corte cost., n. 52/2016, sub 5.1 del “Considerato in diritto”) – il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose, sul versante della libertà di organizzazione e di azione loro immediatamente garantite dai primi due commi dell’art. 8 Cost. (a mo’ di specificazione dell’art. 3 Cost.), in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato (Corte cost., 16 luglio 2002, n. 346; 27 aprile 1993, n. 195). Cfr., al riguardo, A. PIN, L’inevitabile caratura politica dei negoziati tra il Governo e le confessioni e le implicazioni per la libertà religiosa: brevi osservazioni a proposito della sentenza n. 52 del 2016, par. 2, in www.federalismi.it, 2016.
  5. Per un’ampia ricognizione, anche in chiave storica e di diritto comparato, sull’atto politico, cfr. G. TROPEA, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Dir. amm., 2012, 329 ss. Cfr. altresì le rassegne di giurisprudenza di M. DELSIGNORE, sub art. 31 r.d. n. 1054/1924, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A. Romano e R. Villata, Padova, 2009, 1484 ss.; F. CORVAJA, Il sindacato giurisdizionale sugli atti politici, in AA.VV., Giudice amministrativo e diritti costituzionali, a cura di P. Bonetti, A. Cassatella, F. Cortese, A. Deffenu, A. Guazzarotti, Torino, 2012, 74 ss.
  6. “ … gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di … validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”. Già E. GUICCIARDI, Atto politico, in Arch. dir. pubbl., 1937, 271 individuava il sostrato dell’atto politico in ragioni estranee all’ordine giuridico. Per l’affermazione dell’attitudine del legislatore ad incidere sul confine tra atti politici ed atti meramente amministrativi (benché di alta amministrazione o comunque ampiamente discrezionali), cfr. G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Atto politico e atto di governo, in Enc. giur., Roma, 1988, 2.
  7. Si è già osservato, nella precedente nota 4, quanto sia remoto un simile scenario, alla luce della giurisprudenza costituzionale costante nel ritenere che i primi due commi dell’art. 8 Cost. (nonché gli artt. 19 e 20 Cost.) precludano al legislatore di discriminare tra associazioni religiose, a seconda che abbiano o meno stipulato un’intesa, in vista dell’applicazione di normative di settore attinenti alla libertà di culto, come ribadito da ultimo da Corte cost., 24 marzo 2016, n. 63, sub 4.1 e 4.2 del “Considerato in diritto”.
  8. Qualche spunto in tal senso era già stato offerto da F.F. PAGANO, Gli atti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico nella più recente giurisprudenza tra separazione dei poteri e bilanciamenti costituzionali, in Dir. pubbl., 2013, 885-890.
  9. Già E. GUICCIARDI, Atto politico, cit., 271 sottolineava l’immanenza della categoria dell’atto politico ad ogni Stato costituzionale: mai l’atto politico, in quanto sia tale, può “per definizione” (in quanto formatosi sulla base di ragioni estranee all’ordine giuridico) essere contrario all’interesse pubblico, e quindi mai può essere invalido. Considerazioni che riecheggiano allorché la Consulta, ancora nel 2016, riconduce ad una ragione di ordine schiettamente “istituzionale” l’emancipazione degli atti politici dallo scrutinio giurisdizionale, con impostazione ben nota anche in altri sistemi “dei quali così spesso la dottrina sottolinea la diversità [rispetto al nostro] e, talora, il maggior potere dei giudici”: il riferimento è, al di là dello scontato parallelo con l’esperienza francese, alle “political questions” negli Stati Uniti d’America e alla “royal prerogative” nel Regno Unito (G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Atto politico, cit., 3). Specialmente nell’esperienza giurisprudenziale statunitense è molto avvertito il tema della riserva di certe competenze all’Esecutivo, anche se talvolta mascherato sotto la disputa, a tratti stucchevole, intorno allo standing ai fini della judicial review: cfr. M. DELSIGNORE, La legittimazione delle associazioni ambientali nel giudizio amministrativo: spunti dalla comparazione con lo standing a tutela di environmental interests nella judicial review statunitense, in Dir. proc. amm., 2013, 759-776.

Anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, si è sottolineata l’idea che certe decisioni, proprio perché politicamente controverse, possano essere più adeguatamente apprezzate dal Parlamento e dagli elettori, che non da un giudice: cfr. G. NAPOLITANO – M. ABRESCIA, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, 2009, 276.

La stessa Corte EDU, verrebbe da dire insospettabilmente, ha escluso che l’immunità dal sindacato giurisdizionale di atti politici (nella specie, atti e operazioni di guerra) violi l’art. 6 CEDU (14 dicembre 2006, n. 1398, Markovic c. Italia).

D’altra parte, disposizioni di legge sull’insindacabilità in sede giurisdizionale degli atti politici – dagli albori della giustizia amministrativa (art. 24 della legge n. 5992/1889) fino all’art. 7, comma 1, ultimo periodo, dell’odierno c.p.a., approvato con d. lgs. n. 104/2010 – hanno accompagnato tutte le stagioni degli ultimi centotrentanni di storia italiana: dalla monarchia alla repubblica; dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana; dallo Stato liberale a quello democratico, transitando per quello fascista.

Non si intende, qui, disconoscere l’insegnamento, illuminato e ben radicato, che distingue tra atti di governo ed atti amministrativo-politici, al fine di emancipare solamente i primi, nella misura in cui “previsti implicitamente od esplicitamente dalla Costituzione, in quanto indispensabili per l’esplicazione della funzione di governo”, dallo scrutinio giurisdizionale (P. BARILE, Atto di governo (e atto politico), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 225; E. CHELI, Atto politico, cit., 194), ma semplicemente evidenziarne il carattere ‘storicistico’, a riprova del quale si rammenta il radicale ripensamento, nel breve volgere di un decennio, da parte di E. GUICCIARDI, Aboliamo l’art. 31?, in Foro amm., 1947, II, 15 ss., nella cui scia si pone, in anni più recenti, V. CERULLI IRELLI, Politica e amministrazione tra atti “politici” e atti di “alta amministrazione”, in Dir. pubbl., 2009, 114-121. Le insopprimibili ragioni “istituzionali” – ben colte, ancora nel 2016, dalla Corte costituzionale – non si prestano, per la loro stessa natura, ad essere imprigionate in formule astratte e pervase dall’illusoria vocazione all’eternità. Né è ipotizzabile, in una prospettiva di bilanciamento necessario tra i vari interessi costituzionali in gioco, che uno di essi (la garanzia della tutela giurisdizionale di un individuo o di una formazione sociale) si erga a despota assoluto degli altri (tra i quali l’indirizzo politico, basato ora sulla Costituzione, ora sulla sovranità popolare), specie quando vengono in rilievo questioni politicamente incandescenti che coinvolgono la suprema direzione, l’identità e la capacità di perpetuarsi di una comunità nazionale.

10 Rimane così sullo sfondo un dato che altrimenti sarebbe ipocrita negare, e cioè la natura essenzialmente politica della decisione sul carattere politico di un atto. Non stupisce, allora, che l’ultima parola al riguardo spetti, nel nostro ordinamento, non già al Giudice regolatore della giurisdizione, bensì alla Corte costituzionale, che il Governo può adire sollevando un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, proprio nei confronti della Corte di Cassazione.

               (4 maggio 2016)

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Tra uguaglianza e libertà: la crisi dell'uomo contemporaneo (di Alfredo Franchi)

Tra uguaglianza e libertà: la crisi dell'uomo contemporaneo

(di Alfredo Franchi)

 

Dalla rivoluzione francese ad oggi   “libertà” ed “uguaglianza” hanno animato il dibattito politico dando luogo a tutta una gamma di soluzioni in virtù delle quali l’una e l’altra sono state privilegiate e variamente combinate. La complessità del problema era stata ben avvertita da Pierre-Louis Roederer che, in un saggio sullo spirito della rivoluzione pubblicato nel 1831, si era così espresso: “benché la proprietà, la libertà, l’uguaglianza siano concetti inseparabili essi possono tuttavia essere considerati dalle nazioni in modo diseguale, possono trovarsi suddivisi in maniera molto diversa, avere un’esistenza più o meno perfetta… Tra l’uguaglianza del diritto e l’uguaglianza di fatto, e tra la superiorità reale e la superiorità di opinione alle quali l’uguaglianza dei diritti autorizza ad aspirare vi è una grande distanza”(1).

      Ma la libertà ed uguaglianza, anche singolarmente prese, nascondono nelle loro estrinsecazioni non poche ambiguità già emerse nella fase aurorale del filosofare. Platone, in una penetrante disamina, aveva colto le dinamiche aberranti ingenerate dalla democrazia quando “sedendo in molti raccolti insieme in assemblee popolari, o tribunali, o teatri, o accampamenti militari, o in altre comuni adunanze di folla, con gran chiasso alcune cose vituperano di quel che vien detto e fatto, e altre lodano, le une e le altre smodatamente, gridando e tempestando…in tale situazione, il giovane, per dir la solita frase, che cuore credi che abbia? E quale privata educazione potrà mai far resistenza in lui, che non se ne vada travolta da un simile biasimo e lode, trascinata dalla corrente dove questa lo porta, e non dica che sian belle e brutte le stesse cose che dicono questi, e non si dia alle stesse occupazioni, e non diventi egli stesso tal quale?”(2).

      Del resto i saggi non sono ascoltati nelle moltitudini(3) ed inoltre gli stessi uomini dotati delle qualità migliori sono esposti ad inquietanti processi degenerativi “anche le anime naturalmente migliori, quando vengono ad avere una cattiva educazione, diventano straordinariamente cattive… O credi tu che le grandi ingiustizie e la malvagità pura nascano da una natura mediocre, e non da una valente guastata dall’educazione, e che una natura fiacca non sarà mai causa di grandi beni né di grandi mali?”(4). Con sottile analisi Platone ha evidenziato il fatto che l’esasperazione di una qualità positiva determina, alla fine della traiettoria, l’insorgere della caratteristica antitetica e così “lo spingere all’eccesso qualsiasi cosa suole produrre per converso un gran mutamento nel senso opposto, nelle stagioni, nelle piante e nei corpi, e non meno nei regimi politici… l’eccesso della libertà, infatti, in niente altro sembra convertirsi se non nell’eccesso della servitù, per l’individuo e per lo stato”(5).

      Quando nella città democratica “assetata di libertà” coloro che comandano indulgono senza freno al desiderio smodato di essa per timore di essere infamati da epiteti ignominiosi(6) s’ingenera a poco a poco una totale anarchia che coinvolge tutti in una sorte di pressione irresistibile e così il padre si abitua “a farsi simile al figlio e a temere i figli, e il figlio a essere simile al padre, e a non aver più vergogna né paura dei genitori, al fine d’esser libero… altre piccolezze del genere sogliono accadere; il maestro in tale stato teme ed accarezza gli scolari, e gli scolari si infischiano dei maestri, e così dei pedagoghi. E in generale i giovani si mettono alla pari dei vecchi, contendendo con loro nelle parole e nelle opere, e i vecchi abbassandosi al livello dei giovani si riempiono di giocosità e di piacevolezza, imitando i giovani per non sembrar d’essere inameni e autoritari”(7).

     Per realizzare una corretta impostazione del processo formativo bisogna comunque rimanere sensibili alle modalità che qualificano la trasmissione dei contenuti e pertanto va evitato ogni atteggiamento autoritario e coercitivo in forza del quale l’apprendimento sarebbe inevitabilmente qualificato dalla conformazione servile assunta da quanti fossero stati coinvolti in tale perversa dinamica poiché “l’uomo libero non deve apprendere nessuna cognizione da schiavo. Le fatiche del corpo infatti, eseguite per forza, non rendono il corpo per nulla peggiore, ma per l’anima nessuna cognizione imposta a forza è durevole… non educare dunque a forza, ottimo amico, i fanciulli nelle varie cognizioni, ma piuttosto in forma di gioco, affinché tu sia anche più capace di scorgere la naturale inclinazione di ognuno”(8).

     In tale analisi si ha quasi la prefigurazione di riflessioni e motivi che verranno ripresi e variamente articolati nel moderno dibattito intorno al liberalismo ed alla democrazia. Su certe pagine fondamentali giova ancora oggi ritornare in quanto travalicano, nelle loro risonanze e suggestioni, l’epoca storica in cui sono nate, e sono ancora attuali per l’uomo di oggi desideroso di giungere alla verità.

      

         - I ciechi amici della libertà hanno cercato d’imporla mediante il dispotismo -

     Nel confronto instaurato tra la libertà degli antichi e dei moderni B.Constant individua una antitesi illuminante per cui “presso gli antichi l’individuo, quasi abitualmente sovrano nelle pubbliche faccende, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino, decide della pace e della guerra; come privato, è circoscritto, sorvegliato, represso in tutti i suoi movimenti; come membro del corpo collettivo, interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, colpisce di morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottomesso al corpo collettivo può a sua volta venir privato del suo stato, spogliato della sua dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’assemblea di cui fa parte. Presso ai moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella sua vita privata, anche negli stati più liberi è sovrano soltanto in apparenza”(9).

     Nell’antichità non si lascia a livello di opinione, convinzione religiosa, costumi, facoltà di libera scelta(10). Tali limitazioni, inconcepibili per l’uomo moderno, hanno una compensazione nel partecipare effettivo alla gestione del potere politico(11). Questa possibilità è venuta meno per l’uomo moderno che si coglie quasi impotente e come diluito nella congerie di individui che formano la società(12). I pensatori che hanno recuperato in epoca contemporanea le massime antiche hanno ritenuto desiderabile il sistema politico in cui tutti i mezzi parevano legittimi al fine di limitare la libertà individuale, addirittura nella sfera interiore, onde pervenire alla piena affermazione delle leggi e della sovranità della nazione(13). La libertà individuale è invece l’istanza moderna più caratteristica e rinviene la sua garanzia indispensabile nella libertà politica che va pertanto salvaguardata all’interno di una dinamica estranea ad ogni radicale assorbimento dell’una nell’altra(14). I filosofi che hanno attribuito alla sovranità del popolo un potere illimitato sono giunti a tale conclusione mossi dallo sdegno provato nei riguardi di individui dotati di immenso potere da cui hanno tratto grande male, ora, ingenuamente “il loro sdegno s’è volto contro i detentori del potere e non contro il potere in se stesso. Invece di distruggerlo, non hanno pensato che a trasferirlo; era un flagello, lo han considerato una conquista; lo hanno attribuito alla società intera; da questa, per forza di cose, è passato alla maggioranza, dalla maggioranza alle mani di pochi uomini; spesso anche a una sola mano: ha fatto tanto male quanto ne faceva prima”(15).

      L’idea che la società abbia una sovranità illimitata è da rifiutare come pure insostenibile appare la legittimazione assoluta di un atto semplicemente in quanto è stato approvato da una maggioranza(16). Il Constant, tenace assertore della libertà, non si lascia sedurre dall’idea di  uguaglianza poiché “niente è più assurdo che violentare le abitudini col pretesto di giovare agli interessi. Il primo degli interessi è di essere contenti, e le abitudini formano una parte essenziale della contentezza. E’ evidente che popoli posti in condizioni diverse, allevati secondo costumi diversi, abitanti luoghi dissimili, non possono essere ricondotti a forme, a usanze, a pratiche, a leggi assolutamente uguali, senza una costrizione che a loro costa assai più che per loro non valga. La specie d’idee sulle quali si è formata gradualmente fin dalla nascita il loro essere morale non può venir modificata da un riassetto puramente nominale, puramente esteriore, e indipendente dalla loro volontà”(17).

       In tale senso vanno salvaguardati i costumi e le tradizioni locali senza indulgere a processi di centralizzazione omologante che rendono gli uomini stranieri al luogo di nascita ed al loro passato, viventi solo in un presente fuggitivo e indifferenti a tutte le variegate forme della vita(18). La libertà come valore supremo dell’uomo si nutre di se stessa ed in tal senso è inaccettabile ogni sua limitazione (come si verifica nei regimi dispotici) rimandando al futuro la sua realizzazione difatti “le misure violente, adottate come dittatura in attesa dell’opinione pubblica, le impediscono di nascere; ci si agita entro un circolo vizioso; si indica un’epoca in cui non si è certi di pervenire, perché i mezzi scelti per pervenirvi non le consentono di sopraggiungere. La forza rende sempre più necessaria la forza; l’ira si accresce con l’ira; le leggi vengono fabbricate come armi; i codici diventano dichiarazioni di guerra;  e i ciechi amici della libertà, i quali hanno creduto d’imporla mediante il dispotismo, producono la ribellione di tutti gli animi liberi, e non hanno per sostegno che i più vili adulatori del potere” (19).

      La tirannia dispotica perviene al suo apice quando costringe gli schiavi a dichiararsi liberi, mentre sono del tutto estranei a tale prerogativa ed in tal modo costoro “divenuti complici sono tanto spregevoli quanto i loro padroni”(20). Ogni pretesa assolutistica si ammanta abusivamente della “facies” di prerogativa divina e pertanto ogni autentica esperienza religiosa fondata sulla trascendenza viene a costituire il rimedio più adatto in quanto induce alla consapevolezza che “l’esperienza dell’assoluto, l’esperienza di Dio non può riprodursi in nessuna istituzione e in nessuna autorità umana”(21), ed inoltre allontana da ogni soggettivismo egoistico e da ogni bramosia di potere(22). Se è vero che l’autentico amore per la libertà giunge addirittura ad implicare il sacrificio della vita, questo appare possibile “per chi non sa vedere altro che la vita?”(23).

      Il Constant dando spazio a motivi largamente diffusi in epoca romantica rinviene nella esperienza religiosa la compensazione a tutti i mali e le sofferenze della storia (24). In tale atmosfera viene spontaneo il recupero della esperienza del sublime in cui si ravvisa la più naturale delle emozioni difatti “tutte le nostre sensazioni fisiche, tutti i nostri sentimenti morali la fanno rinascere a nostra insaputa nel nostro animo. Tutto ciò che ci appare senza confini, e produce in noi la sensazione dell’immensità, come la vista del cielo, il silenzio della notte, la vasta distesa dei mari, tutto ciò che ci porta alla commozione o all’entusiasmo, la coscienza di una azione virtuosa, di un sacrificio generoso, di un pericolo affrontato con coraggio, del dolore altrui soccorso o alleviato, tutto ciò che suscita dal fondo della nostra anima gli elementi primordiali della nostra natura, il disprezzo per il vizio, l’odio per la tirannia, tutto questo alimenta il sentimento religioso.

Questo sentimento è presente in tutte le passioni nobili, delicate e profonde; come tutte queste passioni ha qualcosa di misterioso, che la ragione comune non riesce a spiegare in modo soddisfacente. L’amore, questa preferenza esclusiva per un bene di cui abbiamo potuto fare a meno per tanto tempo ed al quale tanti altri somigliano; il bisogno di gloria, questa sete di una fama che deve sopravviverci; la gioia che proviamo nella devozione, gioia contraria all’istinto abituale del nostro egoismo; la malinconia, questa tristezza senza causa, in fondo alla quale c’è un piacere che non sappiamo analizzare; mille altre sensazioni indescrivibili, che ci riempiono di impressioni vaghe e di emozioni confuse, e che non si possono spiegare col rigore del ragionamento; esse hanno tutte una loro affinità col sentimento religioso. Tutte favoriscono lo sviluppo della morale, fanno uscire l’uomo dal cerchio limitato dei suoi interessi, rendono all’anima quella elasticità, quella delicatezza, quella esaltazione, soffocate nell’abitudine della vita comune e nei calcoli che la vita comune comporta. L’amore è la più composita di queste passioni, perché ha per fine un bene determinato, un fine che ci è vicino e che può condurci all’egoismo. Il sentimento religioso, al contrario, è di tutte le passioni la più pura. Non finisce con la gioventù, anzi talvolta si rafforza con l’avanzare dell’età, come se il cielo ci avesse dato la fede perché potesse consolare il periodo più spoglio della nostra vita”(25). Queste esperienze in vario modo ribadiscono la finitezza dell’uomo in senso fisico ed insieme attestano in esso una dimensione spirituale che lo apre alla trascendenza.  La mancanza del sentimento religioso non si circoscrive nella specifica sfera e viene a rivelare una sorta di aridità profonda che investe l’intera natura umana(26) , poiché tutto ciò che è nobile ed esaltante nella vita riceve il suo impulso dalla religione(27) e così quanto dilata l’esistenza al di fuori dei ristretti confini dello spazio e del tempo si nutre delle sue sollecitazioni(28). Senza di essa  “l’universo è senza vita. Generazioni passeggere, fortuite, isolate vi appaiono, soffrono, muoiono. Nessun legame esiste fra queste generazioni che si dividono quaggiù prima il dolore, poi il nulla. Ogni comunicazione tra il passato, il presente, e l’avvenire è interrotta; nessuna voce si tramanda dai popoli che non sono più ai popoli viventi, e la voce dei popoli viventi deve sprofondare un giorno nello stesso eterno silenzio. Chi non sente che se l’incredulità non si fosse incontrata con l’ignoranza, questo sistema sconsolato avrebbe agito sull’anima dei suoi seguaci, trattenendoli almeno nell’apatia e nel silenzio?”(29).

-La passione dell’uguaglianza occupa ogni giorno un posto più grande nel cuore umano-

       “Al nostro tempo, specialmente in Francia, questa passione dell’uguaglianza occupa ogni giorno un posto più grande nel cuore umano”(30). Questo il fatto che ha tanto impressionato il Tocqueville e di cui vuole rintracciare le cause. In linea teorica sarebbe ipotizzabile un sistema in cui libertà ed uguaglianza dialetticamente si fondono(31), di fatto, però, nella sua epoca “gli uomini provano un amore molto più ardente e tenace per l’uguaglianza che per la libertà”(32).

       Nella valutazione del pensatore francese mentre si colgono con immediatezza gli inconvenienti insiti nella espansione eccessiva della libertà, non si colgono invece le conseguenze nefaste che possono scaturire dalla affermazione indiscriminata del principio di uguaglianza poiché “i mali che la libertà conduce seco sono talvolta immediati, visibili da tutti, e sentiti più o meno da tutti. I mali che possono essere prodotti dall’estrema uguaglianza si manifestano solo a poco a poco, si insinuano gradualmente nel corpo sociale, non si vedono che di tanto in tanto e, nel momento in cui diventano più violenti, l’abitudine ha già fatto sì che non si sentano più

      I beni che la libertà procura si manifestano solo dopo molto tempo ed è sempre facile disconoscere la causa che li ha fatti nascere. I vantaggi dell’uguaglianza si fanno sentire immediatamente e si vedono ogni giorno discendere dalla loro fonte. La libertà politica dà di tanto in tanto piaceri sublimi a un certo numero di cittadini. L’uguaglianza offre ogni momento una quantità di piccole soddisfazioni a ogni uomo. Le sue attrattive si fanno sentire continuamente e sono alla portata di tutti: i cuori più nobili non sono insensibili ad esse e le anime più volgari ne fanno la loro delizia. La passione dell’uguaglianza deve dunque essere insieme energica e generale”(33).

      Tra gli inconvenienti che scaturiscono dalla affermazione indiscriminata del principio di uguaglianza è da annoverare l’individualismo(34). Con l’avvento della democrazia facilmente si emerge e si ricade nella insignificanza e così “la trama del tempo si spezza ogni momento, e la traccia delle generazioni scompare”(35). E,  mentre nelle società aristocratiche si aveva “una lunga catena che andava dal cittadino al re”(36), man mano che si impone il principio di uguaglianza ogni legame si spezza e ciascuno è portato a considerarsi, nel bene e nel male, artefice del proprio destino al punto che “la democrazia non solo fa dimenticare ad ogni uomo gli avi, ma gli nasconde i discendenti e lo separa dai contemporanei; lo riconduce continuamente verso se solo e minaccia di rinchiuderlo tutto intero nella solitudine del proprio cuore”(37).

      Il Tocqueville non si stanca di ripetere che per combattere le conseguenze nefaste provocate dalla affermazione del principio di uguaglianza non vi è che un rimedio ossia la libertà politica(38).Tra gli inconvenienti della democrazia Tocqueville individua l’interesse accanito per i beni materiali. Chi si lascia sedurre da tale aspirazione scivolerà inesorabilmente verso le filosofie materialistiche e da queste trarrà ulteriore impulso per consolidarsi nell’esclusiva ricerca di una felicità materiale(39). Il pensatore francese non si stanca di ribadire la sua avversione per questa pericolosa malattia dello spirito che induce l’uomo ad equipararsi ai bruti traendone vano motivo di orgoglio(40). Ecco il motivo per cui nelle diverse religioni si insiste tanto sul motivo della immortalità dell’anima(41). Tale convinzione dà alla vita una tonalità più elevata favorendo la nascita dei sentimenti più nobili e dei pensieri più elevati(42). Questa credenza si rinviene anche nella filosofia platonica configurandosi in essa  come motivo di assoluta emergenza(43). Si deve infatti riconoscere che le manifestazioni letterarie più elevate sono ancorate allo spiritualismo ed alla credenza nella immortalità dell’anima “non bisogna dunque credere che in qualche tempo, quale che sia lo stato politico, la passione dei beni materiali e le opinioni che ne dipendono, possano bastare a tutto un popolo. Il cuore dell’uomo è più vasto di quel che non si creda”(44). Tale constatazione appare ancor più importante una volta si sia riconosciuto che nella democrazia l’amore fondamentale è quello della ricchezza(45), difatti: “scomparso il prestigio della tradizione, la nascita,  la condizione sociale, la professione non distinguono più gli uomini, o li distinguono appena; non resta più nulla oltre il denaro, che possa creare differenze visibili tra loro e che possa mettere qualcuno fuori del comune”(46).

       - La democrazia  vuole l’uguaglianza nella libertà e il socialismo vuole l’uguaglianza nella servitù -

       Nel Tocqueville la nozione di libertà non emerge in maniera del tutto lineare ed univoca. Si tratta per lui di un valore profondo che lo raccorda a certa temperie del primo ottocento in cui la libertà era rivissuta con pathos addirittura religioso, fermo restando, nel suo caso, lo scollamento da ogni concezione immanentistica dal momento che nel suo pensiero il dissidio tra libertà e storia è ognora presente(47), e pertanto non esiste alcuna certezza aprioristica sulla coincidenza tra scelta politica e valore. La libertà si viene configurando come una sorta di valore metastorico al quale i concreti modelli politici dovevano ispirarsi senza le presunzione aprioristica di coincidere con essa(48).

      La distinzione lucida, tra indagine empirica aderente al farsi degli eventi ed il valore di una libertà mai esauribile nelle sue concrete manifestazioni, consente al Tocqueville di salvaguardare la sua identità di acuto osservatore della realtà ed insieme di moralista autentico capace di discernere il divario tra i valori assoluti ed una realtà concreta in grado di trascriverli solo in maniera parziale(49). La storia della Francia  nella sua scansione complessiva lo conferma nella convinzione che il massimo ostacolo per la libertà sia il centralismo assolutistico in virtù del quale è stata in vario modo mortificata l’iniziativa individuale ed ogni esperienza di autogoverno(50), in tal senso l’inesorabile affermazione del principio di uguaglianza(51) dà luogo a previsioni ancora più allarmanti circa il futuro della libertà già indebolita in virtù di una tradizione storica sfavorevole(52).

      Nella sua epoca il Tocqueville rinviene manifestazioni stupefacenti e contraddittorie per cui “gli uomini di fede combattono la libertà, e gli amici della libertà attaccano la religione; spiriti nobili e religiosi vantano la schiavitù; e anime basse e servili preconizzano l’indipendenza”(53), e così gli appare veramente drammatica la lacerazione del legame che in ogni tempo ha unito “i sentimenti e le idee… le opinioni ai gusti…le azioni alle convinzioni religiose”(54). Consapevole del fatto che il suo anelito per la libertà era fuori moda  non desiste peraltro da esso come principio fondamentale di tutta la sua riflessione politica(55) che rinviene nella struttura pluralistica dello stato l’antidoto alla concezione monistica del centralismo burocratico in cui fa naufragio ogni esperienza di autonomia ed autogoverno(56). Il Tocqueville allarga la sua analisi ai grandi problemi della sua epoca tra i quali fondamentale gli appare quello della istituzione ed organizzazione della democrazia nel mondo cristiano(57). Veramente drammatico e dovuto ad una serie di circostanze disgraziate è l’acuirsi del contrasto tra religione democrazia e libertà(58) dal momento che “quasi tutti gli sforzi che gli uomini hanno compiuto nell’età moderna per conquistare la libertà, sono stati fatti per il bisogno di manifestare e difendere le opinioni religiose”(59). E così il pensatore francese insiste fortemente sull’idea di una fondazione in chiave religiosa della libertà  e dell’uguaglianza, prendendo le distanze da ogni legittimazione costruita in base all’ateismo o al materialismo(60), rinvenendo in tali posizioni non solo delle teorie inadeguate, ma addirittura pericolose in quanto inclini a favorire l’evoluzione dispotica del regime politico per cui, alla fine, l’uomo “se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda”(61).

      Nell’articolazione del suo pensiero il Tocqueville si poneva fuori dall’alternativa tradizionale per cui da una parte la religione si configurava come una esperienza del tutto privata in cui il governo non doveva intervenire dal momento che la religione aveva anche una dimensione pubblica ed istituzionale, dall’altra però essa non doveva mai diventare uno strumento del potere politico in quanto, a seguito di tale scelta, avrebbe rinunziato a quella assoluta libertà che la qualificava nel suo specifico versante e  che la rendeva fondamentale ed indispensabile per lo sviluppo della democrazia.

      Il Tocqueville lettore attento e sensibile di Pascal, ne mutua la convinzione del carattere incommensurabile di certe esperienze umane come quella della forza, della sapienza, della santità, ognuna, nel suo contesto specifico, legata ad obblighi e dinamiche peculiari e così, a difesa della libertà di coscienza di ogni uomo, giunge a dire che “non c’è niente che si presti di più a rendere l’immagine  dell’ideale che l’uomo, così considerato nelle profondità della sua natura immateriale. Non ho bisogno di percorrere il cielo e la terra, per scoprire un oggetto meraviglioso pieno di contrasti, di grandezze e miserie infinite, di oscurità profonde e di singolari chiarezze, capace insieme di provocare pietà, ammirazione, disprezzo e terrore. Non ho che da considerare me stesso:

l’uomo esce dal nulla, attraversa il tempo e va a scomparire per sempre nel seno di Dio. Non lo si vede che un istante errare sul limite di due abissi in cui si perde… solo tra tutti gli esseri, l’uomo mostra un naturale disgusto per l’esistenza e un immenso desiderio di esistere: disprezza la vita e teme il nulla. Questi diversi istinti spingono incessantemente la sua anima verso la contemplazione di un altro mondo, ed è la religione che ve lo conduce”(62).

      Nell’epoca di Tocqueville si venne delineando in tutta la sua asprezza la contrapposizione tra libertà e socialismo. Con singolare preveggenza il pensatore francese colse l’inconciliabilità delle alternative dal momento che “la democrazia vuole l’uguaglianza nella libertà e il socialismo vuole l’uguaglianza nella servitù”(63). La vicenda ulteriore avrebbe confermato l’esattezza della diagnosi effettuata, difatti, nei paesi del socialismo reale, una onnipresente burocrazia sarebbe pervenuta alla forma più esasperata di potere mai realizzata nella storia. Rovesciando la prospettiva dei pensatori liberali della sua epoca che si ispiravano nel corso della loro analisi ai modelli del passato, il Tocqueville è consapevole del fatto che la nuova società democratica sarà del tutto diversa da quella del passato e pertanto andrà descritta delineando un modello del futuro basato sul tipo ideale dell’uomo comune estraneo ad ogni raffinatezza e proclive all’edonismo. In tale condizione la libertà vincolata ad esiti utilitaristici difficilmente poteva sopravvivere stando all’adagio per cui “chi cerca nella libertà altra cosa che la libertà stessa  è fatto per servire”. Il pensatore francese nella sua analisi della democrazia riesce anche ad individuare il retroterra filosofico che la sorregge ossia quel panteismo che, a partire dalla Germania, si è diffuso in gran parte dell’Europa dando agli uomini l’illusione di poter penetrare e comprendere la totalità della vicenda storica. Idea affascinante per il ritenuto potere esplicativo ma, al medesimo tempo insidiosa per la presunzione indotta e per l’acquiescenza provocata nei riguardi del reale (64).

      Nelle filosofie della immanenza si teorizza una continua emancipazione dello spirito dalla trascendenza onde pervenire alla integrale trasfigurazione dell’uomo tramite la filosofia e la scienza. Tocqueville convinto della costitutiva e insuperabile imperfezione della natura umana rimane estraneo alla totale compenetrazione tra il divino e la storia che, nella moderna concezione immanentistica, favoriva le ottimistiche conclusioni in precedenza accennate. Per il pensatore francese, al contrario, è veramente libero chi non disconosce mai la “vera grandezza dell’uomo” e cioè la sua trascendenza rispetto alla natura ed alla storia. Con l’avvento della democrazia e con la progressiva attenuazione della personalità umana la filosofia panteistica “proprio perché distrugge l’individualità umana, avrà un fascino segreto per gli uomini che vivono in tempi di democrazia, tutta la loro struttura intellettuale li prepara a concepirla e li mette sulla strada di accettarla”(65).E’ fondato pertanto il timore che l’uomo diluito nelle grandi masse rimanga estraneo alle grandi emozioni che mettono in subbuglio la vita ma ne costituiscono anche la molla propulsiva(66).

      Nella libertà si rinviene quasi la cifra dell’esistenza umana che, nelle filosofie della storia approntate in epoca moderna, ottiene solo una illusoria garanzia poiché, da esse,  è indotta a risolversi negli atteggiamenti del fatalismo storico e del relativismo etico in cui naufraga ogni energia morale  ed ogni creatività(67). Con l’avvento della democrazia il singolo uomo da una parte è indotto a rifugiarsi nella sfera privata degli interessi domestici(68), dall’altra nonché venire a formare il popolo auspicato dai filosofi viene a risolversi in una paradossale “folla solitaria” in cui la credulità e l’opinione comune regnano sovrane(69). Si assiste così in tale contesto alla scomparsa di ogni personalità autonoma ed originale in virtù di una enorme pressione sullo spirito e l’intelligenza secondo modalità inedite e devastanti(70). La corruzione passa dalla sfera fisica a quella spirituale e l’uguaglianza si disloca dall’ambito politico a quello economico e interiore provocando una totale omologazione sul piano dei pensieri, dei sentimenti, delle passioni.

      La libertà di pensiero si riduce ad una formula verbale ove il favore del pubblico regni in maniera indiscriminata generando una sorta di coercizione anonima che prescrive i limiti entro i quali il pensiero si può muovere ed il linguaggio si può articolare. La moderna tirannide “trascura il corpo e va dritta all’anima. Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi”(71). La società scaturita dalla rivoluzione industriale nel mentre favorisce uguaglianza e benessere sempre crescenti rende più fragile l’individuo in virtù di quella divisione del lavoro che, attenuando progressivamente l’energia spirituale dell’uomo, finisce per renderlo semplice appendice dell’apparato produttivo(72). L’amore del benessere e delle gioie materiali diventa la molla propulsiva delle società egualitarie e democratiche(73) inducendo gli uomini che ne fanno parte a sacrificare la libertà per la sicurezza, essa difatti è “una sorta di passione flaccida, e tuttavia tenace e inalterabile, che facilmente si mischia, e, per così dire, s’intreccia a non poche virtù private, quali l’amore della famiglia, la morigeratezza dei costumi, il rispetto delle opinioni religiose, ed anche all’osservanza tiepida ed assidua del culto dominante; che propizia l’onestà vietando l’eroismo, ed eccelle nel plasmare uomini d’ordine e pusillanimi cittadini(74).

      A questo punto era possibile prevedere nel futuro la mancanza di ogni grande rivoluzione intellettuale e politica e di “quelle grandi e potenti emozioni, che travagliano i popoli, ma che pure li sviluppano e li rinnovano”(75). Ma il Tocqueville non si adagia in tale pessimistica conclusione quando auspica l’avvento di una aristocrazia dello spirito, capace di trarre nuove energie dalla interiorità della coscienza(75). Nella libertà rinviene difatti quasi l’attestato della grandezza morale dell’uomo(77) ed il vero rimedio contro le tendenze nefaste indotte dall’avvento della democrazia(78). Il pensatore francese è ben consapevole delle difficoltà insite nel progetto teso a cogliere in una visione d’insieme la nuova società che sta nascendo(79) dal momento che la sua configurazione rimane aurorale “il tempo non ne ha ancora fissata la forma”(80), ed inoltre nel processo a ritroso compiuto dalla memoria storica non si rinviene niente di simile che possa chiarificarne la fisionomia e scioglierne l’enigma(81) e pertanto “poiché il passato non rischiara più l’avvenire, lo spirito avanza nelle tenebre”(82). L’incertezza estrema si accompagna al pericolo di una perdita di ogni speranza nel futuro, e di ogni fiducia nella natura umana sì da ingenerare il rimpianto della società scomparsa(83).

      In virtù del processo di democratizzazione la ragione individuale diventa in altro contesto l’unico fattore dirimente poiché in “un paese in cui i cittadini, diventati pressoché pari, si vedono tutti molto da vicino, e, non scorgendo in nessuno i segni di una grandezza e di una superiorità incontestabili, (essi) sono continuamente risospinti verso la loro stessa ragione come verso la sorgente più evidente e più prossima di verità”(84). In tal modo si viene progressivamente smantellando ogni tradizione religiosa e sociale per dare spazio a “tutto il nuovo” che avanza in nome della ragione(85). Per cui nella moderna società democratica il singolo viene ad oscillare tra la massima omologazione indotta dalla pressione pubblica già descritta, e tra dinamiche individuali dirompenti e non creative(86). Il Tocqueville in una penetrante disamina rinviene l’antidoto a tale dissolvimento nella religione che si oppone all’amore esclusivo del benessere e dell’egoismo individuale(87) sino a concludere che il consolidarsi del dubbio sulle verità religiose porterebbe gli uomini al disordine ed all’impotenza(88). Né migliore rimedio sarebbe quello di accantonare il problema e di non pensarci più. Di qui la conclusione cui approda: “sono incline a pensare che (l’individuo), se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda”(89). Il Tocqueville allarga la sua diagnosi alla sorte cui andranno incontro l’arte e la letteratura quando l’artista totalmente disancorato da ogni valore darà vita ad opere in cui “si cercherà più di stupire che di piacere, e ci si sforzerà di suscitare passioni più che di sollecitare il gusto”(90)La soggettività emancipata  da ogni tradizione impedisce la nascita di paradigmi di riferimento alternativi e alla fine “non  è soltanto la fiducia nella capacità di certi individui che si affievolisce nelle nazioni democratiche… ma non tarda anche ad offuscarsi l’idea generale della superiorità intellettuale che qualsiasi uomo può acquisire su tutti gli altri”(91)

      L’epoca moderna non solo sovverte i quadri di riferimento del passato, ma ignora ogni alternativa per cui alla fine “lo spirito avanza nelle tenebre”(92) In tale contesto l’uomo si viene sfaldando tra il massimo conformismo indotto dalla pressione sociale collettiva ed un individualismo autodistruttivo proteso alla ricerca continua dell’inatteso e del nuovo(93). Alla fine bloccati nella mera ricerca del piacere presente si perde completamente ogni raccordo al passato ed al futuro e così “ci si scorda facilmente di coloro che ci hanno preceduti, e non si ha nessuna idea di quelli che ci seguiranno. Solo i più vicini interessano”(94). Dal momento che l’eternità scompare come orizzonte del presente gli uomini sembrano agire “come se non dovessero esistere che un giorno solo”(95) in una assoluta presenzialità senza storia.

             - L’uomo disprezza la vita e teme il nulla -

       Nell’opera di Tocqueville la riflessione intorno alla religione ed ai suoi rapporti con la società e la politica occupa un posto di assoluto rilievo a partire dalla considerazione preliminare per cui gli sembra erroneo considerare il cattolicesimo come nemico della democrazia dal momento che “nell’uguaglianza delle condizioni” rinviene uno dei tratti costitutivi e caratterizzanti(96)

      Nei  filosofi della corrente illuminista si era ipotizzato l’estinguersi delle religioni man mano che la libertà e lo spirito critico si fossero incrementati(97): Tale previsione è stata clamorosamente smentita dai fatti poiché “vi sono in Europa dei popoli nei quali l’incredulità è uguagliata solo dall’abbrutimento e dall’ignoranza, mentre in America si vede uno dei popoli più liberi e più civili del mondo adempiere con ardore tutti i doveri esterni della religione”(98). A giudizio di Tocqueville la religione si radica nella profondità dell’animo umano difatti “mai il breve spazio di sessant’anni potrà rinchiudere tutta l’immaginazione dell’uomo; le gioie incomplete di questo mondo non basteranno mai al suo cuore. Solo fra tutti gli esseri, l’uomo mostra un naturale disgusto per l’esistenza e un immenso desiderio di esistere: egli disprezza la vita e teme il nulla. Questi diversi istinti spingono continuamente la sua anima verso la contemplazione di un altro mondo ed è la religione che ve lo conduce. La religione non è dunque che una forma particolare della speranza ed è naturale al cuore umano come la speranza stessa. Per una specie di aberrazione intellettuale, per mezzo di una specie di violenza morale esercitata sulla loro natura, gli uomini si allontanano dalla religione, ma una invincibile inclinazione ve li riconduce. L’incredulità è un accidente; la fede sola è lo stato permanente dell’umanità”(99).

      La religione conserva integra la sua importanza quando non si subordina a finalità politiche contingenti che mortificano il suo afflato profondo difatti “quando una religione cerca di fondare il suo impero soltanto sul desiderio dell’immortalità che tormenta ugualmente il cuore di tutti gli uomini, può aspirare all’universalità; ma quando si unisce a un governo, deve adottare delle massime applicabili  solo ad alcuni popoli. Perciò, ovunque, alleandosi a un potere politico, la religione aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti”(100). La religione è in grado di resistere alla corrosione del tempo in quanto rende estranei ai condizionamenti mondani che ne rendono effimero il messaggio(101). Il rischio sarà pertanto più grave nei regimi democratici caratterizzati da una particolare instabilità, in tal caso la religione intrecciata alle dinamiche politiche ne condividerà tutta la fragilità e le incertezze(102). A giudizio di Tocqueville l’incredulità si è affermata in Europa appunto in reazione alla saldatura profonda verificatasi tra religione e potere politico. La crisi di quest’ultimo ha trascinato con sé il cristianesimo infatti “gli increduli in Europa combattono i cristiani più come nemici politici che come avversari religiosi: essi odiano la fede  più come l’opinione di un partito che come un’erronea credenza; e nel sacerdote combattono assai più l’amico del potere che il rappresentante di Dio.

      In Europa il cristianesimo ha permesso che lo si unisse intimamente alle potenze terrene. Oggi queste potenze cadono ed egli è come seppellito dalle loro rovine. E’ un vivente che si è dovuto legare ai morti: tagliate i legami che lo trattengono ed egli si alzerà”(103). Ora, se è vero che l’affermazione della democrazia si configura come il problema più importante del tempo, giova  enucleare le condizioni che consentono di metterlo a fuoco adeguatamente ed identificare le modalità che possono favorirne la soluzione. Bisogna in primo luogo riconoscere che “da quando la religione ha perduto il suo impero sulle anime, il limite più visibile che divideva il bene dal male è ormai scomparso; tutto sembra dubbioso e incerto nel mondo morale; i re e i popoli procedono a caso e nessuno potrebbe dire dove siano i limiti naturali del dispotismo o della licenza”(104). In tale anomia generalizzata la personalità umana si sfalda progressivamente sino a perdere interesse per la libertà e l’autonomia dello spirito e così, alla fine di tale traiettoria aberrante, non vi sarà più indipendenza per nessuno ove si affermi il potere assoluto ed incondizionato di uno solo(105). Il pensatore francese allarga la sua indagine all’ambito artistico-figurativo ravvisando in esso la tendenza a privilegiare la pittura del corpo e delle manifestazioni correlative su quella dell’anima e dei suoi sentimenti(106), al contrario di quanto avveniva nella prospettiva classica in cui non ci si curava della rigorosa esattezza dei particolari in quanto si poneva l’ideale al di sopra del reale e della natura nell’intento di “fare dell’uomo qualcosa di superiore all’uomo”(107). L’artista emblematico della modernità si preoccupa di offrire una esatta raffigurazione della natura, mentre i pittori del rinascimento lasciavano intravedere nell’uomo la divinità aprendo così ai fruitori delle loro opere orizzonti infiniti(108).

      Anche nella letteratura il Tocqueville si rende conto del complesso intreccio che esiste tra stato sociale e politico di un popolo e la sua produzione artistica. Nelle democrazie frequentemente ci si occupa di letteratura senza aver avuto una preparazione specifica poiché l’assorbente carriera politica ed altre professioni mondane solo episodicamente lasciano spazio alle gioie dello spirito(109). In tale atmosfera non si potrà mai giungere ad una conoscenza approfondita della letteratura, rimanendo così estranei al gioco sottile delle sfumature e delle delicatezze(110). I libri di successo saranno di facile degustazione e giocando sul fascino del nuovo, andranno incontro ad una sensibilità omologata e volgare(111). Anche la forma sarà trascurata e sciatta “lo stile si mostrerà sovente bizzarro, scorretto, sovraccarico e molle, quasi sempre ardito e veemente. Gli autori mireranno alla rapidità dell’esecuzione più che alla perfezione dei particolari. I brevi scritti saranno più frequenti dei grossi libri, lo spirito più dell’erudizione, l’immaginazione più della profondità: regnerà nel pensiero una forza incolta e quasi selvaggia, e nei prodotti una grandissima varietà e una singolare fecondità. Si cercherà di stupire più che di piacere e ci si sforzerà di trascinare le passioni più che di attrarre il gusto”(112). Gli stessi scrittori più geniali solo episodicamente si renderanno estranei alla pratica letteraria comune e generalizzata(113) al fine di mantenere un consistente numero di lettori(114) difatti, nelle società democratiche “l’interesse degli individui, così come la sicurezza dello stato, esigono che l’educazione della maggioranza sia scientifica, commerciale e industriale piuttosto che letteraria”(115). In tale contesto l’amore eccessivo delle gioie materiali e la seduzione del successo concentrano l’uomo in maniera quasi esclusiva sulla carriera mondana e così l’immaginazione  si risolve completamente nella ricerca dell’utile al di fuori di ogni esaltante raccordo con l’ideale(116) e, mentre la sensibilità aristocratica induceva naturalmente l’uomo alla contemplazione del passato “la democrazia invece dà agli uomini una specie di disgusto istintivo per ciò che è antico”(117) e così viene meno l’atmosfera più propizia alla poesia dal momento che le cose man mano si allontanano vengono ad ingrandirsi ed a trasfigurarsi in una luce ideale e così, con l’affermazione del principio di uguaglianza, dopo aver tolto alla poesia il passato, la si priva anche del presente”(118).

      Il Tocqueville  non si limita a cogliere gli aspetti negativi della modernità difatti, nell’idea di progresso e perfettibilità della natura umana, ravvisa la “cifra” dell’età democratiche e sotto questo profilo “i popoli… non si preoccupano affatto di quello che è stato, ma pensano volentieri a ciò che sarà, sotto questo aspetto la loro immaginazione non trova limiti, si estende e si ingrandisce indefinitamente… poiché tutti i cittadini che compongono una società democratica sono quasi uguali, la poesia non può prendere a soggetto alcuno di loro; ma la nazione stessa si offre al suo pennello. La somiglianza di tutti gli individui che rende ciascuno di essi separatamente disadatto a divenire oggetto di poesia permette ai poeti di racchiuderli tutti in una stessa immagine e considerare il popolo per se stesso. Le nazioni democratiche scorgono più chiaramente di tutte le altre la propria figura, la quale si presta meravigliosamente alla pittura dell’ideale”(119), i poeti vissuti in età aristocratiche non hanno compreso nel loro quadro i destini delle specie umane, al contrario di quanto possono fare i poeti che scrivono nell’epoca democratica “se nei secoli democratici la fede nelle religioni positive è spesso vacillante… d’altra parte gli uomini sono disposti a concepire un’idea molto più vasta della divinità stessa e vedono sotto un aspetto nuovo e più grande il suo intervento nelle cose umane. Siccome considerano il genere umano come una unità, essi concepiscono facilmente come un unico disegno presieda ai suoi destini, e son portati a riconoscere, nelle azioni dei singoli individui, la traccia di un piano generale e costante, per mezzo del quale Iddio conduce la specie umana. Anche questo può essere considerato come una fonte abbondante di poesia”(120)

      E mentre la lingua, lo stile di vita, il ritmo esteriore di esistenza delle società democratiche è refrattario alla affermazione dell’ideale ed alla poesia, questa non scompare se i poeti continuano ad oltrepassare la testimonianza dei sensi per cogliere l’uomo nella profondità della sua natura spirituale stando alle conclusioni di Tocqueville che dichiara “non ho bisogno di percorrere il cielo e la terra pere scoprire un oggetto meraviglioso pieno di contrasti, di grandezza e di piccolezza infinite, di oscurità profonde e di singolari chiarezze, capace insieme di far nascere pietà, ammirazione, disprezzo, terrore; mi basta considerare me stesso: l’uomo nasce dal nulla, attraversa il tempo e va a scomparire per sempre nel seno di Dio. Lo si vede errare solo per un momento sul limite di due abissi nei quali si perde.

      Se l’uomo ignorasse completamente se stesso, non sarebbe affatto poetico, poiché non si può dipingere ciò di cui non si ha un’idea. Se vedesse chiaramente se stesso, l’immaginazione resterebbe in ozio e non avrebbe nulla da aggiungere al quadro. Ma l’uomo è abbastanza scoperto perché si possa scorgere qualcosa di lui, e abbastanza nascosto perché qualcosa affondi in tenebre impenetrabili, fra le quali egli si tuffa continuamente e sempre invano per poter conoscere se stesso.

     Non bisogna dunque aspettarsi che, presso i popoli democratici, la poesia viva di leggende, che si nutra di tradizioni e di antichi ricordi, che tenti di ripopolare l’universo di esseri soprannaturali a cui i lettori e i poeti stessi non credono più, né che personifichi freddamente virtù e vizi, che si vogliono vedere sotto la propria forma, tutte queste risorse le mancano; ma le resta l’uomo, ed è abbastanza per lei. I destini umani, l’uomo, staccato dal suo tempo e dal suo paese e messo in faccia a Dio, con le sue passioni, i suoi dubbi, le sue fortune inaudite e le sue miserie incomprensibili, ecco l’oggetto principale e quasi unico della poesia di questi popoli… L’uguaglianza non distrugge dunque tutti gli oggetti della poesia; li rende meno numerosi, ma più vasti”(121)

     Il profondo interesse per la storia induce il pensatore francese ad instaurare un raffronto particolareggiato delle modalità e delle procedure che qualificano l’indagine storiografica. L’importanza delle grandi personalità appare in tutta evidenza nella storiografia aristocratica che, in via preliminare, è indotta ad esaltare il ruolo decisivo delle individualità e l’importanza di cause apparentemente banali al contrario di quanto avviene nella storiografia democratica incline a sottostimare l’incidenza dei singoli uomini nell’insieme delle vicende storiche a vantaggio di cause generali più fondanti e decisive(122).

     Il Tocqueville teso a salvaguardare la libertà e l’autonomia dell’uomo è del parere che, anche con l’avvento delle società democratiche, le singole individualità possano conservare un ruolo non secondario nella scansione complessiva degli eventi, fermo restando che l’intreccio complessivo delle vicende rende più difficoltosa da parte dello storico l’identificazione dei protagonisti, al contrario di quanto accade nelle società aristocratiche in cui vengono esaltate le personalità egemoni(123). Lo storico, in qualche modo, si stanca e si scoraggia dinanzi alle difficoltà dell’impresa e “non potendo arrivare a scorgere chiaramente e a mettere sufficientemente in luce le influenze individuali, le nega senz’altro. Egli preferisce parlarci della natura delle razze, della costituzione fisica del paese, o dello spirito della civiltà. Tutto questo compendia il suo lavoro e soddisfa il lettore con minor spesa”(124).

      Tale spiegazione strutturale “ante litteram” veniva ad aver una funzione consolatoria per tutti coloro che nella storia erano andati incontro ad esiti fallimentari, non più imputabili a carenze individuali, ma a congiunture strutturali sfavorevoli(125), ma anche storici meno inclini alla fatica dell’indagine, invece di permanere nella vischiosa ricerca di cause particolari, potevano acquietarsi nella risolutiva spiegabilità offerta dalle cause generali(126). Il Tocqueville  era invece del parere che la storia fosse in ogni caso assoggettata all’influenza di cause generali interagenti con i fattori individuali. In tal modo si poteva salvaguardare la libertà dell’uomo pur riconoscendo gli inevitabili condizionamenti ingenerati dalle strutture entro cui la sua decisione si veniva calando(127).

       Nelle epoche in cui l’aristocrazia prevale la narrazione storica appare “continuamente spezzata dall’intervento di un uomo”(128) e quindi risulta più difficile delineare la trama complessiva delle vicende al contrario di quanto accade nella storiografia più diffusa nelle società democratiche incline “a negare ai singoli cittadini la forza di agire sul destino dei popoli… (e in tal modo toglie) ai popoli stessi la facoltà di modificare la propria sorte sottomettendoli o a una provvidenza inflessibile o ad una cieca fatalità”(129). Nell’inesorabile scansione della vicenda storica i fatti non potevano essere diversi da come si erano venuti configurando e così la narrazione veniva ad essere semplice ratifica dell’accaduto e mentre dalla storiografia classica giungeva l’invito ad essere protagonisti nella vita, in epoca moderna si perveniva alla deprimente conclusione per cui “l’uomo non può niente su se stesso né su ciò che è intorno a sé”(130). E mentre gli storici antichi “insegnavano a comandare, quelli dei nostri giorni solo ad ubbidire”(131). Questa dottrina fatalistica appare a Tocqueville singolarmente pericolosa dal momento che nelle società democratiche l’individuo è indotto a scorgere la sua irrilevanza a motivo dei molteplici condizionamenti che ne ribadiscono l’impotenza e quindi in tale contesto non abbisogna certo di una storiografia inducente depressione ed acquiescenza fatalistica(132).

                                                Conclusione

         La problematica e talora impossibile convivenza tra i valori della libertà ed uguaglianza ha favorito un’analisi di vasta portata sulla sorte della civiltà occidentale(133). La riflessione di pensatori come Constant e Tocqueville si dilata dal passato ad oggi rinvenendo in quanto è accaduto la conferma di certe preoccupate previsioni circa la sorte della civiltà occidentale. In effetti l’affermazione unilaterale del principio di uguaglianza ha favorito l’insorgere di atteggiamenti in ambito culturale, artistico, storico, non privi di inquietanti risvolti esistenziali favorendo dinamiche improntate ad omologazione ed in linea di principio refrattarie alla libertà ed allo sviluppo originale e creativo della persona umana. In tal senso le riflessioni dedicate alla religione ed al ruolo che le compete nella scansione complessiva della civiltà, acquistano particolare rilievo, sia per la contrapposizione frontale nei riguardi di certo, diffuso ateismo ottocentesco, sia per la capacità d’integrare l’esperienza religiosa nella vicenda storica dell’uomo come fattore decisivo di libertà e creatività per cui, la mancanza di sentimento religioso diventa, da tale angolatura, attestato di suprema povertà dello spirito. Tali conclusioni si svincolano da ogni ottica confessionale e  vengono a riguardare, al di là di ogni facile e strumentale proselitismo, ogni uomo attento e sensibile al mistero della vita

        Uguaglianza e libertà: grandi valori esaltati verbalmente e violati in maniera spaventosa nel secolo appena finito a dispetto delle speranze palingenetiche di chi riteneva che la storia avanzasse inarrestabile verso la loro realizzazione(134). Di qui l’importanza di ritornare, in pacata meditazione, alle pagine dei pensatori che, con singolare preveggenza, avevano già intravisto tali inquietanti esiti.


                                        NOTE

*Questo saggio è tratto da A. Franchi, Ritornare alla nostalgia, Edizioni Cantagalli, Siena 2006.

(1)F.FURET, M.OZOUF, Dizionario critico della rivoluzione francese,  Milano 1989, p.624.

(2)PLATONE, La repubblica, Milano 1981, l.VI, 492 b-c, p.216.

(3)op.cit., 489 b, p.212: “e digli anche che dice il vero, affermando che i migliori nella filosofia sono inutili al volgo”.

(4)op.cit., 491 e, p.215.

(5)op.cit., 563-4 a-b, p.307.

(6)op.cit., 562 d, p.307: “quando , direi, una città democratica, assetata di libertà, viene ad avere a suoi capi  dei cattivi coppieri, e si inebria di quella libertà più in là del bisogno, e i magistrati, se non siano del tutto remissivi e non largiscano in ampia dose la libertà, li punisce accusandoli come scellerati e oligarchici”.

(7)op.cit., 563 a-b, p.307.

(8)op.cit., l.VII, 236 a, p.273.

(9)B.CONSTANT, Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Treviso 1966, p.53-4.

(10)op.cit., p.53:” Nessun margine si lascia all’indipendenza individuale, né sotto il rapporto delle opinioni, né sotto quello dell’attività, né – specialmente – sotto quello della religione. La facoltà di scegliere il proprio culto, facoltà che noi consideriamo come uno dei più preziosi nostri diritti, sarebbe parsa agli antichi un delitto e un sacrilegio”.

(11)op.cit., p.61: “noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che consisteva nella partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La libertà per noi, deve consistere nel godimento pacifico dell’indipendenza privata. Nell’antichità la parte che prendeva ciascuno alla sovranità nazionale non era come al nostro tempo una vana astrazione. La volontà di ciascuno aveva un’influenza reale; l’esercizio di tale volontà era un piacere vivo e rinnovantesi. Di conseguenza gli antichi erano disposti a fare molti sacrifici  per conservare i loro diritti politici e la loro partecipazione all’amministrazione dello stato… Questo compenso non esiste più oggi per noi”.

(12)op.cit., p..62: “Perduto nella moltitudine, l’individuo non vede quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volontà s’impone alla massa; niente fa risaltare l’opera sua agli occhi suoi propri. L’esercizio dei diritti politici non ci offre dunque più che una briciola delle soddisfazioni che vi trovavano gli antichi, e in pari tempo i progressi della civiltà, la tendenza mercantile dei tempi, i frequenti rapporti dei popoli, hanno moltiplicato e variato all’infinito i mezzi della privata felicità.. Ne segue che noi dobbiamo essere molto più attaccati degli antichi alla nostra indipendenza individuale. Giacché gli antichi, quando sacrificavano questa indipendenza ai diritti politici, sacrificavano il meno per ottenere il più; ma noi, facendo il medesimo sacrificio, rinunceremmo al più per avere il meno”.

(13)op.cit., p.65-6: “l’abate di Mably si può considerare come il rappresentante del sistema che conformemente alle massime della libertà antica vuole che i cittadini siano interamente assoggettati perché la nazione sia sovrana, e che l’individuo sia schiavo perché il popolo sia libero.

      L’abate di Mably, come il Rousseau e come molti altri, aveva, seguendo gli antichi, preso per libertà l’autorità del corpo sociale, e tutti i mezzi gli parevano buoni per estendere l’azione di tale autorità su quella parte recalcitrante dell’esistenza umana, della  quale deplorava l’indipendenza. Il rammarico ch’egli esprime dovunque nelle sue opere è che la legge non possa regolare altro che gli atti esteriori. Avrebbe voluto che giungesse ai pensieri, ai più fuggitivi sentimenti, che frugasse l’uomo senza posa e senza lasciargli un asilo inaccessibile al suo potere”.

(14)op.cit., p.74: “La libertà individuale… ecco la vera libertà moderna. La libertà politica ne è la garanzia; la libertà politica è quindi indispensabile. Ma chiedere ai popoli d’oggi di sacrificare, come quelli di un tempo, l’intera libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro di disamorarli dell’una; e giunti a questo non si tarderebbe poi a rapir loro anche l’altra.”.

(15)op.cit., Principi di politica, p.90.

(16)B.CONSTANT, Opere a cura di Zanfarino, Bologna 1962, p.18: “la maggioranza serve per giungere a decisioni, per non far girare a vuoto la dialettica delle volontà, ma la maggioranza non è per questo portatrice di una incontestabile verità”.

(17)B.CONSTANT, op.cit., p.119-20.

(18)B.CONSTANT, Dello spirito di conquista e dell’usurpazione, Milano 1961, p.57: “L’attaccamento ai costumi locali consegue da tutti i sentimenti disinteressati nobili e pii. Politica quanto mai deplorevole quella che ne fa una ribellione! Che cosa accade? Che in tutti gli stati ove si distrugga così qualsiasi vita parziale un piccolo stato viene a formarsi nel centro : nella capitale si agglomerano tutti gli interessi; ivi vanno ad agitarsi tutte le ambizioni; il resto è immobile. Gli individui smarriti in un isolamento contro natura, estranei al luogo della loro nascita, senza contatto col passato, viventi soltanto in un presente rapido, e gettati come atomi su una pianura immensa e arida, si staccano da una patria che non scorgono in nessun luogo, e il cui insieme diventa loro indifferente perché su nessuna delle loro parti può riposare il loro affetto.

     La varietà è organizzazione; l’uniformità meccanismo. La varietà è la vita; l’uniformità è la morte.”

(19)op.cit., p.109.

(20)B.CONSTANT, Zanfarino, op.cit., p.16.

(21)op.cit., p.21.

(22)op.cit., p.21: “la religiosità pone un limite alla pretesa assolutistica del potere perché l’esperienza dell’assoluto, l’esperienza di Dio non può riprodursi in nessuna istituzione e in nessuna autorità umana. Ma l’esperienza religiosa è insieme un limite alla soggettivizzazione della realtà, un limite all’egoismo e alla sete di potere di ciascun uomo”.

(23)op.cit., p.23.

(24)op.cit., p.92-93: “La libertà completa e totale di tutti i culti è favorevole alla religione e, insieme, è conforme alla giustizia. Se la religione fosse stata sempre perfettamente libera, sarebbe stata sempre, io credo, oggetto di rispetto e di amore. Non si sarebbe neppur potuto concepire quel fanatismo bizzarro capace di ridurre la religione a oggetto di odio e di disprezzo. Il ricorso dell’infelice ad un essere giusto, del debole all’essere buono, mi sembra che debba suscitare solo interesse e simpatia, anche in coloro che lo ritengono illusorio. Chi reputa erronee  tutte le speranze della religione, anche più degli altri deve commuoversi per questa invocazione universale di tutti gli esseri che soffrono, per queste implorazioni del dolore che da tutte le parti della terra si innalzano verso un cielo di bronzo, per restare senza risposta; anche più degli altri deve commuoversi per l’illusione confortatrice che prende per una risposta il rumore confuso di tante preghiere che si sentono ripetere in lontananza verso il cielo.

     I motivi delle nostre pene sono innumerevoli. L’autorità può condannarci, la menzogna calunniarci; le costrizioni di una società artificiale ci feriscono; la natura inflessibile ci colpisce in ciò che abbiamo di più caro; la vecchiaia avanza verso di noi, periodo triste e solenne in cui gli oggetti si oscurano e sembrano scomparire, in cui un non so che di freddo e di fosco penetra tutto ciò che ci circonda.

     Contro tanti dolori, noi cerchiamo ovunque consolazioni, e tutte le consolazioni durature sono religiose. Quando siamo sotto le persecuzioni degli uomini, noi ci creiamo una protezione fuori degli uomini. Quando vediamo sparire le nostre speranze più care, la giustizia, la libertà, la patria, ci consola il pensiero che ci sia da qualche parte un essere che ci sarà grato d’essere rimasti, a dispetto dei tempi, fedeli alla giustizia, alla libertà, alla patria. Quando rimpiangiamo una cosa amata, gettiamo un ponte sull’abisso e lo traversiamo col pensiero. Infine quando la vita ci sfugge, ci slanciamo verso l’altra vita, Così la religione è per essenza la fedele compagna, la sagace e infaticabile amica dell’infelice. E non è tutto. Consolatrice nella disgrazia, la religione è al tempo stesso la più naturale delle nostre emozioni”.

(25)op.cit., p.93-94.

(26)op.cit., p.94: “nella massa degli uomini volgari, l’assenza del sentimento religioso… denuncia più spesso, io credo, un cuore arido, uno spirito frivolo, un’anima assorta in interessi poco nobili e di poco conto, una grande aridità di immaginazione”.

(27)op.cit., p.95: “(la religione) è il centro comune in cui si raccolgono, al di sopra dell’azione del tempo e della portata del vizio, tutte le idee di giustizia, di amore, di libertà, di pietà che, in questo mondo di un giorno, formano la dignità della specie umana; è la tradizione permanente di tutto ciò che è bello, grande e buono attraverso l’avvilimento e l’iniquità dei secoli, la voce eterna, che risponde alla virtù nella sua lingua, l’appello del presente al futuro, della terra al cielo, il solenne rifugio di tutti gli oppressi in tutte le situazioni, l’ultima speranza dell’innocenza immolata e della debolezza calpestata”.

(28)op.cit., p.95: “Non mi farei una cattiva opinione di un uomo intelligente, se mi venisse presentato come estraneo ai sentimenti religiosi; ma un popolo incapace di questo sentimento mi sembrerebbe privo di una preziosa facoltà e diseredato dalla natura. Se mi si accusasse di non definire, a questo punto, con sufficiente precisione, il sentimento religioso, io chiederei come si può definire quella parte vaga e profonda dei nostri sentimenti morali che, per la loro stessa natura, sfidano qualunque sforzo del linguaggio. Come definireste l’impressione che produce in voi una notte fonda, una foresta antica, il vento che geme attraverso le rovine o su le onde, l’oceano che si estende oltre lo sguardo? Come definireste l’emozione che vi procurano i canti di Ossian, la chiesa di San Pietro, la meditazione sulla morte, l’armonia dei suoni e quella delle forme? Come definireste il sogno, questo fremito interno dell’anima in cui vengono a raccogliersi e come a perdersi, in una misteriosa confusione, tutti i poteri dei sensi e del pensiero? Vi è religione al fondo di tutte queste cose. Tutto ciò che è bello, tutto ciò che è intimo, tutto ciò che è nobile, partecipa della religione”.

(29)op.cit., p.97.

(30)A.DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, Bologna 1953, v.II, p.107.

(31)op.cit., p.107: “si può immaginare un punto estremo in cui la libertà e l’uguaglianza si toccano e si confondono”.

(32)op.cit., p.107.

(33)op.cit., p.109-10.

(34)op.cit., p.112: “L’individualismo è di origine democratica, minaccia di svilupparsi via via che le condizioni si livellano”.

(35)op.cit., p.113.

(36)op.cit., p.113.

(37)op.cit., p.114.

(38)op.cit., p.121: “per combattere i mali che l’uguaglianza può produrre non vi è che un rimedio efficace. La libertà politica”.

(39)op.cit., p.162: “Molte cose mi urtano nei materialisti: le loro dottrine mi paiono dannose e il loro orgoglio mi rivolta. Se il loro sistema potesse avere per l’uomo qualche utilità sembrerebbe che questa dovesse essere nel dargli una modesta idea di se stesso. Invece essi non fanno vedere che sia così e, quando credono di aver stabilito a sufficienza di essere solo dei bruti, si mostrano altrettanto fieri come se avessero dimostrato di essere degli dei.

      Il materialismo è una pericolosa malattia dello spirito umano presso tutte le nazioni; ma è particolarmente terribile in un popolo democratico, perché si combina meravigliosamente col difetto più familiare a questi popoli. La democrazia favorisce l’amore dei beni materiali; questo, se diventa eccessivo, dispone gli uomini a credere che tutto sia materia, a sua volta il materialismo li trascina ancora più fortemente verso quegli stessi beni. Tale è il cerchio fatale in cui sono spinte le nazioni democratiche”.

(40)op.cit., p. 162.

(41)op.cit., p.163: “Le religioni sono quasi tutte mezzi generali, semplici e pratici per insegnare agli uomini l’immortalità dell’anima. Qui è il più grande vantaggio che un popolo democratico può trarre dalle credenze religiose e ciò che le rende più necessarie a un tale popolo più che a tutti gli altri”.

(42)op.cit., p.163: “Ce n’è abbastanza per dare alle loro idee e ai loro gesti una certa elevatezza e per farli tendere disinteressatamente e quasi spontaneamente verso sentimenti puri e grandi pensieri”.

(43)op.cit., p.163: “Non è certo che Socrate e la sua scuola avessero delle opinioni molto precise su ciò che debba accadere all’uomo nell’altra vita; ma la sola credenza sulla quale si erano fermati, che l’anima non ha nulla di comune col corpo e gli sopravvive, è bastata a dare alla filosofia platonica quello slancio sublime che la distingue”.

(44)op.cit., p.164.

(45)op.cit., p.253: “Gli uomini che vivono nei tempi democratici hanno molte passioni, ma la maggior parte di esse mettono capo all’amore della ricchezza o ne derivano. Ciò avviene, non perché le loro anime sono più piccole, ma perché l’importanza del denaro è realmente più grande”.

(46)op.cit., p.254.

(47)N.MATTEUCCI, Alexis De Tocqueville – Tre esercizi di lettura, Bologna 1990, p. 30: “Cosa sia poi la libertà per Tocqueville, non è semplice dire, troppo essa lo coinvolgeva nella sua essenza e nella sua totalità di uomo. Certo è un istinto profondamente radicato, forse un residuo di una antica fierezza aristocratica. E’ pure una passione morale profonda, propria di chi condivide quella religione della libertà che vivificò l’Europa nei primi decenni dell’Ottocento, anche se questa sua religione della libertà non implica mai una concezione filosofica immanentistica: il dissidio fra libertà e storia resta sempre possibile, e in questo è il rischio dell’azione politica umana”.

(48)op.cit., p.31: “Se la democrazia era un contenuto empirico, una realtà sempre cangiante e sempre in trasformazione, la libertà era un ideale eterno un principio regolativi, e quindi una forma che continuamente doveva rifare i conti col proprio tempo e plasmare i nuovi contenuti che la storia offriva. In altri termini: la libertà non coincideva con i particolari ordinamenti positivi – come quelli difesi dai dottrinari della  Restaurazione – nei quali il liberale tradizionale cercava di congelare l’inevitabile cambiamento delle cose… La libertà, come ideale della vita morale dell’uomo, non coincideva mai con le sue concrete attuazioni e sempre le trascendeva. Essa era piuttosto un compito, un compito rivolto verso il futuro, nella piena, ma fredda e disincantata, accettazione del nuovo. Un compito in cui si poteva fallire”.

(49)Solo questa distinzione concettuale fra la nuova scienza empirica, che freddamente coglie ( ed accetta perché non può fare altrimenti) l’inevitabile fluire delle cose, e l’antico e sempre valido valore della libertà, consente al Tocqueville di essere, insieme, freddo e spassionato osservatore della realtà e moralista impegnato, di non invischiarsi nelle secche delle discussioni ideologiche, le quali mistificano insieme e i valori assoluti e la realtà empirica”.

(50)op.cit., p.44: “Il centralismo è la stessa causa dello spirito rivoluzionario dei francesi e della loro impotenza alla libertà: con l’ostacolare ogni reale forma di partecipazione politica, col sostituire l’intervento dello stato alle diverse forme di autogoverno locale, l’assolutismo impedì il radicarsi e il consolidarsi nella società francese del gusto e della capacità dell’autogoverno, e creò soltanto o uomini servili, in cerca di un buon posto negli ingranaggi amministrativi del governo, o ribelli, disposti solo a contestare la società presente per crearne una del tutto nuova ed immaginaria, come gli “economisti del 1750” o i socialisti del 1848”.

(51)op.cit., p.45: “la Francia, pur conoscendo un’evoluzione verso l’eguaglianza delle condizioni simile a quella degli Stati Uniti, avrebbe avuto un destino politico diverso, proprio per la diversa configurazione del suo sistema politico, che gli appariva sempre più come un dato permanente della sua storia”.

(52)op.cit., p.45-6: “Alla fine del 1853 Tocqueville… impegnato a scoprire “le origini della Francia contemporanea” non nella Rivoluzione, ma nell’Antico Regime, cioè nell’assolutismo, perché  l’esperienza  gli aveva dimostrato che questa struttura politica era più forte di tutte le rivoluzioni che si erano verificate nel suo paese, e che ,  anzi, era perfettamente compatibile con la rivoluzione democratica: un compromesso fra il dispotismo amministrativo e la sovranità popolare era un pericolo reale, tanto più spaventoso in quanto la tirannide sarebbe stata allora esercitata in nome del popolo”.

(53)op.cit., p.49.

(54)op.cit., p.49.

(55)op.cit., p.49: “Molti mi accuseranno, forse, di mostrare in questo libro un amore per la libertà alquanto fuori stagione, poiché mi si afferma che di quella  nessuno in Francia più si cura – ma – si può rigorosamente affermare che la predilezione per il governo assoluto sta in esatto rapporto col disprezzo che si professa per il proprio paese”.

(56)op.cit., p.51: “democrazia pluralistica, che aveva alla sua base il principio di un minimo di possibilità di partecipazione alla gestione delle cose comuni, era di fatto l’opposto con quanto si era storicamente realizzato in Francia nell’incontro fra l’esperienza democratico-giacobina e la tradizione del centralismo amministrativo con un corpo legislativo preponderante, il potere della burocrazia col governo degli elettori. L’insieme della nazione ebbe tutti i diritti sovrani, ogni cittadino singolarmente considerato fu rinchiuso nella dipendenza più stretta: si chiesero alla collettività le virtù e l4e esperienze di un popolo libero, al singolo le qualità di un buon servitore”.

(57)op.cit., p.51: “l’istituzione e l’organizzazione della democrazia nel mondo cristiano è il grande problema politico del nostro tempo”.

(58)op.cit., p.52: “la religione si trova momentaneamente impegnata in mezzo alle forze che la democrazia travolge, e spesso le capita di respingere quell’eguaglianza che essa ama, e di maledire la libertà come fosse un nemico, mentre prendendola per mano potrebbe santificarne gli sforzi”.

(59)op.cit., p.52.

(60)op.cit., p.53: “Come la democrazia, per esistere, ha bisogno della libertà, così pure essa ha bisogno di autentiche passioni religiose. Una democrazia materialistica, fondata cioè o sul mero benessere o su una concezione atea dell’uomo, è una democrazia senza speranza: “Il materialismo è, in tutti i paesi, una pericolosa malattia dello spirito umano, ma bisogna particolarmente paventarlo in un popolo democratico, perché si combina a meraviglia col vizio più familiare a questi popoli, col loro vizio del cuore”.”

(61)op.cit., p.53.

(62)op.cit., p.55.

(63)op.cit., p:58.

(64)op.cit., p.64: “Non si può negare che il panteismo abbia fatto ai nostri giorni grandi progressi. Gli scritti di buona parte dell’Europa ne sono visibilmente improntati. I Tedeschi l’introducono nella filosofia, i Francesi nella letteratura. Lo spirito umano ama abbracciare contemporaneamente una quantità di oggetti diversi, e aspira continuamente ad attribuire una moltitudine di conseguenze ad un’unica causa. L’idea dell’unità l’ossessiona: la insegue da tutte le parti, quando crede di averla trovata, si adagia volentieri e vi si riposa. Essa attira per natura la loro immaginazione e la fissa; nutre l’orgoglio del loro spirito e agevola la sua pigrizia”.

(65)op.cit., p.70.

(66)op.cit., p.74: “Se mai l’eguaglianza si stabilirà dappertutto e in maniera duratura nel mondo, le grandi rivoluzioni intellettuali e politiche diverranno molto più difficili e più rare di quanto si supponga… c’è da temere che i cittadini finiscano col diventare come inaccessibili a quelle grandi e potenti emozioni, che travagliano i popoli, ma che pure li sviluppano e li rinnovano”.

(67)op.cit., p.80: “Tocqueville non crede alle filosofie o alle scienze della storia: queste, infatti, producono soltanto fatalismo storico e relativismo etico, col persuadere l’uomo ad integrarsi in un ordine che trascende la sua coscienza. Egli crede, invece, nella libertà dell’uomo, la quale è in primo luogo forza morale, una capacità creativa che deve certo avvantaggiarsi dai risultati della “nuova scienza”, ma mai essere da questa determinata nelle sue scelte.

      Proprio per questo, Tocqueville sempre preferì all’ideale dell’ordine, tipico della cultura del suo tempo, quello del contrasto, del movimento, del conflitto, della competizione, perché sapeva che solo in una società dinamica e mobile l’occasione delle scelte poteva temprare le coscienze degli uomini, mentre l’immobilità o la stagnazione li rinchiudevano nel ristretto giro dei loro interessi domestici, per essere poi amministrati da quel saggio che fosse al potere e volesse instaurare il suo ordine”.

(68)op.cit., p.82: “Il  pericolo che Tocqueville maggiormente teme per una società democratica è l’individualismo, quel “sentimento ponderato e tranquillo”, sconosciuto alle passate generazioni, “che spinge ogni singolo cittadino ad appartarsi dalla massa dei suoi simili”, e lo rinchiude nel breve cerchio dei suoi interessi domestici”.

(69)op.cit., p.82.

(70)op.cit., p.82: “A mano a mano che i cittadini divengono più eguali e più simili, la disposizione a credere nella massa aumenta, ed è sempre più l’opinione comune a guidare il mondo”.

(71)op.cit., p.83.

(72)op.cit., p.83: “Nel contempo, proprio quella società industriale, che consente maggior eguaglianza e maggior benessere, indebolisce le difese dell’individuo: “Non vi è nulla che, più della divisione del lavoro, tenda a materializzare l’uomo e a togliere alle sue opere persino la traccia dello spirito”; esso “diventa ogni giorno più abile e meno capace, e si può dire che in lui l’uomo si degrada nella stessa misura in cui l’operaio si perfeziona. Insomma egli non appartiene più a se stesso, ma al mestiere che ha scelto”… in questi stessi anni Marx rifletteva sull’alienazione, e la coglieva nel rapporto dell’operaio col prodotto del suo lavoro, nella mercificazione, mentre il Tocqueville la vede nella specializzazione e nella divisione del lavoro, che è un momento intrinseco e necessario a qualsiasi società industriale avanzata”.

/73)op.cit., p.96: “vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo”.

(74)op.cit., p.108.

(75)op.cit., p.84.

/76)op.cit., p.86: “In fondo sembra affidare la sopravvivenza della democrazia alla crescita di nuove aristocrazie, non più legate ai privilegi o al censo: nuove aristocrazie capaci di trarre dall’intimo della coscienza tutta la propria forza: “mi fa molto meno paura, per le società democratiche, l’audacia della meschinità dei desideri”, temo che “l’ambizione possa perdere il suo slancio e la sua grandezza”, e “lungi dal ritenere che si debba raccomandare ai nostri contemporanei l’umiltà, vorrei che ci si sforzasse di dare loro un’idea più vasta di se stessi e della loro specie; l’umiltà non fa per loro; quello di cui mancano di più è l’orgoglio. Cederei parecchie delle nostre piccole virtù in cambio di qualche vizio”.

(77)op.cit., p.87: “La libertà, che l’uomo sente prima di tutto dentro di sé, perché è l’espressione del “sentimento e del gusto della grandezza morale dell’uomo” questa passione che “riempie e infiamma i cuori saldi”, era l’ultima, vera risorsa contro tutti i pericoli insiti nella società egualitaria. Questa libertà non va cercata fuori, nella società, ma ritrovata nel solo posto che ad essa è naturale, e cioè nella coscienza interiore: quando la libertà scompare dai cuori, scompare anche dalla società, mentre solo degli uomini interiormente liberi possono garantire il futuro a una società oppressa”.

(78)op.cit., p.97: “non v’è che l’amore e la pratica della libertà che possano vantaggiosamente lottare contro la pratica e l’amore del benessere…Le nazioni moderne non possono evitare che le condizioni diventino eguali; ma dipende da loro che l’eguaglianza le porti alla schiavitù o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria”.

(79)op.cit., p.99: “L’ultimo capitolo della “Démocratie en Amérique” si apre affermando l’intenzione di voler “abbracciare con un ultimo sguardo i diversi tratti che caratterizzano il volto del mondo nuovo”, cioè l’influsso che l’eguaglianza eserciterà sul “destino” degli uomini. Compito difficile”.

(80)op.cit., p.99.

(81)op.cit., p.99: “benché la rivoluzione che si opera nelle condizioni sociali, nelle leggi, nelle idee, nei sentimenti degli uomini, sia ancora ben lungi dall’essere terminata, già ora le sue opere non potrebbero essere paragonate a niente di quello che si è visto prima nel mondo. Risalgo di secolo in secolo fino all’antichità più remota. Non scorgo nulla che assomigli a quello che succede sotto i miei occhi”.

(82)op.cit., p.99.

(83)op.cit., p.99: “Tocqueville teme il crollo delle civiltà, dovuto non a una “invasione dei barbari”, ma ad un lento oscuramento della “luce del sapere”, dove c’è quasi un precorrimento di Josè Ortega y Gasset. In un’altra pagina ancora teme l’assopimento “in uno stato di felicità troppo uniforme e troppo simile”, per cui gli uomini finiscono per perdere il senso del futuro, meglio del proprio destino, senza avere “un’idea più vasta di se stessi e della loro specie”: sembra, quasi, una anticipazione del “Mondo nuovo” di Haldous Huxley. Nel capitolo che esaminiamo si denuncia soltanto “lo spettacolo di questa universale uniformità (che) mi rattrista e mi agghiaccia, e sono tentato di rimpiangere la società scomparsa”. Quell’uniformità che ossessiona anche il pensiero di Ernst Junger .”

(84)op.cit., p.100.

(85)op.cit., p.101: “Dato che le “tradizioni” e l’”autorità”, che cominciano ad essere smantellate, sono religiose e sacrali, dato che si sta attaccando “tutto il vecchio” per “aprire la strada a tutto il nuovo” in nome della ragione, Tocqueville avrebbe potuto delinearci compiutamente il processo di secolarizzazione, di cui oggi tanto si parla”.

(86)op.cit., p.102: “Sembra quasi che Tcqueville intuisca, che, con la “morte di Dio”, tutto è permesso; e questo rende comprensibile la sua drastica affermazione: “sono incline a pensare che (l’individuo), se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda”. L’integrale secolarizzazione può diventare una vera minaccia per la libertà.: o gli individui si appiattiscono – impotenti – in un materialismo onesto, o la loro soggettività non trova più alcun limite, dominata solo dall’etica permissiva del piacere”.

(87)op.cit., p.101: “Il principale compito delle religioni è quello di purificare, moderare l’amore troppo ardente e troppo esclusivo del benessere che gli uomini sentono nei tempi d’eguaglianza” e di “lottare con successo contro lo spirito d’indipendenza individuale, che è per essa, il più pericoloso di tutti”.

(88)op.cit., p.101. “ogni dubbio su Dio, sull’anima e sulla morale è pericolosissimo per gli uomini, “giacché il dubbio su questi primi punti lascerebbe tutte le loro azioni in balia del caso e li condannerebbe, in certo qual modo, al disordine e all’impotenza”. Peggio: “siccome si dispera di poter risolvere da soli il maggiore di problemi che il destino umano presenta, ci si riduce vilmente a non pensarci più”.

(89)op.cit., p.102.

(90)op.cit., p.102.

(91)op.cit., p.103.

(92)op.cit., p.103.

(93)op.cit., p.103: “Nella soggettività egualitaria, nella quale il passato ha perso ogni autorità, si guarda soltanto al nuovo; e il “novitismo” è il solo punto di riferimento: gli uomini “hanno bisogno soprattutto dell’inatteso e del nuovo”. Ma è un nuovo senza futuro, perché meramente ancorato all’oggi, al now: l’uomo pensa solo a “godimenti materiali e immediati…Tremo, confesso, che diventino alla fine talmente preda di un vile amore dei godimenti presenti, da non provare più interesse né per il loro futuro, né per quello dei discendenti”.

(94)op.cit., p.103.

(95)op:cit:, p.103.

(96)A.DE TOCQUEVILLE, La Democrazia in America, Bologna 1953, v.I, p.295: “Credo che sia un errore considerare la religione cattolica come un nemico naturale della democrazia. Mi sembra invece che, fra le varie confessioni cristiane, il cattolicesimo sia una delle più favorevoli all’uguaglianza delle condizioni. Presso i cattolici la società religiosa si compone soltanto di due elementi. Il prete e il popolo. Il prete solo si eleva al disopra dei fedeli: sotto di lui tutti sono uguali.

     In materia di dogmi, il cattolicesimo pone tutte le intelligenze allo stesso livello; costringe a seguire i particolari delle stesse credenze il saggio come l’ignorante, l’uomo di genio come il volgare; esso impone le stesse pratiche al ricco e al povero, infligge le stesse austerità al potente e al debole; non scende a patti con alcun mortale, e applicando a ogni uomo la stessa misura, ama confondere tutte le classi al piede di un unico altare, allo stesso modo che esse sono confuse agli occhi di Dio”.

(97)op.cit., p.302: “I filosofi del secolo decimottavo spiegavano in un modo molto semplice il graduale affievolirsi della fede. Lo zelo religioso, essi dicevano, deve estinguersi via via che la libertà e la cultura aumentano. Ma è spiacevole che i fatti non vadano d’accordo con questa teoria”.

(98)op.cit., p.302.

(99)op.cit., p.303-304.

(100)op.cit., p.304.

(101)op.cit., p.305: “Fin tanto che una religione trarrà la sua forza dai sentimenti, dagli istinti, dalle passioni che si vedono riprodurre allo stesso modo in tutte le epoche, può sfidare il tempo, o per lo meno potrà essere distrutta solo da un’altra religione. Ma quando vuole appoggiarsi agli interessi mondani, essa diviene fragile come tutte le potenze terrene. Solo essa può aspirare all’immortalità; legata a poteri effimeri segue la  loro sorte e cade spesso insieme alle passioni passeggere che la sostengono

     Unendosi alle varie potenze politiche, la religione non può dunque non contrarre un’alleanza onerosa. Essa non ha bisogno del loro soccorso per vivere, mentre servendole può morire”.

(102)op.cit., p.305: “Via via che una nazione prende uno stato sociale democratico e che le società sembrano inclinare alla forma repubblicana, diviene sempre più pericoloso unire la religione all’autorità; si avvicina infatti il tempo in cui il potere passerà di mano in mano, le teorie politiche si succederanno, gli uomini, le leggi, le costituzioni stesse scompariranno o si modificheranno quotidianamente, tutto questo non di tanto in tanto, ma continuamente. L’agitazione e l’instabilità sono naturali nelle repubbliche democratiche, come l’immobilità e il sonno sono le leggi delle monarchie assolute”.

(103)op.cit., p.308.

(104)op.cit., p.321.

(105)op.cit., p.324: “se non si arriverà a introdurre a poco a poco e fondare tra noi le istituzioni democratiche, e se si rinuncia a dare a tutti i cittadini idee e sentimenti che li preparino alla libertà e gliene facilitino l’uso, non vi sarà più indipendenza per nessuno, né per il borghese, né per il nobile, né per il povero, né per il ricco, ma un’eguale tirannide per tutti, e prevedo che se non si riuscirà col tempo a fondare tra noi l’impero pacifico degli eletti della maggioranza, arriveremo presto o tardi al potere illimitato di uno solo”.

(106)op.cit., v.II, p.60: “Lo stato sociale e le istituzioni democratiche danno inoltre a tutte le arti figurative alcune tendenze particolari facili a notarsi. Spesso le allontanano dalla pittura dell’anima per attaccarle solo a quella del corpo, e sostituiscono la rappresentazione dei movimenti e delle sensazioni a quella dei sentimenti e delle idee, insomma al posto dell’ideale mettono il reale”.

(107)op.cit., p.60.

(108)op.cit., p.61: “David e i suoi allievi erano invece altrettanto buoni anatomisti che pittori e rappresentavano meravigliosamente i modelli che avevano sotto gli occhi, ma era raro che immaginassero nulla al di là, essi seguivano esattamente la natura, mentre Raffaello cercava di fare meglio di essa. Essi ci hanno lasciato un’esatta pittura dell’uomo, mentre il primo ci ha fatto intravedere nelle sue opere la Divinità… I pittori del Rinascimento cercavano generalmente al di sopra di loro, o lontano dal loro tempo, grandi soggetti che aprivano una grande strada alla loro immaginazione. I nostri pittori mettono spesso il loro talento nel riprodurre esattamente i particolari della vita privata che hanno continuamente sotto gli occhi e copiano d’ogni parte piccoli oggetti che hanno nella natura anche troppi originali”.

(109)op.cit., p.68: “Nelle democrazie non tutti gli uomini che si occupano di letteratura hanno ricevuto un’educazione letteraria, e, fra quelli di loro che ne hanno un’infarinatura, la maggior parte seguono la carriera politica o abbracciano una professione dalla quale possono allontanarsi solo momentaneamente per gustare di nascosto i piaceri dello spirito”.

(110)op.cit., p.68: “Essi non fanno dunque di questi piaceri l’attrattiva principale della loro esistenza, ma li considerano come un sollievo passeggero e necessario in mezzo ai seri lavori della vita: tali uomini non saprebbero mai acquistare una conoscenza sufficientemente approfondita dell’arte letteraria per sentirne la delicatezza; le piccole sfumature sfuggono loro”.

(111)op.cit., p.68: “Avendo un tempo molto breve da dedicare alla letteratura vogliono metterlo a profitto interamente. Amano i libri facilmente procurabili, che si leggono presto, che non richiedono ricerche sapienti per essere compresi. Ricercano bellezze facili che si manifestino da se stesse e di cui si possa gioire subito, hanno bisogno soprattutto dell’inatteso e del nuovo; abituati a un’esistenza pratica contestata, monotona, hanno bisogno di emozioni vive e rapide, di chiarezza subitanea di verità, o di errori brillanti che li astraggano subito da se stessi e li introducano di colpo nel mezzo del soggetto”.

(112)op.cit., p.68-9.

(113)op.cit., p.70: “La democrazia non fa soltanto penetrare il gusto delle lettere nelle classi industriali, ma introduce lo spirito industriale nella letteratura.

     Nelle aristocrazie i lettori sono poco numerosi e di gusto difficile; nelle democrazie sono innumerevoli ed è nel tempo stesso, meno difficile piacere. Ne risulta che, mentre presso i popoli aristocratici non si può sperare di riuscire che con sforzi immensi, i quali se possono dare molta gloria non potrebbero mai procurare molto denaro, presso le nazioni democratiche uno scrittore può illudersi di ottenere a buon mercato una mediocre rinomanza e una grande fortuna. Per raggiungerla non è necessario essere ammirato: basta esser gustato.

     La folla sempre crescente dei lettori e il bisogno continuo del nuovo che essi sentono assicurano lo smercio di un libro anche scarsamente stimato.

     Nei tempi di democrazia il pubblico agisce spesso con gli autori come i re coi loro cortigiani; li fa ricchi e li disprezza. Cosa occorre di più alle anime venali che nascono nelle corti e che sono degne di vivervi?

      Le letterature democratiche formicolano sempre di questi autori, che vedono nelle lettere solo un’industria, e, per pochi grandi scrittori che vi si trovano, si contano migliaia di venditori di idee”.

(114)op.cit., p.70.

(115)op.cit., p.115.

(116)op.cit., p.82: “L’uguaglianza non solamente allontana gli uomini dalla rappresentazione dell’ideale, ma diminuisce il numero degli oggetti da rappresentare”.

(117)op.cit., p.82.

(118)op.cit., p.82-83: “l’aristocrazia è ben più favorevole alla poesia: poiché le cose si ingrandiscono ordinariamente e si vedono man mano che si allontanano e sotto questo duplice rapporto sono molto favorevoli all’espressione dell’ideale

      Dopo aver tolto alla poesia il passato, l’uguaglianza le leva in parte anche il presente…I poeti che vivono nei secoli democratici non potrebbero mai prendere un uomo in particolare per soggetto del loro quadro, perché un oggetto di grandezza mediocre e che si vede facilmente ovunque non formerà mai oggetto di ideale…Quando il dubbio ebbe spopolato il cielo ed i progressi dell’uguaglianza ebbero ridotto l’uomo a proporzioni meglio conosciute e più piccole, i poeti, non immaginando ancora cosa potessero mettere al posto di questi grandi oggetti che si dileguavano con l’aristocrazia, volsero gli occhi verso la natura inanimata. Perdendo di vista gli eroi e gli dei, cominciarono anzitutto a dipingere fiumi e montagne”.

(119)op.cit., p.84.

(120)op.cit., p.85.

(121)op.cit., p.86-7.

(122)op.cit., p.96-7: “Gli storici che scrivono nei secoli aristocratici fanno ordinariamente dipendere tutti gli avvenimenti dalla volontà particolare e dall’umore di certi uomini, ed attribuiscono volentieri la causa di importanti rivoluzioni a minimi accidenti. Essi mettono in rilievo sagacemente le più piccole cause mentre spesso non scorgono affatto le più grandi.

      Gli storici che vivono nei secoli democratici mostrano una tendenza tutta contraria. La maggior parte di essi non attribuisce quasi alcuna influenza all’individuo sul destino della specie, né ai cittadini sulla sorte del popolo. Invece attribuiscono a cause generali ogni piccolo fatto particolare… Gli storici dei secoli aristocratici, quando danno uno sguardo al teatro del mondo, vi scorgono anzitutto un piccolissimo numero di attori principali, i quali conducono tutta la rappresentazione. Questi grandi personaggi, che sono sempre sul davanti della scena, incontrano il loro sguardo e lo fermano: gli storici allora, preoccupati di scoprire i segreti motivi che li fanno agire e parlare, dimenticano tutto il resto.

      L’importanza delle cose che essi vedono fare a qualche uomo dà loro un’idea esagerata dell’influenza che può esser esercitata da un uomo, e li dispone naturalmente a credere che per spiegare i movimenti della folla bisogna sempre risalire all’azione particolare di un individuo.

      Quando al contrario tutti i cittadini sono indipendenti gli uni dagli altri e ognuno di essi è debole, non si scopre affatto chi muove la folla. A prima vista, gli individui sembrano assolutamente impotenti su di essa, e si direbbe che la società cammini da sola per concorso libero e spontaneo di tutti gli uomini che la compongono.

       Ciò porta naturalmente lo spirito umano a ricercare la ragione generale che ha potuto afferrare tante intelligenze in una volta e volgerle simultaneamente dalla stessa parte.

       Sono convinto che, anche presso le nazioni democratiche, il genio, i vizi e le virtù di determinati individui possano ritardare, o precipitare, il corso naturale del destino del popolo, ma queste cause fortuite e secondarie sono infinitamente più varie, più nascoste, più complicate, meno potenti, per conseguenza più difficili da districare e da seguire che non nei tempi di aristocrazia, in cui si tratta soltanto di analizzare, in mezzo a fatti generali, l’azione particolare di qualcuno o di pochi uomini”.

(123)op.cit., p.97.

(124)op.cit., p.97.

(125)op.cit., p.97: “Il Signor de la Fayette ha detto in un punto delle sue “Memorie” che il sistema esagerato delle cause generali procura meravigliose consolazioni agli uomini pubblici mediocri”.

(126)op.cit., p.97: “Aggiungo che ne dà di mirabili agli storici mediocri. Esso fornisce loro sempre qualche grande ragione che li trae d’impaccio rapidamente nei punti più difficili dei loro libri, e favoriscono la debolezza e la pigrizia del loro spirito, pur facendo onore alla loro profondità”.

(127)op.cit., p.97-98: “penso  che non vi sia un’epoca in cui bisogna attribuire una parte degli avvenimenti di questo mondo a fatti molto generali, e un’altra a influenze particolari. Queste due cause si incontrano sempre, solo il loro rapporto differisce. I fatti generali spiegano più cose nei secoli democratici che nei secoli aristocratici, e le influenze particolari meno. Nei tempi di aristocrazia, avviene il contrario: le influenze particolari sono più forti, e le cause generali più deboli a meno che non si consideri come una causa generale il fatto stesso della disuguaglianza delle condizioni, la quale permette a pochi individui di contrastare alle tendenze naturali di tutti gli altri. Gli storici che cercano di narrare ciò che accade nelle società democratiche hanno quindi ragione se fanno larga parte alle cause generali, e si applicano principalmente a scoprirle, ma hanno torto se negano interamente l’azione particolare dgli individui, solo perché è difficile trovarla e seguirla”.

(128)op.cit., p.98.

(129)op.cit., p.99.

(130)op.cit., p.99.

(131)op.cit., p.99.

(132)op.cit., p.99: “Se questa dottrina della fatalità, che ha tanta attrattiva per coloro che scrivono la storia nei tempi democratici, passando dagli scrittori ai lettori penetrasse nella massa intera dei cittadini al punto di impadronirsi dello spirito pubblico, è facile prevedere che paralizzerebbe subito il movimento delle società moderne e cambierebbe i cristiani in turchi.

      Aggiungo che una simile dottrina è particolarmente pericolosa per l’epoca in cui viviamo; i nostri contemporanei sono troppo inclini a dubitare del libero arbitrio, perché ciascuno di essi si sente limitato da ogni parte dalla propria debolezza, ma essi accordano ancora volentieri forza e indipendenza agli uomini riuniti in corpo sociale. Bisogna guardarsi dall’oscurare questa idea, perché si tratta di sollevare le anime e non di abbatterle”.

(133)N.BOBBIO, Liberalismo e Democrazia, Milano 1985, p.7: “L’esistenza attuale di regimi che vengono chiamati liberal-democratici o di democrazia liberale induce a credere che liberalismo e democrazia siano interdipendenti. Al contrario il problema dei loro rapporti è molto complesso, e tutt’altro che lineare”.

(134)M.HORKHEIMER, Rivoluzione o Libertà, Milano 1972, p.46: “Marx pensava che la società proceda verso il regno della libertà. Ebbene, aveva torto per due motivi. In primo luogo… perché la società procede verso l’automatizzazione e non verso la libertà; in secondo luogo, perché il rapporto dialettico tra giustizia e libertà gli sfuggiva completamente. Quanto più esiste la libertà, la vera e reale libertà, tanto più c’è il pericolo che alcuni individui opprimano gli altri. E quanto più esiste la giustizia, tanto meno spazio c’è per la libertà”.

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"Il Merito" intervista Paolo Scudieri (di Irene Polito)

Intervista all’Ing. Paolo Scudieri (4 dicembre 2015)

(di Irene Polito)  

Paolo Scudieri, noto imprenditore campano, rappresenta con la sua azienda una delle migliori e più solide realtà imprenditoriali in Italia e all’estero. ADLER GROUP progetta, sviluppa e industrializza componenti e sistemi per l'industria del trasporto, utilizzando in modo innovativo poliuretani, poliolefine, polipropilene e polivinile. Il gruppo ADLER ha 58 stabilimenti in 19 Paesi e 7 siti di ricerca e sviluppo.

Di recente, Paolo Scudieri ha fondato Eccellenze Campane – la Terra del Buono –, un progetto legato alla valorizzazione dei prodotti campani; un polo gastronomico che promuove il “meglio” del made in Campania, portandolo direttamente dal produttore al consumatore senza passaggi intermedi, nella logica della “filiera corta”.  

Incontro l’ing. Scudieri nella sede di Eccellenze Campane, in via Brin, nella zona industriale di Napoli.

Incuriosito ed entusiasta risponde alle domande che io e Simone Lucattini, coordinatore de “Il Merito”, abbiamo pensato per lui.

  • Cosa è per lei il merito? Quale è la sua idea di merito?

Parlare di merito significa, per me, parlare di attualità. Il merito è per me, da sempre, un elemento distintivo che consente di individuare le persone che vogliono riuscire, nella mia azienda, ma più in generale in tutti i settori. In un mondo globale e sempre più innovativo il merito è un concetto che va inculcato nei più giovani. Occorre far comprendere loro che attraverso il merito è possibile raggiungere ogni obiettivo.

  • Lei è un affermato imprenditore, la sua azienda ha stabilimenti in tutto il mondo, nella sua attività d’impresa ha fatto proprio il concetto di merito?  E come?

Sempre! La meritocrazia è la prima regola del mio agire, come imprenditore e come uomo. Il merito è il criterio guida per garantire l’affermazione, la crescita e la soddisfazione di tutto il capitale umano che lavora con me. E’ una regola che il mio gruppo applica in Italia e in tutto il mondo. E’ tuttavia un valore, quello del merito, che riscontra maggior successo e facilità di applicazione nei paesi dove il liberismo ha fatto storia (soprattutto negli USA). In quei paesi è più facile, ancora oggi, forgiare professionalità capaci di raggiungere obiettivi e affrontare sfide aziendali.

  • Cosa suggerisce, alla luce della sua esperienza professionale, ad un giovane che voglia puntare sulle proprie capacità e, appunto, sul proprio merito?

Dico che è la strada giusta! Qualunque iniziativa, qualunque intrapresa, sia essa pubblica o privata, deve essere fondata sul merito come fattore-turbo, da utilizzare per arrivare al successo. Non è più il tempo di ragionare secondo altre logiche, scegliendo la via più facile. Un giovane deve, attraverso un percorso formativo, educativo e professionale, sviluppare una sana competitività, vero valore aggiunto per vincere tutte le sfide lavorative, personali e quotidiane.

  • Quale è il valore aggiunto, oltre la competitività, che le interessa di più in un giovane, magari da assumere nella sua azienda?

Un giovane è una lavagna bianca su cui scrivere. Un giovane approccia il mondo del lavoro con desiderio e motivazione. Non ritrovo, nei più giovani, retropensieri o dietrologie. Sono collaborativi e determinati, pronti e competenti. Rappresentano per un’azienda il valore aggiunto. Per questo io e il mio gruppo abbiamo sempre puntato sui giovani, e bene abbiamo fatto, non ci siamo mai pentiti. La scommessa su un giovane è sempre vincente.

  • Questo discorso può valere per tutti i giovani, siano essi del Sud o del Nord dell’Italia? Quale è la sua esperienza al riguardo?

La ringrazio per la domanda, che tocca un tema a me particolarmente caro. In un Sud così criticato e vilipeso  posso affermare invece che la mia esperienza è molto positiva. La passione e l’impegno profuso dai giovani del Meridione vanno ben oltre le più rosee aspettative. Un giovane del Sud ha voglia di emergere, di raggiungere obiettivi e traguardi, ha voglia di mettersi in gioco, spesso allontanandosi da casa propria ed andando all’estero, o al Nord, per poter lavorare. I giovani del Sud hanno un grande spessore e questo nella mia esperienza l’ho sempre riscontrato. E’ molto più facile trovare giovani volenterosi e dediti al lavoro al Sud che, magari, in realtà sociali e territoriali dove è tutto più consolidato e “definito”.

  • Quale è la sua opinione sulle start-up innovative che tanto ora vanno di moda e sui vari strumenti che il nostro paese mette in atto per incentivarle?

Qui la risposta è articolata. Le start-up rappresentano il desiderio dell’intrapresa da parte di giovani  che con coraggio vogliono impegnarsi in una sfida in cui nulla è dato per scontato. Le start-up rappresentano un rischio e volerlo correre è già in sé un valore. In America le start-up rappresentano una realtà vivace e ormai consolidata, basti pensare che la più moderna economia, ad esempio nel mercato della comunicazione e dell’intrattenimento, è ormai guidata da start-up. L’Italia ha colto, seppur con ritardo, la sfida delle start-up e a livello legislativo sta muovendo i primi passi. È evidente che un imprenditore attento all’ innovazione, quale elemento strategico della propria azienda, deve essere capace di cogliere i vantaggi di una start-up (in termini di idee, contenuti e bisogni della collettività). L’imprenditore più capace vede nella start-up un’opportunità, ne sostiene il progetto, vi collabora. Io stesso sono parte attiva di due start-up innovative.

  • Ci può descrivere questi suoi due progetti allora?

Il primo progetto riguarda la comunicazione tridimensionale di cataloghi cartacei attraverso lo sviluppo dell’ampiezza della rappresentazione, ottenuto colorando in modo diverso e/o sostituendo le componenti del catalogo a distanza. L’altro progetto riguarda invece i giochi, di quelli scaricati attraverso applicazioni su smartphone, tablet e altri device. Di quest’ultimo progetto non posso però dire molto, perché sta “incubando”; posso solo dire che diverrò un player del mercato delle comunicazioni elettroniche. Entrambi i progetti hanno comunque una finalità in comune, sostenere il valore aggiunto che proviene da una brillante idea imprenditoriale.

  • Quindi, se l’idea è vincente e appartiene ad un giovane lei la sostiene?

Assolutamente sì, prima l’analizzo, valuto il business plan, gli investimenti da effettuare. Se tutto questo c’è, l’idea è da sostenere. Ma non basta. Servono anche adeguati strumenti di founding, necessari per realizzare in concreto la start-up.

  • Quale è la sua opinione in merito agli interventi finora assunti a sostegno delle start-up, cosa consiglierebbe al Governo?

Io sposo con estremo favore le iniziative intraprese su questo fronte dal governo Renzi e auspico che venga data sempre maggiore importanza al sostegno delle imprese ed alle start-up. Inoltre mi auguro che vengano stanziate sempre maggiori risorse per sostenere progetti imprenditoriali, così che di anno in anno le nuove start-up, le nuove idee d’impresa, possano affermarsi e diventare realtà concrete, sfidanti e competitive.

La P.A. paga il pegno del passato. Si sa che in passato la P.A. ha fatto scelte in materia di risorse umane e di professionalità poco basate sul merito e sulla competitività. Il mondo tuttavia è radicalmente cambiato e fenomeni quali la globalizzazione hanno contribuito, per fortuna, a smuovere le coscienze. E’ quindi cambiata la tradizionale visione della P.A., sempre più orientata alla trasparenza e al dialogo collaborativo con i privati. Chi governa deve avere chiaro che, proprio grazie ai cambiamenti degli ultimi anni, all’elettorato non basta più sapere quante assunzioni fa questo o quel politico, come poteva avvenire un tempo. L’elettore vuole dal politico risultati concreti, risposte alle quotidiane esigenze dei privati, imprenditori e collettività. In quest’ ottica anche la P.A. deve fare la sua parte. Per farlo ci vuole coraggio, occorre fare tagli, ridurre le inefficienze, azzerare gli sprechi. Il tutto favorendo invece le professionalità, le competenze e la competitività. E, quando dico questo, penso ad esempio alle tante opportunità che, per esempio in Campania, potrebbero nascere se fossero effettivamente valorizzati i beni culturali e paesaggistici. Insomma, ci vuole coraggio: svecchiare e snellire l’apparato burocratico; guardare l’elettorato non più come una mucca da mungere ma come una reale risorsa.

La sua esperienza imprenditoriale si svolge in contesti internazionali ed europei. Rispetto a tali realtà l’Italia soffre ancora un gap burocratico, o qualcosa sta lentamente cambiando?

Il gap in Italia c’è ed è fortissimo. La dinamicità di altri paesi è molto più forte, la competitività all’estero è altissima. In Italia il gap c’è in termini di efficienza, di utilizzo delle risorse, di lungaggini burocratiche, soprattutto se consideriamo le nostre reali potenzialità. Tuttavia, saluto con favore alcuni interventi del Governo orientati a favorire la competitività, lo snellimento della burocrazia, la semplificazione. E plaudo ad iniziative, come quelle realizzate in Campania dal Governatore De Luca, che nel suo primo atto legislativo regionale ha dato attuazione a strumenti di semplificazione amministrativa - quali lo sportello unico per le imprese - favorendo così la riduzione della burocrazia; posso dire che questa rappresenta una enorme svolta, una reale semplificazione per tutto il sistema imprenditoriale campano. Come dire, sono moderatamente ottimista.

  • Quali sono le condizioni di contesto che nel sistema Italia possono favorire il merito: una giustizia più rapida, certezza delle regole, garanzia degli investimenti?

L’attrattività del nostro paese è fortissima. All’estero tuttavia ancora arranchiamo, stentando ad apparire credibili. Basti pensare alla lentezza del nostro sistema giudiziario, a processi che a volte durano anche più di dieci anni. Parlo di certezza delle regole, di uno Stato di diritto.

  • Secondo lei è questo un deterrente per gli investitori esteri?

Si, certamente. Di recente sono riuscito a far venire in Italia un imprenditore indiano di altissimo profilo e a farlo investire qui, nel casertano. Gli ho promesso che l’Italia non è quella che descrivono i giornali, gli ho detto che l’Italia è un’opportunità. Mi ha creduto e adesso sulle mie spalle c’è una grande responsabilità. Per questo ogni giorno mi adopero per far sì che il progetto imprenditoriale che mi lega a lui sia rispondente alle sue esigenze, ai suoi standard. L’avvio di questa attività è molto difficile e sta richiedendo grandi sforzi. Posso di sicuro affermare che in condizioni di normale competitività, per la bellezza dei nostri luoghi e il valore della nostra cultura, rispetto ad altri paesi saremmo largamente preferiti dagli investitori esteri. Il fattore Italia è una ricchezza da valorizzare e promuovere.

  • Il filosofo americano Michael Novak ha scritto che la logica del mercato è “cercare insieme la soluzione migliore in modo agonistico”. Un bel modo di conciliare competizione e collaborazione, concetti apparentemente antitetici. Quale la sua opinione al riguardo? Dalla competizione può nascere collaborazione?

  Certo. L’importante è che tutti, in modo professionale, svolgano il proprio ruolo. Non deve esserci competizione tra politica e imprenditoria, tra politica e giustizia.

  • E tra imprenditori?

Quando la competizione è sana va benissimo. Se poi si riferisce all’atteggiamento meridionale, spesso legato a logiche medioevali che non guardano al merito e alla competitività, direi che questo è un enorme gap, una perdita di chance per il Mezzogiorno d’Italia. Il Meridione è il luogo dove i gap dell’Italia si manifestano con maggiore evidenza. Credo che il sud debba essere considerato come il banco di prova per risolvere tutti i problemi del nostro paese, perché risolvendoli qui è possibile farlo nell’ Italia intera.

  • Nel 2015, dunque, possiamo ancora dire che c’è una questione meridionale?

Si, per tanti aspetti. Il Sud, ripeto, è il più difficile banco di prova.

Dall’inizio dell‘intervista ho lodato il merito, appena me ne ha parlato mi sono entusiasmato. Nella vita mi sono sempre basato sul merito come criterio guida, ne ho fatto un fattore fondamentale della mia impresa e, se ho raggiunto degli obiettivi, è perché ci ho creduto. I giovani devono comprendere questo. La regola numero uno è credere nelle proprie capacità, costruendo sul merito solide fondamenta, utili per raggiungere ogni obiettivo. Chi crede in questo valore non ha che da perseverare, la strada per la vittoria e l’affermazione è di sola andata. “Il Merito” è quindi un’iniziativa coraggiosa e da lodare. Mi piace ricordare la canzone “capitani coraggiosi” di due grandi della musica italiana, Morandi e Baglioni, bisogna esserlo sempre, sentire coraggio e forza nei propri cuori per realizzare tutti i nostri piccoli e grandi progetti.

  (15 dicembre 2015)

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