logo il merito

ISSN 2532-8913

La fine dell’Occidente - Osservazioni sul “politicamente corretto” (di Alfredo Franchi)

  Nell’impostazione storiografica, stando alla nota indicazione di Benedetto Croce, si notano due modalità interpretative antitetiche che si delineano tramite il loro contrasto: quella “moralistica” e quella “storicistica”. Croce era coerente esponente dell’ultimo indirizzo quando asseriva che la storia deve assumere nel suo andamento più tipico la valenza “giustificatrice” e non quella “giustiziera”, cara ai fautori del primo orientamento. Nessuna metodologia è esente da limiti. Nel caso dello storicismo c’è il rischio di ridurre il passato a quanto di positivo ed inevitabile poteva accadere. Ove prevalga l’ansia purificatrice del moralismo, poco o nulla delle vicende occorse si capisce per cui, alla fine, non si consegue la critica effettiva di quanto di negativo si è verificato nella storia. In importanti aree dell’Occidente l’opzione moralistica ha rinvenuto una vistosa espressione nel diffuso paradigma del “politicamente corretto” al cui interno si avvalora, tra le altre cose, il dialogo aperto e senza pregiudiziali con tutte le culture. Al fine di realizzare tale intento la critica radicale della categoria di identità si configura come basilare presupposto. Se è vero che una identità rigida e connotata in maniera etnocentrica impedisce ogni confronto, la sua liquidazione implica la mancanza di vaglio critico delle proposte culturali con la quale ci si commisura, sino a venirne assorbiti senza residui. Tomaso Montanari , in un articolo pubblicato il 10 settembre ne “Il Fatto” , dal titolo rivelatore “L’identità inventata degli italiani” , sostiene che essa non esiste e che tale termine, avendo alimentato “il veleno della retorica identitaria” , è servito a giustificare nefandezze di ogni sorta: il “noi” contro il “loro” , le dottrine del “respingimento”, “i campi di concentramento in Libia”, lo “straniero come nemico” , i “paradigmi culturali connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista”. Al fine di rendere convincente la sua argomentazione Montanari ricorre ad un espediente già stigmatizzato da Aristotele, ossia quello di costruire una teoria dell’identità palesemente assurda e quindi facilmente debellabile. “Se l’identità significa uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta…bisogna dire con chiarezza: no, questa identità italiana non esiste”, afferma Montanari, con il solo inconveniente, nota Galli della Loggia, che nessuno, dotato di senno, ha mai sostenuto una teoria del genere. E, di seguito, articolando la sua analisi critica, continua: “La denunciata mancanza di un’identità unitaria, non vuol dire affatto la mancanza di un’identità (e magari anche di un’identità fortissima). Se ciò fosse vero, del resto, nessun paese ne potrebbe allora vantare una, dal momento che né Spagna né Francia né Germania…possiedono certo un’identità molto meno variegata di quella italiana”. Nell’articolo di Montanari la critica dell’identità è funzionale alla proposta di accogliere tutti dal momento che “tutti siamo provvisori, migranti e stranieri” , che “il nostro noi si è formato grazie ad una somma di <loro> accolti e fusi in questa terra”, e che dunque “l’Italia è sempre stata multietnica e dunque multiculturale” , affermazioni perentorie e non sufficientemente argomentate 1.

                                                  ------------------------------------------

     La rivisitazione acre della identità in altri paesi occidentali è sintomatica dello stato d’animo condiviso da chi si colloca all’interno del “politicamente corretto”. In una delle più note competizioni per studenti inglesi – Il Times Law Awards, organizzato da Times con la One Essex Court – quest’anno è stato dato il seguente tema: “bisogna riscrivere la storia in accordo con l’attuale visione dei diritti umani?”. Spencer Turner, risultato vincitore, si è occupato di Edward Colston, la cui statua è presente nel centro di Bristol e il cui nome ritorna più volte in strade ed edifici. Da anni di è aperta un’accesa polemica intorno alla sua figura sino all’ipotesi di procedere nei suoi confronti ad una “damnatio memoriae” perché le sue benemerenze nei riguardi della città non possono far dimenticare che egli è stato detentore del monopolio della tratta degli schiavi per l’Africa occidentale nel XVII secolo. Turner ha sostenuto che Colston, giudicato alla luce dei diritti umani, sarebbe condannato con certezza pur riconoscendo che, di queste storiche ingiustizie, la Bristol odierna e i suoi abitanti si sono avvantaggiati. Egli ha allora suggerito di non distruggere o rimuovere la statua ma di porre alla sua base una targa che, in maniera dettagliata, informi delle sue attività non commendevoli. Per quanto riguarda la scritta, posta sulla vetrata della cattedrale di Bristol, che invita a ripetere i suoi comportamenti, questa andrebbe invece cancellata.

     Alcuni studenti di Manchester hanno espresso la loro ostilità nei riguardi di una poesia di Rudyard Kipling affissa ad un muro dell’università poiché lo scrittore aveva simpatizzato con il colonialismo ed aveva avuto atteggiamenti razzisti, ma la liquidazione di Kipling come razzista impedisce di comprendere il carattere complesso e contraddittorio del colonialismo britannico come ha notato Marcello Flores. Del pari ridurre Thomas Jefferson ad uno “stupratore razzista” per avere avuto un figlio da una schiava sino a dimenticare del tutto il ruolo da lui svolto nella costruzione della democrazia americana, significa impedire il dialogo senza fine “tra il passato e il presente” da cui scaturisce la comprensione di quanto è accaduto e di ciò che si verifica oggi. La storia viene commisurata ai valori morali del presente dislocati meccanicamente al passato di cui viene ignorato del tutto il contesto. Usufruendo di tale paradigma, negli ultimi anni, si è giunti alla severa condanna di Cristoforo Colombo “colpevole di aver…, partecipato alla distruzione degli indigeni delle Americhe”. Appena un secolo fa quel personaggio era il simbolo di una possibile integrazione degli italiani in terra americana. Giova ricordare che, di solito, la revisione della storia viene favorita da governi di natura autoritaria. Nel 2017 i National Archives di Londra furono criticati per avere parlato del colonialismo britannico in termini negativi, senza accennare minimamente alla lotta contro la tratta degli schiavi condotta dal deputato William Wilberforce che, nel 1807 dopo una prolungata battaglia parlamentare, fece approvare l’abolizione della tratta. Gli episodi sopra ricordati ci ricordano che la storia necessita di una narrazione completa quale non si verifica ove ci si apra all’influsso del “politicamente corretto” in cui la complessità degli eventi viene quasi a scomparire. Va ricordato che Wilberforce, ormai in pensione, fu contrario alla richiesta di emancipazione femminile con diritto di voto “non ritenendola adatta al ruolo e al decoro delle donne”. L’avere lottato in maniera coerente per i diritti di alcuni non implicava evidentemente un impegno analogo a favore di altri 2.

                                                            ---------------------------------

       Pierluigi Battista scrive che all’insegna del “politicamente corretto”, una sorta di furia iconoclasta, da qualche anno, nel mondo occidentale, si “sta facendo a pezzi la cultura, l’arte e il passato”. A livello verbale è opportuno dire “non vedente” piuttosto che “cieco”, e “operatore ecologico” anziché “spazzino”. Non si tratta, secondo lui, di mera ed innocua ipocrisia verbale: al suo fondo si ravvisa “una malattia ideologica contagiosa e pericolosa” in cui il passato viene condannato in blocco come negativo e peccaminoso. Le opere di Shakespeare sono criticate, come si è verificato in una università americana, perché lo scrittore “non si è conformato con secoli di anticipo alle ingiunzioni della nuova Inquisizione”; in esse potrebbe celarsi “qualche subliminale invito alla violenza sessista, fino addirittura alla legittimazione dello stupro”. Dietro l’attacco alla cultura si cela “un’ideologia, una retorica, un’ossessione, un istinto di sopraffazione che indossa gli abiti virtuosi del Bene, del Giusto”. In una atmosfera lugubre e sospettosa certi accademici fanatici usano la ghigliottina per epurare i testi colpevoli della letteratura universale al fine di proteggere “nuove vittime innocenti” che potrebbero andare incontro ad un trauma dinanzi a testi e immagini che “non condannino la violenza che rappresentano”. A Firenze si è giunti alla manomissione del finale della Carmen al fine di “salvare nuove vittime innocenti” nella convinzione che esso “avesse qualcosa di perverso e diseducativo che avrebbe portato a nuovi femminicidi”. In questa atmosfera di delirio morale, negli Stati Uniti, si è giunti in ambito universitario a rifiutare conferenze e dibattiti aperti al confronto di idee diverse e di concezioni di vita alternative. Il dialogo e il confronto, da sempre al centro della pedagogia illuminata, sono esclusi in via preliminare a vantaggio del “pensiero unico e rassicurante” in cui vengono racchiusi gli ascoltatori Quando l’ossessione censoria riguarda le opere incorporate nell’immaginario occidentale occorre reagire con fermezza, senza pavida rassegnazione nei confronti di una “malattia contagiosa” che può decretare la fine dell’Occidente almeno in senso culturale 3.

                                                        ---------------------------------

       Nella lunga storia del “politicamente corretto” non si colgono fautori illustri con cui confrontarsi in maniera teoreticamente significativa. Molto più famosi sono i suoi oppositori tra i quali spicca il nome di Harold Bloom che ha dedicato le sue energie intellettuali al fine di “arginarne i mostruosi effetti nel campo dell’insegnamento della letteratura”. Nella storia della stupidità umana non c’è mai stato bisogno di un “pensiero articolato e ben riconoscibile” dal momento che tale movenza deteriore si nutre di dicerie anonime e della ottusità di chi pensa di “essere nel giusto” per cieca e immotivata convinzione. Tra gli esponenti del “politicamente corretto” si notano “burocrati accademici e ministeriali, studiosi e studiose di second’ordine, studenti facinorosi e insoddisfatti, genitori con troppo tempo libero a disposizione”. In tale clima di assoluta mediocrità può maturare la convinzione che “Euripide sia un drammaturgo sessista, o che <Cuore di tenebra> sia un racconto colonialista”. Queste idee, palesemente infondate, esercitano una pesante censura nei programmi accademici e scolastici sino a creare serie difficoltà professionali per chi continua a ritenere che la letteratura e le arti sono “un patrimonio umano che non può essere adeguato agli umori e alle frustrazioni del momento”. Frequentemente giungono notizie dall’America e anche dall’’Inghilterra che, del “politicamente corretto” “follia tipicamente americana, è un po’ la filiale europea”, che generano stupore e sconcerto. Una delle più belle fiabe della letteratura mondiale, “La bella addormentata” viene messa in stato d’accusa. Si scopre che il bacio del principe che pone fine al lungo incantesimo è una vera e propria molestia sessuale: il principe non è dissimile, nell’ottica moralistica, dai mascalzoni che drogano e violentano le ragazze in discoteca. Il processo alla fiaba rivela le storture di certa diffusa mentalità contemporanea in maniera esemplare; in particolare si nota l’incapacità di instaurare un corretto rapporto tra passato, presente e futuro. Nota Emanuele Trevi che “tra tutte le espressioni e le immagini credibili del mondo, la fiaba e il mito sono non solo le più antiche, ma corrispondono a necessità primarie non meno impellenti del nutrirsi, del costruirsi una casa, dell’indossare dei vestiti”. Anzi, più del mito che è destinato agli esponenti adulti di una comunità, la fiaba “ha esercitato un ruolo essenziale nella storia umana perché, pur non essendo necessariamente inventata per i bambini, è un elemento necessario del loro accudimento, il primo passo di un lungo e accidentato processo di adattamento alla realtà”. Tramite la fiaba i bambini trovano rassicurazione sull’andamento ciclico del tempo, fonte di angoscia ove la scomparsa della luce non si coniughi al suo ritorno. Le fiabe “nelle loro componenti essenziali, viaggiano fino a noi dalla notte dei tempi, dall’oscurità delle origini. Ogni cosa che vi accade, possiede i caratteri indelebili della necessità e del sacro”. In linea generale di molti eventi e situazioni fiabesche non è possibile la trascrizione concettuale e, quindi, è molto più importante “raccontare una fiaba che capirne il significato”. In epoca moderna La bella addormentata è stata rielaborata al fine di renderla più avvincente “senza pregiudicarne la potenza, l’imperituro nucleo simbolico”. Questo incontro felice tra “la forza impersonale della tradizione e il genio individuale” si è verificato nella scrittura di Charles Perrault e nelle immagini di Walt Disney. In ambedue i casi si è trattato di un processo elaborativo non esente da “modifiche e adattamenti notevoli”. In ogni caso, tuttavia, al di fuori di una loro precisa consapevolezza” sia Perrault che Disney e i suoi collaboratori si sono messi al servizio della fiaba almeno tanto quanto l’hanno utilizzata ai loro fini. Le hanno fornito un sontuoso veicolo per proseguire il suo viaggio nel tempo. Non si sarebbero mai sognati di amputarla del bacio del principe alla principessa addormentata”. L’eliminazione della scena e del gesto “così carico di un sentimento ancestrale della vita e della morte”, e del tutto estraneo a qualsiasi sembianza di molestia sessuale, appare come una prevaricazione arrogante del presente ai danni del passato.

       Analoghe considerazioni affiorano alla mente alla notizia che un’opera classica come Le avventure di Huckleberry Finn, in una nuova edizione scolastica, viene sottoposta ad una epurazione lessicale, quasi che il termine <negro>, “usato da un maestro della prosa come Twain negli anni Ottanta dell’Ottocento”, abbia lo stesso valore dispregiativo della parola “scritta sul muro di un bagno pubblico ai nostri giorni”. Nell’esecrabile valutazione, tipica del “politicamente corretto”, si ritiene che “le convenzioni e i valori del presente, anziché stadi di un cammino per natura imprevedibile e transitorio, siano delle conquiste assolute alle quali tutto il passato deve sottomettersi”.

       Il “politicamente corretto”, salvo sporadici casi, sembra non avere attecchito nella vecchia Europa mediterranea e in America Latina. Sembra che “la sua furia iconoclasta e moralizzatrice” sia stata frenata negli ambiti culturali ed umani “modellati per secoli dal cattolicesimo”. Forse in chi è estraneo a certi condizionamenti della mentalità puritana non attecchisce la convinzione che “l’uomo d’oggi possa arrogarsi il diritto di giudicare e biasimare il passato, adeguandolo alle sue esigenze”. Di sicuro è difficile immaginare in ambito italiano o spagnolo qualcosa di analogo alla vicenda narrata da Philip Roth nella “Macchia umana”, ambientata nel piccolo campus del New England. A distanza di venti anni dalla sua composizione appare ancora “la più lucida e spietata anatomia dei meccanismi psicologici e sociali della <correctness>” . Nel destino del professore di Letteratura Coleman Silk, prossimo alla pensione, “tutto è assurdo e lugubremente verosimile”. La sua carriera viene compromessa da una citazione di Shakespeare in cui “due studenti credono di riconoscere un’allusione razzista”. I colleghi di Coleman, pur consapevoli dell’assurdità di tale accusa, a poco a poco lo abbandonano al suo destino di “capro espiatorio di una comunità fondamentalmente intollerante, e che si crede tanto più virtuosa se non distingue tra un fatto vero e uno immaginario” . Philip Roth, con una satira spietata e assoluta libertà di spirito, dipinge in maniera perfetta “un mondo ottuso e fiero di sé, dove il solo fatto che una parola, o addirittura la citazione di un classico, possa risultare offensiva per un pelandrone che non ha nulla di più serio da fare che offendersi, basta a condannare un uomo onesto, ad allontanarlo dal suo posto di lavoro, a ipotecare il suo onore”. Non è un caso se queste società in cui si praticano con zelo fanatico false virtù e immaginarie purificazioni siano anche quelle in cui “le disuguaglianze sono più brutali, i legami di solidarietà sono ridotti al minimo, e le esplosioni di violenza e disperazione scandiscono quotidianamente i notiziari”. Per una sorta di corto circuito la vana ricerca di “rappresentazioni edulcorate e rassicuranti” finisce per produrre nella realtà proprio il suo contrario. Il paradigma del “politicamente corretto” elaborato con le più nobili intenzioni si scontra con le impietose repliche della storia 4.

NOTE

1 E. GALLI della LOGGIA, La sinistra e l’identità, p.11, Corriere della Sera 16 Settembre 2018.   Importante dello stesso autore, Ora l’identità piace a sinistra, p.13. Corriere della Sera 22 Luglio 2018 : “fa piacere …vedere rimesso in auge quel concetto di identità che per tanto tempo il benpensante progressista ha giudicato alla stregua di qualcosa che andava assolutamente espulso dalla storia e dalla politica per bene.Non si è letto infatti mille volte che l’identità è un concetto che richiama le <radici>, il blut und Bloden nazista, un concetto che sa di atavismo, di tribalizzazione, una dimensione che è fatta per escludere, per discriminare…Ora che si torna a una più sobria valutazione delle cose non c’è che da rallegrarsi…Ma non era il caso di pensarci prima?...Non era il caso di pensarci ogni volta che per anni e anni non si è persa l’occasione per prendere le parti dell’identità, ma solo a patto che fosse di una minoranza, mai se era quella della maggioranza? Non era il caso di pensarci allorché in ogni occasione si è esaltata qualunque <diversità>, qualunque <differenza> contro vere o presunte persecuzioni? Non era il caso allora di farsi attraversare dal dubbio che a forza di legittimare sempre e comunque il punto di vista e gli interessi dei <meno> si finiva inevitabilmente per delegittimare il punto di vista e gli interessi dei <più>…?

2 M.FLORES, Requisitorie moraliste, Corriere della Sera – La lettura 5 Agosto 2018 p.3-4.

3 P.BATTISTA, Ma quale buona causa!, Corriere della Sera – La lettura 5 Agosto 2018 p.3-4.

4 E.TREVI, Quel bacio non è stupro, Corriere della Sera – La lettura 5 Agosto 2018 p.3-4.

                                        .

Email

Una virtù perduta: la nobiltà dello spirito. Osservazioni intorno alla crisi dell’uomo contemporaneo (di Alfredo Franchi)

Nel secolo andato domina nella cultura un istinto di morte che induce a privilegiare in tutto ciò che accade e nelle interpretazioni che se ne danno gli aspetti negativi e fallimentari[1]. S’instaura e prevale un clima di diffidenza e di sospetto[2]  all’interno del quale le manifestazioni più nobili ed esaltanti della natura umana vengono reinterpretate alla luce di procedure smascheranti che riconducono tutto alla dimensione dell’ignobile e dello squallore[3]. A parità di potere esplicativo appare sempre preferibile la decifrazione che risulta più avvilente per l’uomo[4] ove prevalga una sorta di voluttà nichilistica che, nella denigrazione più acre di quanto accade, rinviene la sua estrinsecazione più appropriata[5]. La strategia interpretativa messa a punto dai pensatori del sospetto s’impone generalmente anche in coloro che non hanno mai avuto un raccordo diretto con gli autori che l’hanno propugnata, in quanto è divenuta modalità costitutiva dell’immaginario occidentale. In tale clima culturale la nobiltà dello spirito vagheggiata da T. Mann va incontro ad una progressiva erosione sino a scomparire del tutto[6]. Questa categoria  sin dall’antichità era stata ritenuta come cifra caratterizzante della natura umana compiutamente dispiegata. In epoca moderna essa entra in crisi nel momento in cui i “letterati della civiltà” mettono a punto un progetto esistenziale che ridimensiona fortemente l’interiorità umana[7]poiché, a loro avviso, la piena felicità è resa possibile dall’ideologia politica e dalle istituzioni sociali che la trascrivono nella realtà onde realizzare la rigenerazione dell’uomo[8].

       In tale orientamento si disconosce totalmente la finitezza dell’uomo, palese nella condizione di mortalità e di tutte le inquietanti domande che restano senza risposta. Al riguardo osserva  Riemen come in epoca moderna giunga a compimento il processo in cui l’eternità viene totalmente accantonata a vantaggio di ciò che è effimero e contingente[9]. Abbandonato al presente, svincolato dal passato e dalla tradizione, l’uomo è condannato a vagare in un universo privo di senso ; in tale contesto è paradossale l’idea che la salvezza giunga all’uomo in virtù di risorse interne alla sua natura in cui grandezza e miseria si mescolano in maniera tale da smentire la decifrazione univoca ed ogni progetto esistenziale di tipo autoreferenziale. T.Mann si è opposto con vigore a tale andamento culturale, sorretto dal desiderio di verità a suo avviso indispensabile nella ricerca tesa a calibrare la dignità dell’uomo[10]. L’uomo tramite la conoscenza si apre alla dimensione ideale e con la libertà si può rendere protagonista della vita, pur nella consapevolezza di rimanere un “ eterno enigma[11], mescolanza di caducità e di grandezza per cui la stessa libertà trova la sua compiuta esplicazione, non nella arbitrarietà assoluta ed insensata, ma nel riconoscere che “ noi non siamo liberi perché non riconosciamo nulla al di sopra di noi, ma perché onoriamo qualcosa al di sopra di noi[12].

     T.Mann prende congedo dall’idea “folle che l’uomo possa salvare se stesso[13]. Questa convinzione non lo abbandona anche nel periodo della vita in cui perviene alla fama ed al successo[14]. In ogni caso si mantiene ferma la consapevolezza della duplice natura dell’uomo[15]. Ove, in maniera unilaterale, si riduca l’uomo alla componente positiva o negativa la nobiltà dello spirito viene a mancare di ogni possibilità di realizzazione poiché “ le qualità spirituali dell’esistenza sono universali e eterne[16], e quindi nessuna creatura mortale potrà esserne l’interprete definitivo ed assoluto, ma neppure potrà trovarsi in condizione di totale scollamento e separazione da esse. In tale conclusione difatti l’uomo verrebbe privato della capacità di elevarsi al di sopra della sua natura materiale. Ciò si verifica nella società di massa pervasa da un nichilismo corrosivo di ogni legame di civiltà e così ciò che rimane “ è una collezione sconfinata di individui separati, non più uniti da un solo valore universale e che, sedotti dal principio secondo cui <io sono libero, dunque tutto è permesso>, finiscono per distruggersi a vicenda[17].

      Tra gli intellettuali che hanno meditato sull’avvento del nichilismo e sulle responsabilità degli u omini di cultura, Camus è stato tra i pochi a rendersi conto dell’errore commesso quando è stata accantonata “ l’eterna distinzione tra bene e male[18] in quanto illusoriamente si riteneva che l’uomo in maniera autonoma potesse creare i suoi valori[19]. Riflettendo sulla genesi del nichilismo e sulle catastrofiche conseguenze esistenziali da esso indotte Camus si era convinto che gli intellettuali dovevano combattere l’idea che tutto è permesso; in tal caso una libertà senza limiti avrebbe reso impraticabile ogni diritto sino a dissolvere del tutto la compagine sociale. Al fine di evitare tale esito calamitoso ribadiva con forza la sua convinzione che “ la libertà dell’uomo è per sua natura relativa, subordinata all’ideale imperituro, impossibile da realizzare pienamente, della dignità umana…esistono valori assoluti al di sopra di noi verso i quali ognuno è obbligato[20]. Camus si è reso conto del fatto che la politicizzazione dello spirito discende in maniera diretta dal nichilismo teorizzato e diffuso dagli intellettuali che, accantonata la ricerca della verità e la domanda sul senso della vita, hanno fatto dell’interesse sociale e della necessità storica il criterio dirimente della scelta politica capace di realizzare la compiuta felicità dell’uomo[21] senza però  “nulla sapere in verità cosa sia bello o brutto, buono o cattivo, giusto o ingiusto[22].

      Già Leopardi notava ai suoi tempi  l’indebolimento morale dell’umanità incapace di resistere alla forza del destino al contrario di quanto si verificava tra gli antichi che, per coraggio e grandezza d’animo, apparivano superiori ai moderni[23]. Il desiderio innato di conservazione induceva i contemporanei ad attribuire alla vita un’importanza eccessiva ed insieme a dare alle calamità ricorrenti un peso straordinario al punto di far cadere in una condizione di completo avvilimento in cui rimaneva spazio solo per la paura e la disperazione per chi non fosse  “ magnanimo per natura o per coltura[24] Quest’ultimo non rimaneva comunque altezzoso ed impassibile, fiero della sua eccellenza morale,  ma si apriva in un atteggiamento compassionevole nei confronti dei più deboli, dai quali era disposto a subire qualcosa anziché soverchiarli[25]. Tra gli antichi genericamente evocati da Leopardi come fautori della nobiltà e della grandezza d’animo in cui trovano adempimento le virtualità specifiche della natura umana è da annoverare Aristotele che ha dedicato a tale tematica riflessioni  avvincenti cui merita ritornare.

 Il conoscere se stessi è tanto la cosa più difficile quanto quella più piacevole

          Il filosofo nella sua Retorica individua nella magnanimità la cifra distintiva dei giovani che non siano stati umiliati dalla vita e siano animati dal desiderio di libertà che potrà renderli protagonisti nella loro esistenza. La fiducia negli altri da parte dei giovani è legata al fatto di non aver avuto esperienze negative e di non aver ancora sperimentato la malvagità della natura umana, appunto per questo sono portati a non diffidare ed a convincersi facilmente[26], al contrario di quanto si verifica nella condizione senile in cui si palesano tutte le caratteristiche antitetiche a quelle accennate : “ I vecchi… hanno la maggior parte delle qualità di carattere pressoché opposto alle suddette; infatti, avendo vissuto molti anni ed essendo stati più volte ingannati e avendo più volte errato, e poiché la maggior parte delle cose umane sono poco belle essi non vogliono affermare con certezza nulla, e si tengono troppo al di sotto di quel che dovrebbero… sono di cattivo carattere poiché il cattivo carattere consiste nel prender tutto nel senso peggiore. Inoltre sospettano sempre il male a causa della loro diffidenza… né amano, né odiano troppo per questi motivi…sono meschini , perché sono stati umiliati dalla vita; essi infatti non desiderano nulla di grande o di eccezionale… e sono avari… e sono vili e timorosi in anticipo… vivono per l’interesse e non per il bello, più di quanto non si debba, per il fatto che sono egoisti… sono restii a sperare, a causa della loro esperienza… e vivono del ricordo più che della speranza[27].

      Si perviene in tal maniera a delineare il paradigma esistenziale  della magnanimità che appare retaggio dei pochi che non si deprimono per gli insuccessi della vita, che non diventano sospettosi e diffidenti, codardi e paurosi in anticipo, che impostano la vita all’insegna di tutto ciò che è grande, bello, esaltante al contrario di come vive l’uomo cattivo “ diffidente e malevolo verso tutti, poiché giudica gli altri col proprio metro[28]. Se l’analisi del filosofo è convincente a quale sorte è condannata la grandezza d’animo in un’epoca di sospetto e diffidenza generalizzata come la nostra?

 Certo la storia recente non difetta di prove eclatanti di malvagità da parte degli uomini e quindi, da tale angolatura, la scomparsa della nobiltà d’animo come compiuta possibilità di vita nell’immaginario contemporaneo appare spiegata. Sembra quasi di ravvisare nella nostra epoca una situazione schizofrenica poiché nella scienza e nella tecnica il progresso avanza inarrestabile, per quanto riguarda l’uomo e la sua specifica condizione si assiste all’inaridirsi quasi completo della componente spirituale ove s’impongano nei comportamenti individuali e collettivi le manifestazioni negative retaggio della condizione psicologica senile descritta da Aristotele, con la precisazione da parte del filosofo che si trattava in ogni caso di un paradigma ideale che non implicava la sua immediata e meccanica trascrizione esistenziale, quasi fosse stato obbligo per i vecchi l’adeguarsi in via preliminare ad uno stile di vita così deprimente[29]. Al riguardo Nietzsche, nella sua epoca, notava con preoccupazione dei giovani  che avevano i capelli bianchi e quindi erano privi delle caratteristiche esaltanti della giovinezza[30] secondo il paradigma aristotelico che conserva integra la sua validità almeno nel senso di provocazione ideale per chi voglia dare all’esistenza una tonalità più elevata. Non casualmente Aristotele ha dedicato alla grandezza d’animo, cifra della condizione giovanile, un’analisi prolungata sulla quale giova riflettere; fermo restando che dal suo punto di vista “  il conoscere se stessi è tanto la cosa più difficile… quanto quella più piacevole[31].

      In tale considerazione si nota una valutazione decisamente positiva della natura umana, assente nell’opzione nichilistica che privilegia coerentemente la negatività sino ad esaurire in essa il suo orizzonte antropologico con l’esclusione totale della nobiltà d’animo dal novero delle possibilità esistenziali. Il filosofo s’avvale nella sua analisi di un registro interpretativo che trapassa dalla descrizione della magnanimità come disposizione psicologica ideale alla persona concreta che la incarna e la trasferisce nella vita[32]. In prima istanza “ il magnanimo sembra essere colui che si ritenga degno di grandi cose, essendone davvero degno[33], in tal senso l’elevatezza del desiderio si raccorda al comportamento virtuoso nella vita per cui “ bisogna che chi è davvero magnanimo sia buono[34]. Non sempre il desiderio si trova in sintonia con la perfezione morale conseguita e quindi “ chi si ritiene degno di cose inferiori di quanto sia degno, è pusillanime[35]. Se il magnanimo si ritiene meritevole di grandi riconoscimenti dovrebbe soprattutto mirare all’onore “ il quale è infatti il più grande dei beni esteriori[36]. In tale acquisizione ardua a realizzare poiché “ è difficile essere davvero magnanimi: non è infatti possibile senza avere una perfetta virtù[37] l’uomo si avvicina alla condizione divina[38], conservando sempre in tutto un grande equilibrio, difatti “ si comporterà con moderazione anche riguardo alla ricchezza, al potere e a ogni fortuna o sfortuna, comunque avvenga, né sarà troppo lieto della buona sorte, né troppo addolorato se l’ha cattiva[39].

       I nobili di nascita, coloro che comandano o dispongono di grandi ricchezze, in virtù di tali connotazioni sono predisposti alla magnanimità, “  ma in verità soltanto chi è buono è da onorarsi: se poi uno ha entrambi i pregi, è stimato ancor più degno di onore[40]. Non è facile infatti  conservare la moderazione quando si gode di una situazione fortunata ed in mancanza di virtù facilmente si diviene superbi e tracotanti. Il magnanimo sceglie a ragion veduta e quindi trascura i piccoli rischi e tutte le banalità della vita, di conseguenza “ ama i grandi pericoli e, quando affronta il pericolo, è incurante della vita, come se non mettesse affatto conto vivere[41]. In ogni caso nei rapporti con gli uomini vuole rimanere in una condizione di superiorità e quindi preferisce donare agli altri anziché ricevere[42]. E generalmente non vuole  dipendere da nessuno, e quindi sarà sostenuto con i potenti e mite con le persone di modesta condizione  poiché “ l’essere superiori a quelli è cosa difficile e dignitosa, l’essere superiore a questi è cosa facile[43].

      Il magnanimo non aspirerà a mettersi in vista ed a primeggiare se non nelle imprese grandi e difficili ove sia in giuoco l’onore, ognora preoccupato più della verità che delle opinioni correnti, esprimerà liberamente e con franchezza il suo pensiero senza riguardi per nessuno[44]. Solo con gli amici avrà un comportamento confidenziale senza dare spazio alcuno a movenze adulatorie e servili. Fiero e consapevole della sua eccellenza non sarà propenso ad ammirare gli altri, nemmeno a biasimare o a lodare chicchessia, a lamentarsi per ciò che di spiacevole accade, a chiedere aiuto e soccorso[45]. L’amore per l’indipendenza lo indurrà a privilegiare le cose belle anche se inutili e, nel suo comportamento, egli manterrà un totale autocontrollo diversamente da quanto si verifica negli uomini meschini a ragione della loro piccineria d’animo[46].

      Il paradigma del magnanimo delineato da Aristotele appare in ogni caso significativo anche per chi lo rifiuta ove manchino i prerequisiti indicati dal filosofo o  ne dia una valutazione di segno contrario come si vedrà di seguito nella analisi di orientamenti di pensiero alternativi.

       Nulla è degno dei nostri sforzi, del nostro lavoro e delle nostre lotte

 

       Schopenhauer  è veramente agli antipodi della concezione aristotelica secondo la quale la conoscenza di se stessi  era la cosa più piacevole[47]. A suo avviso l’uomo, uscito dalla condizione di ignoranza, e venuto ben presto a conoscere le innumerevoli sofferenze ed i dolori della vita, non può agognare ad altro che di recuperare la condizione di incoscienza dalla quale incautamente si era allontanato[48]. Difatti finché non ritorna alla condizione primigenia “ i suoi desideri sono senza confini, le sue pretese inesauribili, e ogni desiderio soddisfatto ne genera uno nuovo. Nessuna soddisfazione al mondo basterebbe a tacitare il suo desiderio, a porre un termine definitivo alla sua brama e a colmare l’abisso senza fondo del suo cuore[49]. Il filosofo nota poi come l’uomo da tutti i suoi tentativi non consegua se non la semplice conservazione della vita all’interno della incessante lotta di tutti i viventi per sopravvivere,  in tal senso si deve ammettere che la felicità terrena è qualcosa di effimero ed illusorio[50] e che solo” la magia della lontananza ci mostra paradisi, che spariscono come illusioni ottiche, dopo che ci siamo lasciati ingannare. Perciò la felicità è sempre nel futuro, oppure nel passato, mentre il presente è come una piccola nuvola scura, che il vento spinge sulla pianura soleggiata: davanti e dietro tutto è chiaro, solo quella nuvola getta sempre un’ombra. Il presente quindi non soddisfa mai, mentre il futuro è incerto e il passato è irrevocabile[51].

        La vita con le continue calamità, con il suo andamento fortuito ed imprevedibile ha in sé lo stigma della irrilevanza e della caducità e non appare in alcun modo orientata al conseguimento della felicità per gli uomini[52], e nel suo andamento complessivo induce a far pensare che “ nulla è degno dei nostri sforzi, del nostro lavoro e delle nostre lotte, che tutti i beni sono vani, che il mondo fa dappertutto bancarotta e che la vita è un affare che non copre le spese: tutto ciò al fine di distogliere da essa la volontà[53]. Il tempo nella sua inesorabile e distruttiva scansione, pone termine a tutto ciò che esiste[54] e, pur tuttavia, finché si rimane in vita siamo penosamente condizionati da tutto ciò che accade poiché “ dei piaceri e delle gioie sentiamo dolorosamente la mancanza, appena cessano: mentre dei dolori, anche se cessano dopo essere stati presenti a lungo, non avvertiamo immediatamente l’assenza: tutt’al più possiamo accorgercene, se ci pensiamo a bella posta. Infatti solo il bisogno e il dolore possono essere avvertiti positivamente e perciò si fanno sentire da sé: il benessere è invece puramente negativo[55]. E’ quanto si verifica per la salute, la giovinezza, la libertà, i beni sommi dell’esistenza di cui ci rendiamo conto solo quando scompaiono, difatti “ le ore trascorrono tanto più velocemente, quanto più sono piacevoli; tanto più lentamente, quanto più sono sgradevoli: e questo perché il dolore, non il piacere, è il positivo, di cui si sente la presenza. Allo stesso modo siamo consci del tempo quando ci annoiamo, non quando ci divertiamo[56]. Realmente la nostra vita è tanto più piacevole quanto meno c ne rendiamo conto al contrario di quanto pensava Aristotele che ravvisava nella conoscenza finalizzata a se stessa il culmine della felicità umana. Per Schopenhauer invece “ l’esistenza del mondo non può essere per noi motivo di gioia, bensì piuttosto di tristezza; che la sua non-esistenza sarebbe preferibile alla sua esistenza; che il mondo è un qualcosa che, in fondo, non dovrebbe essere[57]. In tale ambito di pensiero non c’è spazio alcuno per la grandezza d’animo e la nobiltà dello spirito auspicate dallo Stagirita, la cruda verità difatti ci dice che “ noi dobbiamo essere miserabili, e lo siamo. Inoltre la fonte principale dei mali più gravi, nei quali l’uomo si imbatte è l’uomo stesso: homo homini lupus[58]. Basta far ricorso alla storia passata e recente dell’umanità per constatare che “ sono solitamente l’ingiustizia, l’estrema iniquità, la durezza e perfino la crudeltà che…caratterizzano la condotta reciproca degli uomini: il contrario si presenta solo come eccezione[59].

       Sulla scorta di tale riconoscimento ogni affermazione sulla socievolezza e sulla bontà naturale degli uomini[60] sembra che vada accantonato ove, sottoposta ad esegesi smascherante, si riveli come vano tentativo di sublimazione delle caratteristiche aberranti della natura umana[61]. Ad ulteriore conferma della sconsolata visione proposta Schopenhauer nota come cause banali siano in grado di produrre dolore, mentre niente può donarci la piena felicità[62]. In tal senso appare plausibile che la fase più bella della vita sia quella del sonno e quella più conturbante sia quella della veglia. Alla luce di tali considerazioni Schopenhauer può concludere che “ morte ha almeno questo di buono, di essere la fine della vita, e noi ci consoliamo dei dolori della vita con la morte e della morte con i dolori della vita. La verità è che le due cose si appartengono reciprocamente, costituendo esse un errore, dal quale è tanto difficile, quanto auspicabile liberarsi[63]. La concezione finalistica dell’universo implica nel sottofondo la teoria dell’ottimismo[64] che viene smentita dalle innumerevoli testimonianze di miseria del mondo[65] e così Schopenhauer non esita a dichiarare che “ la vita viene…fatta passare per un dono, mentre è palese che chiunque avesse potuto vedere ed esaminare prima tale dono, l’avrebbe rifiutato con tanti ringraziamenti[66].

     Sorretto da una serie di precedenti reperibili nella cultura classica[67] e in opere emblematiche della modernità[68], il filosofo rinviene nella negazione della volontà di vivere il rimedio più salutare per l’uomo, secondo la visione della religione orientale e del cristianesimo da lui omologato con lettura selettiva alla sua posizione teorica[69].  Ricco di annotazioni significative il confronto instaurato da Schopenhauer tra protestantesimo e cristianesimo: a suo avviso, eliminata la componente ascetica, il protestantesimo si risolve in banale razionalismo e paradossalmente in una riedizione della dottrina pelagiana buona “ per pastori protestanti soddisfatti, sposati e illuminati”.[70] Lutero aveva giustamente stigmatizzato la dissolutezza e l’immoralità della chiesa del suo tempo, ma errava dal punto di vista teorico: “ quanto più una dottrina è elevata, tanto più è esposta all’abuso, da parte di una natura umana che, nel suo complesso, è incline alla bassezza e alla malvagità: ecco perché gli abusi sono molto più numerosi e più gravi nel cattolicesimo che nel protestantesimo[71]. L’indignazione provata da Lutero per gli scandalosi abusi della Chiesa del suo tempo lo indussero ad accantonare del tutto il principio ascetico e ad accettare una visione positiva , ma Schopenhauer osserva che “ in religione come in filosofia, l’ottimismo è un errore gravissimo, che sbarra la strada alla verità. Di conseguenza, il cattolicesimo è, secondo me, un cristianesimo di cui si è fatto un vergognoso abuso, mentre il protestantesimo è un cristianesimo degenerato: il cristianesimo in generale ha dunque subito la sorte che tocca a tutto ciò che è nobile, elevato e grande, appena deve esistere tra gli uomini[72].

      A parer suo la verità fondamentale, ossia la necessità di essere redenti da una esistenza condannata al dolore e alla morte, è presente nel cristianesimo, nel brahmanismo e nel buddhismo ma in forma mitica e favolosa[73], questa modalità di trasmissione implica una fragilità di fondo alla quale pone rimedio la filosofia che “ ha il compito di presentare , puro e senza contaminazioni, quel contenuto, che è identico alla pura verità, al numero sempre molto limitato di coloro che sanno pensare, di presentarlo dunque unicamente sotto forma di concetti astratti e quindi senza quel veicolo mitico[74]. L’errore fondamentale è quello di pensare che noi viviamo per essere felici, quando al contrario la vita è intrisa di dolore e vani sono tutti i tentativi per liberarsi positivamente di esso; nella gran parte dei casi “ la sofferenza è un processo di purificazione, in virtù del quale soltanto l’uomo si salva, abbandona cioè la strada sbagliata della volontà di vivere[75].

      Schopenhauer coerentemente privilegia la tristezza al riso[76] come emozione atta a rivelare il senso pregnante della vita in cui i nostri progetti sono di continuo smentiti da un destino orientato in via preliminare alla mortificazione della nostra volontà individuale[77]. L’opinione diffusa che il fine della vita consista nel conseguimento della virtù morale è smentita  dalla constatazione che “ la vera e pura moralità è così pietosamente scarsa tra gli uomini[78], pur limitando la verifica alle virtù normali per ogni uomo, senza mettere in giuoco le “ virtù elevate come la magnanimità, la generosità e l’abnegazione[79], che nella vita reale non s’incontrano mai se non nelle sublimazioni del teatro e della letteratura. L’accenno alla magnanimità è rivelatore, ma in Schopenhauer non si tratta semplicemente di una negazione di essa a livello fattuale: è tutta la sua riflessione teorica che non la può ammettere in linea di principio dal momento che l’uomo gli appare come l’ente più contraddittorio ed assurdo dell’universo. Non casualmente tutte le caratteristiche funzionali al sorgere della nobiltà dello spirito vengono da lui smascherate e ridotte ad un sottofondo negativo[80]. Siamo veramente agli antipodi della celebrazione dell’uomo che aveva rinvenuto la sua espressione più fulgida in Pico Della Mirandola[81], nel quale era venuta a compimento la celebrazione umanistica dell’individuo apice dell’universo in virtù della sua componente spirituale e morale.

              La nobiltà dello spirito in Thomas Mann

 

       Sullo sfondo della riflessione di Thomas Mann tesa ad enucleare e salvaguardare la nobiltà dello spirito si stagliano le drammatiche vicende dal Novecento che trovano nella prima guerra mondiale[82] l’esordio nefasto[83]che ha trasformato il mondo in un’orrenda babilonia spirituale[84]. A  partire da tale momento si assiste ad un’ involuzione progressiva dell’umanità, al rarefarsi delle energie morali ed intellettuali e così paura ed angoscia, odio e mania persecutoria pervadono con la loro influenza deteriore le dinamiche individuali e collettive[85]. Questa epoca agitata e convulsa[86], incline ad attribuire alla natura umana in quanto tale le caratteristiche aberranti e caduche che la qualificano, induce i fautori della dignità dello spirito a ritornare ai fondamenti[87], onde recuperare  nella interiorità della coscienza  una concezione  spirituale del mondo senza la quale l’esistenza è solo un “ gravame e un terrore[88]. Il susseguirsi di vicende nefaste e distruttive[89] ha favorito l’insorgere di una ebbrezza di morte[90] che induce a privilegiare in quanto accade gli aspetti alienanti e distruttivi, qualcosa del tutto non “ confacente all’anima europea, preservare la quale alla vita e alla ragione[91] è  il compito degli intellettuali.

     Lo scrittore, nel corso della sua analisi, mette a punto un vero e proprio paradigma interpretativo per cui tramite viene resa esplicita la crisi dell’uomo contemporaneo e nel medesimo tempo  avanza una esegesi più pacata e meno distruttiva della vicenda storica e della natura umana alla luce del desiderio assoluto di verità[92]. Il sentimento di cui Mann ribadisce  l’importanza[93] e che rimane di continuo sullo sfondo della sua attività di uomo e di scrittore è l’ammirazione[94]. In tale condizione emotiva si può accogliere con amore quello che inizialmente appariva lontano ed estraneo[95], poco interessante e banale quando, al contrario “ ogni uomo è meraviglioso (e) dove vi siano spirito e sentimento ogni vita umana, anche la più misera, può diventare interessante e amabile[96]. In tale attitudine dello spirito siamo veramente lontani dalla diffusa concezione antropologica tesa a risolvere, tra Ottocento e Novecento, la natura umana nei suoi tratti inquietanti e negativi[97] sino all’esito paradossale  cui giungeva Tolstoi spinto a rinnegare la totalità della sua opera[98], vittima di una autodenigrazione distruttiva che appariva alla fine come “ la più vergognosa forma di menzogna[99]. La mancanza di fede nella verità e nella chiarezza interiore induceva lo scrittore a rifiutare in prima istanza ogni idea espressa dal suo interlocutore di cui coglieva esclusivamente la debolezza e la negatività[100] e così “  chi avesse osservato il suo sguardo scrutatore, la sarcastica contrazione delle labbra quando ascoltava qualcuno, avrebbe dovuto convincersi che non tanto gli premeva di rispondere a una questione, quanto di esprimere un’opinione che stupisse o imbarazzasse l’interrogante[101]. Come non ravvisare in tale atteggiamento una forma di malvagità e di compiacimento distruttivo?

      Tolstoi sembra partecipe di una concezione di vita alla fine causa di dolore per gli altri e per se stesso. Egli non riuscì mai a convincersi che gli uomini potessero essere almeno in qualche momento sinceri per cui “ ogni sentimento gli pareva falso… e gli uomini considerati buoni erano soltanto degli ipocriti che facevano sfoggio della loro bontà[102]. Al contrario Mann riteneva che intelligenza e cultura svincolate dall’amore e dall’indulgenza per la fragilità umana avessero scarso valore in quanto venivano a rendere impossibile la comunicazione effettiva con la gran parte degli uomini[103]. Occorreva pertanto assumere un atteggiamento improntato alla disponibilità ed alla mitezza in mancanza delle quali ogni rapporto interpersonale in partenza sarebbe stato impedito[104]. L’uomo appare a Mann come una realtà complessa e misteriosa, “  un alto incontro fra natura e spirito nel loro nostalgico ricercarsi [105], ed in quanto tale si trova sottoposto ad una duplice sollecitazione: “ Farsi spirito! Suona l’imperativo sentimentale dei favoriti della natura. Farsi corpo! Suona invece quello dei figli dello spirito[106]. Nulla appare facile ed in mancanza di ogni tentativo da parte dell’uomo la natura si risolve nella univoca dimensione della materialità, e lo spirito, svincolato da ogni raccordo alla realtà, rimane esangue e sradicato[107]. Al contrario ove si realizzi un’opera in cui  “ spirito e natura si compenetrano in purezza  – è possibile considerarla -  tra le più umane e sublimi[108].

      L’uomo in quanto spirito è libero ed in grado di emanciparsi dai vincoli della materialità. In tale impresa porta a compimento le sue virtualità specifiche e quella nobiltà interiore in cui si adempie in maniera compiuta l’autentico processo formativo[109]. Alla domanda retoricamente congegnata  “ che cosa è più nobile e più degno dell’uomo: libertà o vincolo, volontà o costrizione, moralità o ingenuità ?[110], non sarà facile dare una risposta perentoria e definitiva proprio in considerazione della complessità della natura umana e dell’ambiguità della vicenda storica[111]. In ogni caso Mann , in una sorta di riepilogo della sua esistenza, dichiara commosso la sua scelta: “  credo nel bene e nello spirito, in ciò che è vero, libero, audace, bello e giusto… ho trascorso la mia vita nell’ammirazione di ciò che è grande: la mia intera saggistica, accanto alla mia opera narrativa, si compone tutta di ammirazione[112]. Al fine di accedere alla nobiltà dello spirito è indispensabile ritornare alle origini poiché “ ogni coscienza di un’origine è aristocrazia[113]. In tale dichiarazione  siamo agli antipodi alla prevalente linea di pensiero che nello smascheramento delle origini, ricondotte in vario modo a qualcosa di avvilente e conturbante, rinveniva la sua mansione specifica. Al contrario Mann non esita a dichiarare “ che cosa stupenda quando un grande spirito viene ad esprimere ciò che si rispecchia nel suo animo[114]. Questo non implica naturalmente che tutto si riduca a bellezza ed armonia[115] e, appunto per questo, la riproduzione della realtà effettuata  dall’artista “ non sarà mai del tutto gradita al mondo[116]. La produzione letteraria che aspira alla validità universale non dovrà in ogni caso scadere in qualcosa di “ semplicemente mondiale, un corrivo bene di consumo internazionale [117], allineato alle modalità fruitive dei provinciali dello spirito incapaci di apprezzare opere universalmente riconosciute, mentre chi è nobile di spirito e “ vive nei millenni non è tenuto, diversamente dall’uomo medio il quale è fedele alla propria epoca e la promuove, a servire lo spirito del proprio tempo[118], nel quale risuonano, solo però verbalmente, parole altisonanti di libertà ed uguaglianza.

      Ove faccia difetto l’esigenza di migliorarsi e di avvertire la vita come progetto a livello morale, estetico, culturale[119],  ove manchi la percezione dell’uomo come essere teso verso il mondo dei valori[120], si potrà pure avere successo tra gli uomini[121], pagando però un prezzo assai elevato dal momento che “ il vero studio dell’umanità è l’uomo[122] nella prospettiva dell’eternità, alla cui luce soltanto la morte e la vita palesano la loro effettiva identità[123]. Con una frase ad effetto Mann rileva  come l’esperienza artistica ci sottrae ad un tempo alla fruizione superficiale della realtà e ci consente di realizzare il raccordo effettivo con essa[124] e così, emancipati dalla visione illusoria, si accede alla comprensione profonda tramite la dialettica culturale che sublima la condizione di assenza nei riguardi del mondo nella forma di una presenza autentica ed esaltante[125]. In ogni caso occorre mantenere la consapevolezza della natura complessa dell’uomo in cui fisiologia e patologia dei comportamenti si intrecciano in maniera indissolubile[126] per cui,  chi sia rimasto estraneo alla dimensione ambigua e tragica dell’esistenza è incapace di pensarla e di viverla[127]. Tale attitudine si riscontra nell’artista vero animato dal “ nobilissimo anelito umano alla perfezione”[128].

      Il fascino sottile dell’opera letteraria si palesa nelle molteplici virtualità dei mezzi espressivi che danno vita a forme di comunicazione in cui apparenza e realtà effettiva non coincidono perché “ una chiacchiera può nascondere un inno, una pasquinata può celare nel profondo una glorificazione, dietro una solennità può esservi un ghigno[129]. E così il significato profondo non emerge subito ed in maniera diretta, ma tramite una sorte di svelamento che adduce, in maniera anche dolorosa, alla comprensione effettiva del messaggio. Questo si verifica soprattutto nei processi comunicativi che vedono protagonista l’intellettuale tedesco che, in maniera paradigmatica, appare come “ l’uomo della via, e della via indiretta, che deve acquisire ogni esperienza positiva in un senso viatorio e peregrinatorio: altrimenti il positivo non sarà altro che stupidità[130]. Appunto per questo, a giudizio di Mann, “ il tedesco giunge a Dio passando per la distruzione della morte e il deserto del nulla; giunge alla comunità attraverso tutti gli abissi della solitudine e dell’individualismo; e alla salute non arriva che dopo aver conosciuto sino in fondo la malattia e la morte[131].

      Sulla scorta di tali considerazioni  a Mann le raffinate analisi di natura psicologica effettuate da Proust appaiono quasi un divertimento se paragonate alla discesa agli inferi di Dostoevskij[132]. L’atteggiamento orgoglioso di chi dichiari di non aver nulla da nascondere della propria interiorità rivela qualcosa di supponente e superficiale ove si richiamino alla mente le confessioni dell’eroe delle Memorie del sottosuolo che  nella segretezza trova il rimedio più efficace alla paura angosciante che qualcuno possa intravedere i segreti terribili della sua interiorità[133]: “ nei ricordi di ogni uomo ci sono cose che non svela nemmeno agli amici, ma tutt’al più solo a se stesso, e sotto il suggello della segretezza. Infine ci sono cose che ha timore di svelare anche a se stesso, e una quantità abbastanza grande di esse si accumula nel fondo di ogni uomo onesto, tanto più grande diventa il numero di queste cose[134]. In realtà si deve riconoscere che gli stati d’animo eccezionali ed intrecciati a dinamiche patologiche sono poi quelli che favoriscono le manifestazioni culturali più elevate talché “ non sembra possibile essere artisti e non essere malati[135]. Nella produzione letteraria di Dostoevskij tutto questo emerge con evidenza e le affermazioni provocatorie del suo eroe contro i positivisti, per quanto antiumane appaiano, sono fatte in nome dell’umanità e dell’amore per essa “ pensando a una nuova umanità più profonda e più aliena dalla retorica, passata attraverso tutti gli inferni del dolore e della conoscenza[136].

       In ogni caso Mann, pur nella consapevolezza del sottofondo inquietante dell’opera letteraria,  non abbandona la sua convinzione di fondo che l’arte  riceva comunque la sua sollecitazione decisiva dalla conoscenza del bene ed appunto per questo rimanga l’esperienza più bella  per l’uomo che non esaurisca le vita nell’ambito materiale delle futilità e si apra a tutti i valori ideali . In particolare per lo scrittore “ verità e bellezza devono essere messe in relazione l’una con l’altra; prese isolatamente, senza l’appoggio che l’una trova nell’altra, restano valori assai labili e incerti[137].  Dal suo punto di vista il ritorno all’interiorità ed alla concentrazione appare qualcosa di imprescindibile[138], al fine di recuperare le idealità più elevate che illuminano del loro riverbero la realtà, talora terribile, della vita[139], onde evitare l’accettazione e la ratifica senza residui di quanto accade tramite la scelta insieme cinica e vile[140].

     L’arte si colloca in posizione intermedia tra lo spirito e la vita ed in qualche maniera si trova ad appartenere a due mondi come del resto l’uomo che è stato definito l’animale malato appunto  per la sua natura intermedia tra natura e spirito, per la mescolanza di grandezza e di miseria che, non casualmente,  vengono a riverberarsi in tutte le sue manifestazioni mai lineari ed univoche[141]. A parere di Mann  si deve riconoscere che “ in fondo tutta la psicologia è un’opera di smascheramento che, con lo sguardo ironico e penetrante del naturalista, scruta il rapporto vessatorio che intercorre fra spirito e istinto[142]. Fermo restando che l’uomo rimarrà sempre un mistero e la scienza non avrà mai il potere di scioglierlo compiutamente[143]: è proprio il rimanere nella incompiutezza a rendere autentico il pensatore nei diversi ambiti  della sua ricerca[144] ed a rivelarne la religiosità poiché “ religione è rispetto: rispetto prima di tutto del mistero dell’uomo[145]. Si comprende pertanto come Mann prenda le distanze dalle forme estreme di razionalismo ed antirazionalismo dell’Ottocento che, tramite complesse mediazioni, giungono sino all’epoca presente[146]. Non senza finezza egli osserva come Nietzsche, pur polemizzando da sempre e acremente contro l’uomo teoretico,  alla fine però viene ad esserne l’ultima e più sofisticata manifestazione[147]. Nietzsche dichiara a parole tutta la sua avversione per tale figura per poi esserne, al di là delle sue intenzioni,  sostanzialmente assorbito[148], come ben di vede quando si accinge a smascherare il desiderio della verità a suo avviso riconducibile a motivazioni profonde di natura sadomasochistica[149]; e quando, successivamente, decreta la fine della morale in nome di una verità più profonda rintracciata  tramite sofisticate procedure interpretative[150]. Mann non condivide la visione troppo negativa dell’uomo  che risulta dalle variegate strategie interpretative messe a punto dai pensatori del sospetto che ne hanno drasticamente ridimensionato la coscienza  dando soprattutto “ risalto scientifico al lato mostruoso della natura e dell’anima, vedendo in esso l’elemento propriamente creativo e determinante della vita[151]

      E parimenti  Mann rifiuta l’interpretazione nietzschiana per cui l’uomo teoretico sarebbe l’artefice di una concezione di vita orientata a mortificare la dimensione pulsionale della vita, facendo del dolore e della sofferenza la sua scelta privilegiata. Egli non è però ignaro della linea di pensiero che dalla tragedia greca a Plotino[152]  ha insistito sul motivo per cui “ non si vede infatti come il raffinamento spirituale possa mai raggiungere un grado considerevole senza che al tempo stesso non si accresca la sua capacità di soffrire. Questa può raggiungere un grado in cui ogni esperienza si trasforma in dolore[153]. Tale esito non appare intenzionalmente perseguito e risulta piuttosto come appendice dolorosa di un processo in se stesso plausibile al contrario di quanto si verifica in Nietzsche che ravvisa nella teoresi una esplicita voluttà distruttiva. Articolando la sua critica Mann ritiene che tale concezione sia negativamente condizionata da errori gravidi di conseguenze nefaste a partire dal “completo e…intenzionale misconoscimento del rapporto di forza, regnante sulla terra, fra istinto e intelletto, come se quest’ultimo esercitasse un pericoloso predominio e non vi fosse più tempo da perdere per salvare l’istinto dal suo prepotere[154]. In realtà l’andamento reale della vita nella gran parte degli uomini palesa il completo asservimento dell’intelletto alle forze istintive per cui il parere di Nietzsche, da tale angolatura, appare poco comprensibile[155], a meno che lo si intenda come reazione a certa esuberanza razionalistica del primo Ottocento[156]. Certo nell’epoca di Mann non sembrava necessario il dover difendere la vita dalle prevaricazioni dello spirito, come se essa andasse incontro ad una spiritualizzazione eccessiva che la rendeva esangue[157], difatti come non riconoscere che al momento presente “ la più elementare generosità dovrebbe spingerci a custodire e a difendere la debole fiammella della ragione, dello spirito, della giustizia, invece di schierarci dalla parte della potenza e della vita istintiva e compiacerci, in una sopravvalutazione coribantica, di suoi lati <rinnegati>, del delitto, del quale tutti oggi abbiamo sperimentato la stoltezza. Nietzsche vuol farci credere – e con ciò ha causato grandi mali – che sia la coscienza morale a levare, come Mefistofele, il suo freddo pugno diabolico contro la vita[158].

      Il secondo errore compiuto dal filosofo tedesco è da ravvisare secondo Mann nell’errato rapporto da lui istituito tra vita e morale alla stregua di realtà completamente antitetiche quando, al contrario, sono complementari : “ l’etica è sostegno della vita e l’uomo morale un vero cittadino della vita; forse un po’ noioso, ma utilissimo. La vera opposizione è quella tra etica ed estetica. Non la Morale, ma la bellezza è legata alla morte, come molti poeti hanno detto e cantato: possibile che Nietzsche non lo sapesse? <Quando Socrate e Platone abbracciarono il partito della virtù e della giustizia> egli dice una volta <essi furono ebrei, o non so che cosa>. Ebbene grazie alla loro moralità gli ebrei si sono dimostrati buoni e tenaci figli della vita. Con la loro religione, con la fede in un Dio giusto, essi sono sopravvissuti ai millenni, mentre i greci, piccolo e dissoluto popolo di esteti,  di artisti, sono presto scomparsi dalla scena della storia[159]. E’ vero che il cristianesimo ha tanto elevato l’importanza dell’individuo da rendere inoperante il principio di selezione[160] che, trascritto nella vicenda storica, avrebbe determinato efferatezze inaudite. Certo Nietzsche non poteva prevedere che, a distanza di pochi decenni, una “ marmaglia di piccoli borghesi megalomani[161] avrebbe compiuto gesta vergognose  di cui sarebbe rimasto verosimilmente disgustato ed avvilito, ma questo non vieta per chi conosce l’accaduto di esprimere una severa critica del filosofo tedesco  in base al principio di responsabilità che, basilare per tutti,  deve essere sempre sullo sfondo di ogni attività di pensiero.

     Nel Novecento  Mann nota “  un’ebbrezza di morte che conquista il mondo: qualcosa di non confacente all’anima europea, preservare la quale alla vita e alla ragione è oggi il nostro duro compito…mai come oggi fu profondo l’abisso che separa incanto estetico e responsabilità etica…Ebbene, riconosciamo in quell’abisso l’origine dell’ironia! Il nostro amore per la vita si difende con l’ironia dalla fascinazione della morte[162]. Egli oppone all’istinto nichilistico che permea di sé le vicende del Novecento il motivo profondo dell’arte tesa a far perdurare nel tempo conferendo “ stabilità alle cose, alle esperienze e alle visioni, alle gioie e ai dolori, al mondo quale apparve all’artista e, insieme, così, al suo io, alla sua vita. L’artista è l’avversario nato della morte, della transitorietà. Il suo fine non è la gloria, è qualcosa di più alto, di cui al gloria non è che un accidente: l’immortalità[163]. L’arte non minaccia la vita cristallizzandola in algide movenze ma la esalta e la sublima[164]: è per suo tramite difatti che si salvaguardano e si trasmettono i valori che nobilitano l’esistenza[165], è per suo tramite che, nel processo educativo[166], si recupera e si comunica ai giovani quel senso di dignità e nobiltà dello spirito umano[167] che è andato smarrito[168].

      La saldatura tra etica ed estetica induce Mann a dare particolare rilievo alla parola ed al linguaggio[169], al contrario di quanto si verifica nella sensibilità piccolo borghese del tutto estranea alle raffinatezze estetiche[170]: “ scrivere bene significa quasi pensare bene, e di qui ad agire bene il passo è breve[171]. Nella comunicazione normale prevalgono le frasi costruite in maniera grossolana, ed ogni tentativo di conservare precisa valenza semantica alle parole è considerato come un’intrusione indebita, tuttavia l’uomo di cultura sarà disposto a subire l’ostracismo sociale pur di salvaguardare la minima sfumatura della parola[172]. Al fine di conservare la libertà e l’autonomia interiore[173] sarà disponibile ad ogni sacrificio poiché “ la libertà è una cosa ben più complicata e delicata della violenza; è meno facile vivere nella prima che nella seconda[174], e questo ben lo si vede dal clamoroso fallimento cui andarono incontro gli intellettuali tedeschi incapaci di resistere all’avanzata del nazismo[175]. Mann è stato testimone della crisi epocale in cui è incorsa l’umanità nel secolo andato, del naufragio dei valori, della scomparsa di quella  <nobiltà dello spirito> in cui ravvisava l’apice del processo formativo. Eppure  la sua fede nel bene, nella bellezza[176], nella verità è rimasta inalterata[177],  in una sorta di bilancio retrospettivo della sua vita affermava di essere rimasto continuamente in atteggiamento di ammirazione[178] nei riguardi delle grandi manifestazioni dello spirito umano[179], ricevendone l’impulso a non diluire l’esistenza nelle banalità quotidiane[180], ed a mantenere un atteggiamento di simpatia e benevolenza[181] verso l’umanità[182]. La nobiltà dello spirito non è  stata solo una categoria  analizzata con perspicacia ma si è configurata anche, per processo di reduplicazione esistenziale, la cifra decisiva dell’uomo e dello studioso.

             Nelle ombre del domani

 

       Nel saggio dal titolo evocativo  Nelle ombre del domani Huizinga, nel periodo cupo degli anni trenta, notava la crisi profonda di tutti i valori che avevano reso sacra la vita[183]. S’avvertiva nelle sue parole l’angoscia per le sorti di un’antica civiltà sull’orlo della scomparsa, mentre i suoi adepti, in gran parte, non si rendevano conto di quanto fosse avanzata  ed incombente la catastrofe[184]. Per quanto significativo fosse l’aiuto della storia al fine di rendere gli uomini consapevoli della crisi  terribile che l’umanità stava attraversando, da essa nessuna risposta precisa e rassicurante sull’esito finale di tale decorso poteva derivar[185], in tal senso il futuro appariva a Huizinga una “ folle corsa verso l’ignoto[186]. E’ pur vero che la storia offriva esempi eclatanti di periodi critici e addirittura drammatici, al riguardo non c’era sicuramente penuria, ma si poteva in ogni caso cogliere una differenza significativa rispetto alla crisi  del momento poiché nel passato era comunque nota una meta alternativa e non s’ignoravano le modalità per raggiungerla[187], insomma “ il loro ideale era retrospettivo[188]. A ragione si poteva parlare del tramonto di quella nobiltà dello spirito che, nella istanza di verità lucidamente perseguita, rinveniva la sua cifra distintiva[189]. Il prevalere di un orientamento pragmatico ed utilitaristico[190] sanciva il divorzio tra sapere ed essere[191], sullo sfondo del quale si delineava una omologazione a livello delle idee e degli spiriti[192] in cui la grandezza d’animo andava incontro ad una scomparsa definitiva.

       In  definitiva in ogni decifrazione unilaterale e riduzionistica della natura umana ,  e quindi considerata in maniera solo negativa o positiva, la grandezza dello spirito umano scompare dal novero delle possibilità esistenziali al contrario di quanto si verifica in ogni linea di pensiero che insista sulla duplicità della condizione umana, sospesa tra bene e male, luce e tenebre, presenza ed assenza. E’ per questo che, alla fine “ il segno della nostra nobiltà è la nostra mancanza: la fame che ci tortura, la bontà che non possediamo, la verità che non conosciamo, la bellezza a cui noi aspiriamo, il silenzio che ci nasconde, la tenebra che ci avvolge[193]. In tale riflessione il critico si raccorda ad una tradizione illustre che, nel desiderio mosso da una mancanza, ravvisava il motivo saliente della natura umana[194]. Del resto la civiltà europea prende l’avvio dalla colpa e si sviluppa “ attraverso la coscienza e la vergogna per il peccato”[195]. Questo inizio problematico riverbera tutta la sua ambiguità nelle fasi successive  nelle quali raramente ci si adagia nel sereno possesso di conclusioni razionali acquisite[196]. Fermo restando che nelle manifestazioni artistiche e di pensiero più accreditate stabile rimane la memoria del passato con tutte le risonanze classiche e cristiane[197] per cui, anche nella situazione più critica e problematica,  si dispone di un nucleo identitario cui riferirsi e così, in nessun caso, la cultura si risolve nella negatività e mai si vedrà “  il male senza un poco di bene[198].

       Il saggio, sorretto da tale convinzione,  si dispone in atteggiamento di ammirazione nei riguardi di tutto ciò che esiste, consapevole del fatto che le risorse del cuore e dell’intelligenza non porteranno ad esaurimento “ la bellezza del mondo”[199]. Appunto per questo ogni esperienza compiuta appare deludente perché troppo distante dall’infinito cui anela l’animo umano[200] che, nella nostalgia inestinguibile, rinviene il suo stigma caratterizzante[201]. In ogni caso svincolati dalle strettoie dell’abitudine che impedisce di cogliere con sguardo poetico la realtà circostante[202], si tratta di riverberare in essa la luce interiore,  frutto squisito della nobiltà dello spirito, senza però cancellare del tutto l’oscurità e così “ l’ombra deve conservare la sua vita, il suo abisso, il suo velluto[203]. In tale maniera si viene a contrastare le procedure esplicative che, nei riguardi della natura umana, non hanno conservato la delicatezza necessaria a mantenere la stessa negatività come sua componente fisiologica.

      Dall’analisi effettuata ben si vede come l’eclisse della nobiltà dello spirito dal novero delle possibilità esistenziali appaia  motivo singolare di povertà per l’uomo contemporaneo che, nella misura in cui appare estraneo alle sollecitazioni ideali di questo paradigma di vita, si priva di stimoli e suggestioni che danno all’esistenza una tonalità più elevata. Certo l’atmosfera culturale in cui egli vive l’uomo, caratterizzata da un istinto di morte che induce a privilegiare tutte le negatività dell’esistenza, non è favorevole alla grandezza d’animo come proposta di vita[204]. Ma, confortati dall’idea che le cose belle sono anche molto difficili[205],  va mantenuta la speranza che la nobiltà dello spirito sopravviva almeno come desiderio nell’umanità del futuro.

(22 maggio 2018)

 

[1] In un articolo dal titolo Superuomo al tramonto  dell’11 giugno 1980 nel  Il Giornale Nuovo, N.ABBAGNANO delineava in maniera efficace tale situazione : “Negata la metafisica e, con essa, l’ordine e la sostanza permanente del mondo, la realtà stessa dell’uomo, che è parte del mondo stesso, si dissolve nel gioco imprevedibile e arbitrario del disordine e della causalità cieca… Le profezie sulla prossima fine dell’uomo si sono in quel periodo moltiplicate, assumendo aspetti diversi, ma sempre con la stessa conseguenza… sul piano pratico-politico: la negazione indiscriminata e totale di tutto ciò che l’uomo ha fatto e creato nella sua storia, di tutte le istituzioni e i valori  per i quali egli è finora vissuto”.

[2] G.DELLA CASA, Se s’abbia da prender moglie, Firenze 1946, p. 92 : “E chi potrebbe, quand’anche potendolo volesse, rimanere un po’ a lungo amico di un uomo sospettoso?”.

[3] Op.cit. p.92 : “Così sensibile e ombrosa è l’indole di alcuni, che basta un nulla a farli impermalire: coi loro amici hanno sempre un qualche motivo di cruccio; a starci insieme non si odono che recriminazioni e lamentele, ed è un vero tormento; sì che l’amicizia non può durare”.

[4] N.ABBAGNANO, op.cit..

[5] M.DE UNAMUNO,  L’agonia del Cristianesimo, Milano 1993, p.117 : “In ogni movimento della sua anima introduce un sospetto della sua intelligenza e come succede quasi sempre questi spiriti a forza di non voler essere ingannati finiscono per vivere dimezzati, spogliati, traditi da loro stessi”. Dalla  Replica di C:BO alla fine dell’opera.

[6] R.RIEMEN, La nobiltà dello spirito. Elogio di una virtù perduta ,  Milano 2010, p.46-7 :” Thomas Mann … negli ultimi anni della sua esistenza ha raccolto i saggi che ha scritto sui libri dei maestri che sono diventati suoi amici e compagni… Il titolo della raccolta è Nobiltà dello spirito.  E’ il 1945. Raramente un titolo sarà stato tanto amaro. Da allora non abbiamo più sentito parlare né letto del concetto di nobiltà di spirito. Quest’espressione è fuori luogo nella nostra società, e l’ideale stesso cui allude è ormai perduto”.

[7] T.MANN, Doctor Faustus,  Milano 1968, p.525 : “ Purtroppo ormai tutto finiva nella politica e non esisteva più alcuna purezza spirituale”.

[8] R.RIEMEN, op.cit.,p.54-5 : “ La libertà è in primo luogo libertà interiore e spirituale, non politica. La felicità umana è una questione metafisica e religiosa, non un problema sociale; l’etica individuale è più importante delle istituzioni sociali.

    A suo parere tale tradizione sarebbe minacciata dagli Zivilisationsliteraten (letterati della civiltà) con la loro  <politicizzazione dello spirito>. Essi proclamano che la felicità è interamente frutto dell’ideologia politica e delle istituzioni sociali. La felicità degli uomini non è quindi una questione metafisica o religiosa, ma un problema politico. Essi credono nell’ordine sociale perfetto e nell’uomo perfetto. E proprio questo concetto suscitava in Thomas Mann la più grande ripugnanza, perché esso significava di fatto il disconoscimento di ciò che egli considerava l’essenza dell’esistenza: la morte; la finitezza umana, l’uomo come essere che alberga domande che restano senza risposta”.

[9] Op.cit., p.59 : “ Ciò che covava è divampato a causa della rivoluzione del ventesimo secolo: l’eternità viene definitivamente detronizzata. Anche questo era stato previsto. Da Nietzsche, da Dostoevskij, da Baudelaire che già nel 1863… osserva : <la modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente>. Questa nuova concezione del tempo viene rafforzata dagli sviluppi tecnologici, e così la società occidentale finisce per attribuire superiorità alla novità, alla velocità e al progresso. La storia viene scomunicata… Le tradizioni non contano; l’eternità e la trascendenza non vengono più riconosciute… Il valore e la misura, ciò che è duraturo nel mondo transitorio, scompaiono. Al loro posto c’è il nichilismo, il culto della vacuità. La verità… non è più l’ideale cui la realtà deve tendere”.

[10] Op.cit., p.72 : “ La verità deve tornare a essere il metro assoluto con cui misurare la nostra dignità di esseri umani”.

[11] Op.cit., p.73.

[12] Op.cit., p.73

[13] Op.cit., p.78.

[14] Op.cit.  p.84 : “ La lettura dei racconti di  Cechov conferma la sua profonda convinzione che nessun essere umano è in grado di offrire <la verità salvifica>. Neanche l’arte può salvare l’umanità… L’arte non può essere una forza, ma una consolazione”.

[15] Op.cit., p.117 : “ Non può esservi civiltà senza la consapevolezza della duplice natura dell’uomo. Ha un’esistenza fisica, terrena, ma si differenzia dagli animali perché è anche un essere spirituale: conosce il mondo delle idee. Questa creatura conosce la verità, la bontà e la bellezza, conosce l’essenza della libertà e della giustizia, dell’amore e della compassione. Alla base di ogni forma di civiltà c’è l’idea che l’uomo deve la sua dignità e la sua vera identità non a ciò che è – carne e sangue- ma a ciò che deve essere; il portatore di queste immutabili caratteristiche vitali, i valori che costituiscono la parte migliore dell'esistenza umana”

[16] Op.cit., p.120.

[17] Op.cit., p.131.

[18] Op.cit., p.132.

[19] Op.cit., p. 132: “ L'uomo è in grado di creare i propri valori in maniera del tutto autonoma? Questo è il problema? . A tale domanda Camus dava risposta negativa diversamente da quanto pensavano gli intellettuali alla moda della sua epoca.”

[20] Op.cit., p.132.

[21] Op.cit., p.140-1: “ L'uomo non è più un esser spirituale che si pone domande senza risposta. La domanda sul senso della vita viene sostituita dal fine. Il fine è la felicità e la politica lo realizzerà... Chi tiene alla civiltà e alla vita intellettuale non può che guardare con sgomento alla storia europea del ventesimo secolo. In quanti lo hanno fatto? Quanti letterati, scrittori, poeti, artisti e scienziati hanno messo da parte con noncuranza il vivere civile per schierarsi con il trionfo della menzogna, con la dittatura e la violenza... Perché questo tradimento della nobiltà dello spirito?

La seduzione del potere è una delle ragioni principali. Esercitare finalmente influenza, essere ascoltati, meglio ancora se ammirati. Niente dà più dipendenza del potere e ella fama. E per mantenere questo status, per continuare a essere un ideologo di partito, o un leader dell'opinione pubblica... occorre adeguarsi continuamente. Se c'è un luogo dove regna il conformismo, è tra gli intellettuali politicizzati”.

[22] PLATONE, La Repubblica, Milano 1981, 1. VI, 493 b, p.217.

[23] G.LEOPARDI, Zibaldone, Roma 2007, p.48: “ Così era più ordinariamente presso gli antichi, appo i quali la fermezza e la costanza e la forza e la magnanimità erano virtù molto più ordinarie che tra i moderni”.

[24] Op.cit., p.58.

[25] Op.cit., p.219: “ L'uomo forte ma nel tempo stesso magnanimo, deriva senza sforzo e naturalmente dal sentimento della sua forza un sentimento di compassione per l' altrui debolezza, e quindi anche una certa inclinazione ad amare, e una certa facoltà di sentire l'amabilità, trovare amabile un oggetto, maggiore che gli altri. Ed egli suol sempre soffrire con pazienza dai deboli, piuttosto che soverchiarli, ancorché giustamente”.

[26] ARISTOTELE, Retorica, Bari 1973, II, 1938 a-b, p.97-8: “ I giovani vivono la maggior parte del tempo nella speranza; infatti la speranza è relativa all'avvenire; così come il ricordo è relativo al passato; e per i giovani l'avvenire è lungo e il passato è breve; infatti all'inizio del mattino non v'è nulla della giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto... Essi non sono di cattivo carattere, ma di buon carattere, perché non hanno ancora visto la malvagità; e così sono facili a convincersi perché non sono stati ingannati molte volte... sono riscaldati dalla natura anche per il fatto che non hanno subito molti insuccessi... e sono magnanimi; perché non sono stati ancora umiliati dalla vita, anzi sono inesperti della ineluttabilità”.

[27] Op.cit., p.99-100.

[28] ARISTOTELE, Etica Eudemia, Bari 1973,. VII, 2, 1237 b- 1238 a, p.158.

[29] ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Bari 1973 , I, 1094 b- 1095 a, p.5: “ (il giovane) essendo incline alle passioni, ascolterà invano e inutilmente, poiché lo scopo della politica non è la teoria ma l'azione. Non v'è alcuna differenza s'egli è giovane d'età oppure di carattere; poiché questa mancanza non dipende dal tempo, ma dal vivere seguendo le passioni e dal seguire ciascuna di esse”.

[30] NIETZSCHE, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, Milano 1974, p.65: “ a noi, cui è da riferire la profezia di Esiodo, che un giorno gli uomini nasceranno subito coi capelli grigi... La cultura storica è anche realmente una specie di innata canizie, e coloro che ne portano in sé il segno sin dall'infanzia devono ben giungere all'istintiva credenza della vecchiaia dell'umanità”.

[31] ARISTOTELE, Grande Etica, Bari 1973, II, 15-16, 1213 a. p.86.

[32] ARISTOTELE,Etica Nicomachea, op. cit., iv, 3, 1123 b, p.88-9 : “ La magnanimità, come esprime il nome stesso, riguarda cose grandi: e anzitutto esaminiamo quali esse siano. Non v'è poi alcuna differenza se noi esaminiamo la disposizione d'animo o chi agisce secondo questa disposizione”.

[33] Op.cit., p.89.

[34] Op.cit., p.89.

[35] Op.cit., p.89.

[36] Op.cit., p.89.

[37] Op.cit., IV, 3, 1124 a, p.90.

[38] Op.cit., IV, 3, 1123 b, p.89: “ Se dunque il magnanimo si ritiene degno di grandi cose, e soprattutto delle cose più grandi, egli si dovrebbe mostrar tale soprattutto riguardo una cosa. L'esser degno infatti si attribuisce ai beni esterni e possiamo considerare il più grande di essi quello che si attribuisce agli dei e a cui soprattutto aspirano le persone altolocate e che è anche il premio per le più belle azioni: tale è l'onore, il quale è infatti il più grande dei beni esteriori”.

[39] Op.cit., IV, 3, 1124 a, p.90.

[40] Op.cit., p.91.

[41] Op.cit., p.91.

[42] Op.cit., IV, 3, 1124 b, p.91: “ Ed è capace di beneficare, ma si vergogna se è beneficato: il beneficare infatti è proprio di chi è superiore, l'esser beneficati di chi è inferiore. E desidera ricambiare i benefici ricevuti con altri maggiori”.

[43] Op.cit., p.92.

[44] Op.cit., IV, 3, 1124 b, p.92 : “ E' necessario poi che egli manifesti apertamente sia le sue inimicizie sia le sue amicizie: infatti il dissimulare è proprio di chi ha paura. E deve preoccuparsi più della verità che dell'opinione, e parlare e agire apertamente. Egli infatti parla liberamente, non avendo riguardo di nessuno. Perciò è anche veritiero, eccetto in ciò che dice per ironia: e con i più egli è ironico”.

[45] Op.cit., IV, 3, 1125 a, p.92-3: “ Ed è proprio del magnanimo anche il non poter vivere familiarmente con altri se non con chi è amico; il far diversamente è infatti cosa servile, e per questo tutti gli adulatori sono come i mercenari e i miserabili sono adulatori. Né il magnanimo è propenso all'ammirazione: nulla infatti è grande per lui. Né è propenso al rancore: infatti non è da magnanimo lo starsi a ricordare, soprattutto poi il ricordarsi dei mali, bensì piuttosto il sorvolare su di essi. Né è pettegolo: egli infatti né parla di sé né di altri, non importandogli né di essere lodato, né che gli altri siano biasimati, né a sua volta è propenso al lodare: perciò non è maldicente neppure dei nemici, se non di fronte a un insulto. E nelle cose inevitabili e di poca importanza minimamente è propenso ai lamenti e alle suppliche, poiché il comportarsi così in tali cose è proprio di chi si affanna per esse. Ed è disposto a possedere piuttosto le cose belle e infruttuose di quelle fruttuose e utili: ciò infatti è più conveniente a un uomo indipendente. L'incedere del magnanimo poi appare lento, la voce grave e l'elocuzione calma: infatti non è frettoloso chi si affanna per poche cose; né concitato chi ritiene che nulla sia grande. E l'alzar la voce e il precipitarsi derivano appunto da tali cose”.

[46] Op.cit.,p.93 : “ Tale è dunque il magnanimo; chi poi difetta in ciò pecca di piccineria d'animo, chi eccede di superbia. Costoro, neppur essi, sembrano essere cattivi, in quanto non fanno del male, tuttavia errano. Il pusillanime, pur essendo degno di grandi cose, si priva di ciò di cui è degno, e sembra che il suo male consista appunto nel non ritenersi degno dei beni e nel non conoscere se stesso: se si conoscesse, infatti, aspirerebbe alle cose di cui è degno, trattandosi di beni. Tali uomini invero non sembrano essere insensati, ma piuttosto dei timidi. E una tale opinione di sé rende anche peggiori: mentre infatti ognuno aspira a ciò di cui è degno, costoro si tengono lontani dalle azioni belle e dagli affari, come se ne fossero indegni e parimenti anche dei beni esteriori. I superbi invece sono stolti e non conoscono se stessi: ciò è evidente: essi infatti intraprendono azioni onorevoli come se ne fossero degni, e ne risultano scornati. E si adornano nel vestito e nella persona e in siffatte cose, e vogliono che le loro fortune siano note a tutti, e parlano di esse, come se per esse ne dovessero venir onorati. Alla magnanimità però si contrappone di più la piccineria di animo che non la superbia: essa infatti è più comune e peggiore”.

[47] ARISTOTELE, Grande etica, Bari 1973, II, 15-16, 1213 a-b, p.86: “ Poiché dunque il conoscere se stessi è tanto la cosa più difficile, come hanno detto anche alcuni sapienti, quanto quella più piacevole”.

[48] SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano 1989, p.1486: “ Uscita dalla notte dell'incoscienza per aprirsi alla vita, la volontà si ritrova, come individuo, in un mondo senza fine e senza confini, tra innumerevoli individui, tutti pieni di aspirazioni, di sofferenze e di errori, e, come se stesse attraversando un brutto sogno, cerca di ritornare in fretta all'antica incoscienza”.

[49] Op.cit., p.1486.

[50] Op.cit., p.1486: “ Si consideri poi che cosa, di regola, l'uomo ricava da questo genere di soddisfazione: non è normalmente niente di più che la mera conservazione di questa esistenza, ottenuta giorno per giorno nella lotta contro il bisogno, al prezzo di incessanti fatiche, di continue preoccupazioni e con la prospettiva della morte. Tutto nella vita rivela che la felicità terrena è destinata ad essere annientata o ad essere riconosciuta come un'illusione... La vita si presenta come un eterno inganno, nel piccolo come nel grande. Quando promette, non mantiene la promessa, se non per mostrare com'era poco desiderabile ciò che si era desiderato: siamo dunque sempre ingannati, ora dalla speranza ora da ciò che si era sperato”.

[51] Op.cit. p. 1487.

[52] Op.cit., p.1487: “ La vita, con le sue piccole, grandi e grandissime avversità di ogni ora, di ogni giorno, di ogni settimana e di ogni anno, con le sue speranze deluse e con i suoi imprevisti che rendono vano qualsiasi calcolo, porta così chiaramente impresso su di sé il marchio di un qualcosa destinato a rovinarci, che è difficile capire come abbiamo potuto lasciarci ingannare e persuadere che essa ci è stata data, affinché la godiamo con gratitudine, e che l'uomo esiste per essere felice”.

[53] Op.cit., p.1487.

[54] Op.cit., p.1488: “ è il tempo che emette la sentenza della natura su tutti gli esseri che si manifestano in essa, in quanto è il tempo che distrugge questi esseri... La vecchiaia e la morte, verso le quali ogni vita necessariamente si muove, costituiscono quindi la condanna che, per propria mano, la natura stessa emette contro la volontà di vivere e secondo la quale tale volontà è un'aspirazione che deve auto annientarsi”.

[55] Op.cit., p.1489.

[56] Op.cit., p.1489-90.

[57] Op.cit., p.1491.

[58] Op.cit., p.1493.

[59] Op.cit., p.1493.

[60] Op.cit., p.1503: “ il tratto fondamentale... dell'intera filosofia di Rousseau è questo, che egli, al posto della dottrina cristiana del peccato originale e dell'originaria corruzione del genere umano, pone in quest'ultimo una bontà originaria e una illimitata perfettibilità, che solo la civiltà e le sue conseguenze avrebbero fuorviato: ecco la base sulla quale egli fonda il suo ottimismo e il suo umanitarismo”.

[61] Op.cit., p. 1493: “ In tutti i casi che non rientrano nell'ambito delle leggi, si manifesta subito la spietatezza dell'uomo verso i suoi simili, dovuta al suo illimitato egoismo e talvolta anche alla sua malvagità. Come l'uomo tratta il prossimo, lo rivela ad esempio, la schiavitù dei negri, della quale zucchero e caffè sono lo scopo finale”.

[62] Op.cit., p.1493: “ circostanze insignificanti possono renderci completamente infelici, mentre niente al mondo può darci la piena felicità”.

[63] Op.cit., p.1494.

[64] Op.cit., p.1502: “ L'ottimismo è in fondo, la lode ingiustificata che il vero creatore del mondo, ossia la volontà di vivere, accorda a se stesso, specchiandosi compiaciuto nella propria opera: è pertanto una teoria, non solo falsa, bensì anche dannosa. L'ottimismo ci presenta infatti la vita, come una condizione desiderabile, e la felicità dell'uomo, quale fine di essa. Partendo da questo presupposto, ognuno crede di avere senz'altro diritto alla felicità e al piacere: se poi come accade solitamente, non li ottiene, crede allora che gli sia stato fatto un torto, anzi ritiene di aver mancato lo scopo della propria esistenza”.

[65] Op.cit., p.1497-8: “ E a questo mondo, a questa arena di creature tormentate e angosciate, che esistono solo a condizione di divorarsi a vicenda, dove perciò ogni animale da preda è la tomba vivente di migliaia di altri e deve la sua sopravvivenza ad una catena di supplizi, dove con la conoscenza aumenta poi la facoltà di provare dolore, facoltà che quindi raggiunge nell'uomo il suo grado più alto, tanto più alto quanto più l'uomo è intelligente, a questo mondo dicevo, si è voluto applicare il sistema dell'ottimismo e dimostrare che esso è il migliore dei mondi possibili. L'assurdità è clamorosa. Ciò nondimeno l'ottimista mi dirà di aprire gli occhi e di guardare com'è bello il mondo, quando è illuminato dal sole, con le sue montagne, le sue vallate, i suoi fiumi, le sue piante, i suoi animali e così via... Da vedere, queste cose sono indubbiamente belle, ma essere tali cose è tutto un altro discorso... quando si arriva a considerare i risultati dell'opera tanto elogiata, quando si osservano gli attori, che recitano su questa scena, costruita per durare tanto a lungo, e si vede come il dolore fa la sua comparsa insieme con la sensibilità e aumenta a misura che quest'ultima si sviluppa fino a diventare intelligenza, come poi, andando al passo con l'intelligenza, avidità e sofferenze si accentuano sempre di più e crescono al punto che alla fine, nell’uomo, la vita non offre altro materiale, se non quello per tragedie e commedie; allora, chi non è ipocrita, sarà difficilmente disposto ad intonare degli alleluia”.

[66] Op.cit., p.1495.

[67] Op.cit., p.1504-5: “ I greci... erano tuttavia profondamente consapevoli della miseria dell'esistenza... Platone fa dire al più saggio dei mortali che la morte, perfino se ci strappasse per sempre la coscienza, sarebbe comunque un guadagno meraviglioso, dal momento che un sonno profondo, senza sogni, è preferibile a qualsiasi giorno della vita, anche della più felice.

    Una massima di Eraclito diceva:

Vitae nomen quidem est vita, opus autem mors

Famoso è il bel verso di Teognide:

Optima sors homini natum non esse...

   Sofocle, nell'Edipo a Colono ne ha dato la seguente abbreviazione:

    Natum non esse sortes vincit alias omnes: proxima autem est, ubi qui in lucem editus fuerit,

     eodem redire, unde venit, quam ocissime”.

[68] Op.cit., p.1506-7: “ infine Byron:

Enumera le gioie che le tue ore hanno veduto;

Enumera i tuoi giorni, liberi dall'angoscia,

E sappi, che qualsiasi cosa tu sia stato.

Sarebbe stato meglio non essere...

   Ma nessuno ha trattato così a fondo e così esaurientemente questo soggetto come, ai giorni nostri, Leopardi. Egli ne è tutto pervaso e compenetrato. Il suo tema è ovunque la beffa e la miseria di quest'esistenza, da lui rappresentate, in ogni pagina delle sue opere, con una tale varietà di forme e di espressioni, con una tale ricchezza di immagini, che esso non viene mai a noia, ma è invece sempre interessante e commovente”.

[69] Op.cit., p.1543: “ Non soltanto le religioni orientali, infatti, ma anche il vero cristianesimo ha proprio quel carattere ascetico, che la mia filosofia spiega come negazione della volontà di vivere, quantunque il protestantesimo, soprattutto nella sua forma attuale, cerchi di nasconderlo”.

[70] Op.cit., p.1555.

[71] Op.cit., p.1555.

[72] Op.cit., p.1556.

[73] Op.cit., p.1560: “ Quella grande verità fondamentale, presente sia nel cristianesimo, sia nel brahmanismo e nel buddhismo, e cioè il bisogno di essere redenti da un'esistenza condannata al dolore e alla morte, insieme con la possibilità di soddisfare tale bisogno mediante la negazione della volontà, e quindi mediante una decisa opposizione alla natura, è la verità incomparabilmente più alta che possa esistere, ma è anche, al tempo stesso, assolutamente contraria alla tendenza naturale del genere umano e difficile da afferrare nei suoi principi... La verità ha dovuto perciò assumere ovunque le vesti della fiaba... Ciò che, sensu proprio, resterebbe inaccessibile alla gran massa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, visti i suoi sentimenti volgari, la sua ottusità intellettuale e, in generale, la sua brutalità, le deve essere presentato, a scopo pratico, sensu allegorico, affinché divenga la sua stella polare”.

[74] Op.cit., p.1561.

[75] Op.cit, p.1569.

[76] Op.cit., p.1570: “ E' meglio la tristezza del riso: la tristezza infatti rende migliore il cuore (Ecclesiaste, 7,3)”.

[77] Op.cit., p.1573: “ Ma il destino e il corso delle cose curano i nostri interessi meglio di quanto facciamo noi, giacché sventano ovunque i nostri progetti per una vita di cuccagna, la follia dei quali è già facilmente riconoscibile, se si pensa alla brevità della vita, alla sua inconsistenza, alla sua vanità e al suo amaro concludersi con la morte”.

[78] Op.cit., p.1573.

[79] Op.cit., p.1573.

[80] Op.cit., p.1573-4 : “ Chi è vecchio, pensi a tutti coloro con i quali ha avuto a che fare: quante persone anche solo realmente e sinceramente oneste ha incontrato? Parliamoci chiaro: la stragrande maggioranza di esse non era forse l'esatto contrario, nonostante l'impudenza con la quale montavano di collera al minimo sospetto di disonestà o anche soltanto di menzogna? Vile egoismo, avidità sconfinata di denaro, furbizia ipocrita non erano forse così universalmente dominanti, che la minima eccezione veniva acclamata con ammirazione? E l'amore del prossimo non va forse così raramente al di là del dono di ciò che è talmente superfluo, che non se ne può sentire la mancanza? E in queste rarissime e debolissime tracce di moralità dovrebbe forse risiedere l'intero scopo della vita? Se invece si pone tale scopo nella conversione radicale del nostro essere, che porta quei cattivi frutti di cui si è appena detto, conversione provocata dal dolore, la cosa acquista subito un altro aspetto e si trova in armonia con lo stato reale dei fatti. La vita si presenta allora come un processo di purificazione, il cui elemento purificante è il dolore. Un volta compiuto, tale processo si lascia alle spalle come scorie l'immoralità e la malvagità passate”.

[81] PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell'uomo, Brescia 1987, p.2: “ Tandem intellexisse mihi sum visus, cur felicissimum proindeque dignum omni admiratione animal sit homo, et quae sit demum illa conditio quam in universi serie sortitus sit, non brutis modo, sed astris, sed ultramondanis mentibus invidiosam. Res supra fidem et mira. Quidni? Nam et propterea magnum miraculum et admirandum profecto animal iure homo et dicitur et existimatur”.

[82] T. MANN, Nobiltà dello spirito, Milano 1997.

[83] T. MANN, Lettere, Milano 1986, p.533: “ In campo politico, invece, si può riscontrare in me (e questo, forse, è proprio dell'esser Tedesco) una maturazione molto lenta, e in realtà fu soltanto lo scoppio della guerra del 1914 — che mi scosse dalle fondamenta — a pormi violentemente a confronto con problemi per i quali non avevo sviluppato, prima, alcuna sensibilità”.

[84] Op.cit., p.114.

[85] T. MANN, Nobiltà dello spirito, op.cit., p.499 : “ se l'umanità nel suo insieme non penserà a se stessa, al suo onore, al segreto della propria dignità, sarà perduta non solo moralmente, ma anche fisicamente.

    L'ultimo mezzo secolo ha visto un regresso dell'umano, una paurosissima diminuzione di civiltà, una perdita di cultura, decenza, senso del diritto, fedeltà e fede, della più elementare fiducia, tale da incutere spavento. Due guerre mondiali, dando incentivo alla brutalità e all'avidità di guadagno, hanno abbassato di molto il livello intellettuale e morale (i due concetti formano un'unità?) favorendo un disfacimento che offre scarse garanzie contro la ricaduta in una terza guerra, la quale sarebbe la fine di tutto. Furore e angoscia, odio superstizioso, terrore panico e una sfrenata smania persecutoria dominano un'umanità cui lo spazio cosmico giunge opportuno per porvi basi strategiche, e che scimmiotta l'energia solare per produrre da essa, empiamente, armi di sterminio”.

[86] Op.cit., p.1194: “ Che età miserabile, la nostra, e quanto miserabili siamo noi, sue creature! La macchina soffoca l'anima, spirito e arte vanno in rovina, il grammofono, il cinema, la radio, il record sportivo sono al nostro barbarico ordine dl giorno, e <la nostra epoca aspira al tipo dello chauffeur, cioè a un'umanità degradata e priva di dignità>. Lo leggiamo, lo sappiamo, non possiamo negarlo, e ci vergogniamo delle nostre serate piene di bassi piaceri”.

[87] Op.cit., p.824: “ Tempi agitati come i nostri, sempre inclini a scambiare ciò che è solo dell'epoca con ciò che è eterno (per esempio il liberalismo con la libertà) e a gettar via il bambino insieme all'acqua sporca, inducono chiunque abbia in sé un più alto senso della serietà e della libertà, e non sia banderuola al vento, a riandare ai fondamenti, a riacquistarne consapevolezza e a insistere su di essi, pur nel dissenso. La critica che il secolo muove all'idea cristiana e morale... le correzioni a essa apportate in nome di un mutato senso della vita, rimangono sempre, per quanto profonde e per quanto rivoluzionarie in apparenza, moti superficiali che neppure sfiorano la cristianità culturale dell'uomo occidentale; l'essenza condizionante, determinante e impegnativa di tale cristianità è infatti una conquista ormai raggiunta, e non più peritura”.

[88] Op.cit., p.920.

[89] Op.cit., p.1618: “ l'intera vita appare come una malattia maligna, e il mondo come un manicomio”.

[90] Op.cit., p. 1575: “ è l'apice e l'adempimento del romanticismo, la sua estrema espansione artistica, l'imperialismo di un'ebbrezza di morte che conquista il mondo”.

[91] Op.cit., p.1575.

[92] Op.cit., p.10: “ L'amore... per la verità è assoluto”.

[93] Op.cit., p.1086: “ L'ammirazione è infatti la cosa migliore che abbiamo; anzi, se mi si chiedesse quale sentimento, quale dei rapporti affettivi che ci legano ai fenomeni del mondo, dell'arte e della vita, io ritenga il più bello, il più felice, il più atto a farci progredire, il più indispensabile, senza esitazione risponderei: l'ammirazione. E come potrebbe essere altrimenti? Che cosa sarebbe l'uomo, e soprattutto l'artista, senza l'ammirazione, senza l'entusiasmo?”.

[94] T.MANN, Lettere, op.cit., p.781: “ fui sempre un ammiratore, considero più necessario di ogni altro il dono di saper ammirare se vogliamo diventar qualcosa noi stessi e non so a che punto sarei se non l'avessi. Né ho riservato la mia ammirazione ai soli grandi morti, ma, dovunque potessi, l'ho tributata anche ai vivi”.

[95] P.CITATI, La civiltà letteraria europea, Milano 2005, p.1048: “ (Proust) aveva bisogno di ammirare, come ne ebbe bisogno per tutta la vita. Sapeva che l'ammirazione per un altro spirito accresce la nostra capacità di comprendere e di sentire, e ci porta in uno stato di grazia nel quale tutte le nostre facoltà sono accresciute”. Ed in T.MANN, op.cit., p.175: “ Sempre più sento che l'ammirazione è la parte migliore dell'uomo; e come nella vita individuale nulla è più naturale e più umano se non che uno ammiri nell'altro ciò che lui stesso non è, non può e non ha, così dovrebbe essere anche nella vita dei popoli. Ammirazione reciproca come sentimento-base della vita internazionale: il mondo apparirebbe ben diverso da come è oggi !”.

[96] T.MANN, Nobiltà dello spirito, op.cit., p.4'7.

[97] Op.cit., p.48 : “ il metodo di Tolstoj fu di rinnegare, non di nobilitare se stesso, e il rinnegamento di sé può essere la più vergognosa forma di menzogna”.

[98] Op.cit., p.49 : “ come fa il vecchio Tolstoj quando deplora di aver scritto Infanzia e adolescenza, l'opera più fresca del suo vigore giovanile, giudicandola brutta, insincera, letteraria, peccaminosa, o quando condanna in blocco, senza distinzioni, <tutte quelle chiacchiere letterarie di cui sono pieni i dodici volumi delle mie opere e a cui gli uomini del nostro tempo hanno attribuito un'immeritata importanza>”.

[99] Op.cit., p.48.

[100] Op.cit., p.93: “ Qualunque opinione venisse espresso e quanto più grande fosse l'autorità della persona, tanto più egli insisteva nel sottolineare un punto di vista ostile e nel replicare bruscamente”.

[101] Op.cit. p.93.

[102] Op.cit., p.94.

[103] Op.cit., p.216 : “ Goethe sapeva quanto poco valgano spirito e arte senza amore, sapeva che, privi d'amore, essi non sono nulla, e che lo spirito non può vivere a contatto con il mondo, e il mondo con lo spirito, se manchi l'amore”.

[104] Op.cit., p.98 : “ Tolleranza e pazienza sono sempre congiunte, per quanto la nostra esperienza umana ci insegna, con la mitezza, con la benevolenza verso gli uomini e verso il mondo; sono, per quel che sappiamo, un prodotto dell'amore. Ma una tolleranza senza mitezza, una tolleranza dura, che cos'è mai? E' gelida neutralità, fuori dall'umano”.

[105] Op.cit., 161.

[106] Op.cit., p.118.

[107] Op.cit., p.118 : “ L'importante è che nulla sia troppo facile. Dove manchi lo sforzo, la natura è materialità rozza, lo spirito è inconsistenza e sradicamento. Dove natura e spirito, l'uno rivolto alla nostalgica ricerca dell'altro, altamente s'incontrano, là nasce l'uomo”.

[108] Op.cit., p.161.

[109] Op.cit, p.73: “ libertà è spirito, distacco dalla natura, opposizione a essa; è umanità concepita come emancipazione dall'elemento naturale ed dai suoi vincoli, intendendo questa emancipazione come ciò che è propriamente umano e degno dell'uomo”.

[110] Op.cit., p.73.

[111] Op.cit., p.73.

[112] T.MANN, Lettere. Op.cit., p.902.

[113] T.MANN, Nobiltà dello spirito, op.cit., p.204.

[114] Op.cit., p.214.

[115] Op.cit., p.215: “ Dalle altezze della ragione...tutta la vita si mostra come una malattia maligna e il mondo come un manicomio”.

[116] Op.cit., p.215.

[117] Op.cit., p.247.

[118] Op.cit., p.251.

[119] Op.cit., p.254: “ il sentimento dell'umano bisogno di migliorarsi e completarsi, questo sentire il proprio io come un compito, come un'obbligazione morale, estetica e culturale, si oggettiva nel' eroe del romanzo autobiografico di formazione”.

[120] Op.cit., p.501: “ (la) volontà tesa a ciò che è bello, vero e buono, alla moralità, alla libertà interiore, all'arte, all'amore, alla pace, al rispetto che solo può salvare l'uomo da se stesso”.

[121] Op.cit., p.728 : “ Per ottenere successo tra gli uomini nulla è meno necessario della grandezza”.

[122] Op.cit., p.809.

[123] Op.cit., p.748: “ E' ben triste e strano che la materia ci occulti a tal punto la vista dell'eternità. La nostra immaginazione non è sufficiente o non si presta a farci vedere la realtà terrena nella luce della morte, mentre questa luce soltanto ci farebbe conoscere il suo valore”.

[124] Op.cit., p.762: “ Non vi è mezzo migliore di sfuggire al mondo che l'arte; nessun mezzo migliore d'entrare in contatto col mondo che l'arte”.

[125] Op.cit., p.533: “ solo la vita può comprendere la vita”.

[126] Op.cit., p.560: “ Dove è psicologia, là comincia anche la patologia: la linea che le divide è labile e incerta”.

[127] Op.cit., p.595: “ Chi non sa disperare non occorre che viva”.

[128] Op.cit., p.616.

[129] Op.cit., p.637.

[130] Op.cit., p.725.

[131] Op.cit., p.725.

[132] Op.cit., p.864  : “ Basta prendere a confronto Proust e le sue nouveautés , le sorprese e le squisitezze psicologiche di cui brulica la sua opera , per accorgersi del diverso accento e della diversa intonazione morale. Le scoperte, le novità e le audacie psicologiche del francese sono un puro divertimento paragonate alle terree rivelazioni di Dostoevskij, un uomo che conobbe l'inferno”.

[133] Op.cit., p.865: “ Tolstoj era sostanzialmente simile a Goethe, a onta di tutte le sue velleità cristiane. < Non ho nulla da nascondere davanti agli uomini> era solito dire. <Sappiano pure tutto quel che faccio!>. Si confrontino con questo le confessioni dell'eroe di Memorie del sottosuolo, là dove egli parla delle proprie segrete dissolutezze. <Già allora> dice <portavo in me l'amore per la segretezza. Avevo una paura terribile che mi si potesse vedere, incontrare, riconoscere>. Sulla sua vita che non sopportava l'estrema sincerità, l'estremo abbandono dinanzi agli occhi del mondo, domina il segreto dell'inferno”.

[134] Op.cit., p.877.

[135] Op.cit., p.869.

[136] Op.cit., p.879.

[137] Op.cit., p.1235. Ed ancora alla p.906-7: “ la conoscenza del bene non solo non è un motivo per negare l'arte ma, all'opposto è la ragione per affermarla. L'arte è il simbolo più bello, più severo, più sereno e più pio di ogni umana aspirazione super-razionale verso il bene, la verità e la perfezione”.

[138] Op.cit., p.1131: “ Interiorità, profonda concentrazione in se stessi e introspezione nazionale: ecco di che cosa abbiamo bisogno”.

[139] Op.cit., p.1090: “ accanto alla più alta idealità il realismo più alto, lo specchio terribile della vita”.

[140] Op.cit., p.1099: “ Ma l'adorazione del fatto compiuto non è certo un atteggiamento molto coraggioso nei confronti della storia”.

[141] Op.cit., p.1382: “ La malattia come strumento di conoscenza”.

[142] Op.cit., p.1289.

[143] Op.cit., p.1521: “ l'uomo stesso è un mistero, e ogni umanità è fondata sul rispetto del mistero umano”.

[144] Op.cit., p.1513: “ Non poter mai finire ti rende grande”.

[145] Op.cit., p.1337. Ed ancora in T.MANN Lettere, op.cit., p.951: “ in fondo sussiste pur sempre l'interrogativo sulla causa prima della natura e della vita, di tutta quest'immane istituzione cosmica. Nessun uomo al mondo saprà mai rispondervi. Noi viviamo e moriamo tutti nell'enigma, e la sensibilità che ne abbiamo si può, volendo, definire religiosa. E' una parola un po' impegnativa, ma la coscienza del nostro sconsolato non-sapere assomiglia senz'altro a una certa religiosità”.

[146] Op.cit., p.1357: “ attraverso Nietzsche, dicevo, le tendenze antirazionali dell'Ottocento si prolungano fino al presente, anche se, nei casi peggiori, ciò avviene non tanto passando attraverso lui, quanto scavalcandolo”.

[147] 0p.cit., p.1334 : “ Per tutta la vita egli ha imprecato contro l'<uomo teoretico>, ma egli stesso è quest'uomo teoretico par excellence e al cento per cento : il suo pensiero è genialità assoluta, non pragmatica fino all'estremo, priva di ogni responsabilità pedagogica, profondamente apolitica, è un pensiero privo di qualsiasi rapporto con la vita, quella vita tanto amata, difesa, esaltata sopra ogni cosa. Nietzsche non si è mai curato di prevedere come la sue teorie avrebbero potuto esplicarsi nella vita pratica, politica. E nemmeno l'hanno fatto i diecimila professori dell'irrazionale che, alla sua ombra, sono spuntati come funghi in tutta la Germania”.

[148] Op.cit., p.1283: “ si può divenire antagonisti di un pensatore e tuttavia rimanere completamente nel'orbita del suo pensiero”.

[149] In ogni esegesi smascherante il desiderio di verità viene esaltato al massimo, anche al di là della consapevolezza dei suoi fruitori.

[150] Op.cit., p.1318: “ L'<immoralismo> di Nietzsche è dunque la morale che sopprime se stessa per amore di verità. Ma che ciò rappresenti una specie di esuberanza, di soverchio rigoglio della morale, egli stesso lo accenna là dove parla di una ricchezza ereditaria di moralità, che può permettersi di sciupare molto e molto gettare dalla finestra senza diventare tuttavia troppo povera”.

[151] Op.cit., p.1353.

[152] Op. cit., p.1317: “ La vita di Nietzsche fu ebbrezza e dolore: una situazione psichica spiccatamente artistica, il connubio, per esprimersi in termini mitologici, di Dioniso con il Crocifisso. Agitando il tirso egli ha esaltato estaticamente la vita forte e bella, trionfante, ignara di moralità, e l'ha difesa contro ogni immiserimento da parte dello spirito; e nello stesso tempo ha reso omaggio al dolore come nessun altro. <Sino a quale profondità possano soffrire gli uomini> ha detto <è un fatto che quasi ne determina la gerarchia>”.

[153] Op.cit., p.1419.

[154] Op.cit., p.1320.

[155] Op.cit., p. 1320: “ se si considera come nella maggior parte degli uomini la volontà, l'istinto, l'interesse dominino e assoggettino completamente l'intelletto, la ragione, il sentimento del giusto, allora l'opinione che si debba superare l'intelletto con l'istinto appare qualcosa di assurdo”.

[156] Op.cit., p.1320: “ E' un atteggiamento che si può spiegare solo storicamente, come il prodotto di una situazione filosofica momentanea, come il correttivo di una saturazione razionalistica”.

[157] Op.cit., p.1320: “ Come se esistesse il minimo pericolo che la vita possa diventare troppo spirituale!”.

[158] Op.cit., p.1320-1.

[159] Op.cit., p.1321.

[160] Op.cit., p.1322.

[161] Op.cit., p.1322.

[162] Op.cit., p.1575.

[163] T.MANN, Lettere, op.cit., p.550.

[164] T.MANN, Nobiltà dello spirito, op.cit., p.1626: “ L'arte non minaccia la vita con gelido pugno demoniaco, poiché essa è creata per dare alla vita la vita dello spirito. Essa è alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà, affine alla saggezza e ancor più vicina all'amore. Volentieri essa induce gli uomini al riso, ma ciò che suscita in loro non è mai una risata di scherno, bensì una letizia in cui l'odio e la stupidità si dissolvono, una letizia che libera e che ricongiunge. Nata ogni giorno di nuovo dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento. Essa è l'ultima a nutrire illusioni riguardo alla propria influenza sul destino umano. Spregiatrice di ciò che è cattivo, non è mai stata in grado di arrestare la vittoria del male; sempre tesa ad attribuire un senso, non ha mai impedito le più sanguinose insensatezze. Essa non è una forza, è soltanto una consolazione e tuttavia, gioco profondissimamente serio, paradigma di ogni aspirazione al compimento, essa è stata data come compagna all'umanità sin dall'inizio, e mai quest'ultima potrà distogliere del tutto dall'innocenza dell'arte il proprio occhio ottenebrato dalla colpa”.

[165] Op.cit., p.1576: “ se altresì è lecito intendere per<amore della virtù> la purezza contemplativa, la volontà di assoluto, il disgusto per la concessione e la corruzione, un perseverare — ironico o solenne nell'accusa e nel giudizio — nei valori della libertà, della giustizia, della ragione, della bontà e dignità umane, allora in questa definizione... è espressa nella forma più sintetica la disposizione letteraria”.

[166] Op.cit., p.1596: “ Se l'arte è un possesso imperituro dell'umanità, non potrà mai essere del tutto peritura l'idea... di un'educazione estetica del genere umano”.

[167] Op.cit., p.1580.

[168] T.MANN, Lettere, op.cit., p.418: “ Inoculare nei giovani questa sensibilità e, con essa, quel senso della dignità che è andato perduto, sarebbe certo il primo e l'ultimo compito dell'educazione”.

[169] T.MANN, Nobiltà dello spirito, op.cit., p.1579: “ la parola che qui appartiene a tutti e tuttavia egli solo sa maneggiare in modo splendido e sovrano. La parola è il suo primo stupore, il suo più precoce piacere, il suo orgoglio infantile, l'oggetto dei suoi esercizi segreti e da nessuno lodati, l'origine della sua vaga e curiosa superiorità”.

[170] Op.cit., p. 1578: “ Non è assolutamente vero che nel mondo si crede a ciò che è detto bene: al contrario, il borghese crede soltanto a una serietà priva di forma, a una morale rozza e grigia; una virtù dotata di senso del bello pare a lui una depravata spudoratezza, e l'irremovibilità della sua convinzione gli dà ragione”.

[171] 0p.cit., p.1578.

[172] Op.cit., p.1420: “ Alla realtà piace che le si parli con frasi sciatte; ogni artistica precisione nel definirla le procura altrettanto veleno. Eppure il vero amante della parola preferirà inimicarsi un mondo che sacrificare una sola sfumatura”.

[173] Op.cit., p.1421: “ quando parlo di libertà mi riferisco a quell'indipendenza, autonomia e solitudine interiore che è il presupposto di ogni nuova originale creazione. Essa non esclude affatto una cordiale fraternità umana: ma in essa risiede la dignità e la nobiltà dell'artista, e nulla possono su di essa i rispetti umani e i riguardi sociali”.

[174] T.MANN, Lettere, op.cit. p.359.

[175] Op.cit., p.624: “ nessuno mi libererà mai dal dolore e dalla vergogna ispiratimi dall'atroce fallimento, privo di cuore e di cervello, degli intellettuali tedeschi di fronte alla prova cui furono sottoposti nel 1933”.

[176] Op.cit., p.886-7: “ Ho sin troppo chiara coscienza della mia inettitudine sociale, la quale forse si è rivelata in ben strana misura, grazie anche all'intensità delle impressioni che in quella città grandiosa assalivano la mia sensibilità. Piazze,chiese, fontane, obelischi, colonnati, e poi il sovrapporsi e l'accostarsi dei secoli, delle età classiche e dei primi e dei successivi tempi cristiani: una profusione di opere d'arte mistiche e sensuali, nate dalla religiosità e dalla genialità, - tutto io accolsi in me stesso al pari di un sogno, sogno di grandezza, ed ancor oggi esso opera e vive dentro di me come un sogno intenso che penetra a fondo nell'animo. Il non credente ed erede della cultura protestante piegò senza alcuna difficoltà interiore il ginocchio davanti a Pio XII e baciò l'anello del Pescatore, poiché non era a un uomo e a un uomo politico che mi genuflettevo, bensì a un idolo candido, che circondato dal più austero cerimoniale sacro e aulico, impersonava con mitezza un poco sofferente due millenni di storia occidentale”.

[177] Op.cit., p.902: “ Se esamino me stesso il risultato oltremodo banale è che credo nel bene e nello spirito, in ciò che è vero, libero, audace, bello e giusto, in una parola credo nella sovrana serenità dell'arte, che è più alto mezzo di liberazione dall'odio e dalla stoltezza”.

[178] Op.cit., p.'781: “ fui sempre un ammiratore, considero più necessario di ogni altro il dono di saper ammirare se vogliamo diventar qualcosa noi stessi e non so a che punto sarei se non l'avessi. Né ho riservato la mia ammirazione ai soli grandi morti, ma, dovunque potessi, l'ho tributata anche ai vivi”.

[179] Op.cit., p.669 : “ vederlo adesso sottoposto allo stretto metodo psicanalitico non è ugualmente di mio gusto, non perché questo metodo mi sembri privo di pietas, benché certo il vocabolario analitico sia in contraddizione crassa e spesso comica con l'ammirazione, ma perché non posso fare a meno di sentire alquanto angusto e dottrinario questo punto di vista. Una tale critica mi ricorda certe considerazioni strettamente comuniste su fatti spirituali e poetici. Non vorrei veder applicata la psicologia del profondo, come unica dottrina di salvezza, a tutti i grandi fenomeni della letteratura”.

[180] Op.cit. , p.902.

[181] T.MANN, Nobiltà dello spirito, op.cit., p.1584: “ Il suo senso della bellezza, la sua sensibilità nei confronti di ciò che è volgare, ridicolo e indegno lo porta ad annullare tutte le passioni più basse”.

[182] Op.cit., p.1584 : “la sua conoscenza del cuore umano, la sua consapevolezza dell’ambiguità e della profonda ingiudicabilità delle azioni umane fanno sì che egli comprenda  e perdoni, lo conducono alla bontà”.

[183] J.HUIZINGA, La crisi della civiltà, Torino 1962 , p.3: “Vediamo distintamente come quasi tutte le cose, che altra volta ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare. Verità e umanità, ragione e diritto”.

[184] Op.cit., p.4: “Se si vuole che questa civiltà si salvi, che non decada a secoli di barbarie, ma anzi, salvando i supremi valori che sono il suo retaggio, trovi la via per giungere a nuova saldezza, è necessario che gli uomini d’oggi si rendano esatto conto di quanto sia già progredita la dissoluzione che li minaccia”.

[185] Op.cit., p.17 : “Qual si sia il contributo che l’orientazione storica possa fornire alla comprensione della crisi attuale, essa non è in grado di rassicurarci intorno al suo sbocco. Da nessun parallelo storico possiamo dedurre la conclusione che tant’oltre non si arriverà”.

[186] Op.cit., p.17.

[187] Op.cit., p.17-8 : “In ciò sta ancora un’importante differenza tra l’oggi e i passati periodi di crisi violenta. Quelli credettero sempre di conoscere con chiara e semplice determinatezza la meta da raggiungere e i mezzi acconci per arrivarvi. La meta per essi… era quasi sempre una restaurazione, un ritorno alla perfezione o alla purezza antica”.

[188] Op.cit., p.18.

[189] 0p.cit., p.48: “ oggi si ha tutte le ragioni di parlare di un indebolimento della passione critica, di un intorbidimento del potere critico, di un tramonto del bisogno di verità”.

[190] 0p.cit., p.63: “ Il prammatismo tolse al concetto di verità il suo valore assoluto e intero, trasportandolo nel letto di un fiume temporaneo e contingente... Uno spirito male sgrossato poteva facilmente dedurne: la tal cosa giova, dunque è vera”.

[191] 0p,cit., p.62: “ ecco il momento centrale della crisi odierna.: il conflitto tra sapere ed essere”.

[192] 0p.cit., p.63: “ Nel concetto della verità abbassato a valore relativo era incluso una specie di egualitarismo spirituale e morale, una soppressione di differenze di rango e di valore tra le idee”.

[193] P.CITATI, La civiltà letteraria europea, Milano 2005, p.311

[194] In tal senso paradigmatica è l'impostazione platonica.

[195] Op.cit.., p.428.

[196] 0p.cit., p.449: “ Tutto deve essere detto e insieme taciuto; rivelato e nascosto; alluso, con segni dove i paragoni terrestri cercano, e subito rinunciano, di esprimere l'inconcepibile... Per non morire il pensiero ha bisogno di misurarsi col paradosso”.

[197] 0p.cit., p.583: “ la memoria di Montaigne è una delle grandissime memorie dell'Occidente: come quelle di Dante, di Petrarca, di Shakespeare e di Goethe. Conservava in sé quasi tutta la civiltà classica, e parte di quella cristiana. Bastava una parola, un cenno, un'allusione. E subito tutte le parole e le immagini, tutta quella foresta-biblioteca fiammeggiante che portava nel suo spirito, risuscitavano dal silenzio offrendosi alla sua penna, come un immenso concerto si suoni e di voci umane”.

[198] Op.cit. , p.687.

[199] Op cit. p.1050.

[200] Come aveva ben visto S.Agostino.

[201] 0p.cit., p.867: “ Così il fuoco della nostalgia arde in lui inestinguibile: non è soltanto nostalgia dell'amore, ma di quell'infinito che non possiamo raggiungere in terra; ogni esperienza ci delude perché non può contenerlo e noi lo cerchiamo sempre più avanti e altrove”.

[202] 0p.cit., p.1178: “ La vivificazione della realtà... passa attraverso il soccorso e il sacrificio mortale dell'abitudine”.

[203] Op.cit. , p.1175.

[204] 0p.cit., p.1205: “ Una volta Proust disse che crudeli erano <le leggi della psicologia> non lui”.

[205] SPINOZA, Ethica, Firenze 1984, p. V. p.650: “ Sed omnia praeclara tam difficilia, quam rara sunt”.

Email

Altri articoli...