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ISSN 2532-8913

La natura di atto politico, immune dal sindacato giurisdizionale, del rifiuto governativo di avviare trattative finalizzate alla conclusione di intese per regolare i rapporti con confessioni religiose (di Luca Bertonazzi)

La natura di atto politico, immune dal sindacato giurisdizionale, del rifiuto governativo di avviare trattative finalizzate alla conclusione di intese per regolare rapporti con confessioni religiose
 
(di Luca Bertonazzi)

 

La Corte costituzionale, con la sentenza 10 marzo 2016, n. 52, qualifica come atto politico, in quanto tale immune dal sindacato giurisdizionale, il rifiuto governativo di avviare le trattative finalizzate alla conclusione di un’intesa, ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost., per regolare i rapporti con una confessione religiosa.

Tale conclusione si impone, ad avviso di chi scrive, in forza di una precisa ragione, che però rimane al di fuori della (pur brillante) motivazione offerta dalla Consulta: dato che il procedimento di cui all’art. 8, comma 3, Cost., considerato nella sua interezza, è ordinato al conseguimento di uno scopo – la regolazione dei rapporti tra Stato e confessione religiosa attraverso la traduzione in legge dell’intesa – la (palese) non configurabilità di una pretesa (nei confronti di Governo e Parlamento) all’esito positivo della procedura svela l’inconsistenza dell’affermazione di una pretesa (nei confronti del Governo) soltanto al suo avvio (o soltanto al suo approdo ad uno stadio intermedio, quale è la stipula dell’intesa).

Solamente se il perfezionamento dell’intesa, ferma restando la sua valenza di presupposto del successivo iter legis, si atteggiasse altresì come autonomo bene della vita, in considerazione di benefici, vantaggi e utilità implicati in virtù di puntuali opzioni di diritto positivo, risulterebbe davvero arduo continuare ad attrarre le decisioni governative in ordine all’avvio delle trattative nella successiva fase legislativa e a predicarne, per ciò solo, la natura politica. Non resterebbe, allora, che affermarne la natura intrinsecamente politica: scelte del genere, per i delicati apprezzamenti di opportunità che involgono, esprimono, istituzionalmente, una riserva di competenza a favore del Consiglio dei Ministri, che ne risponde politicamente di fronte al Parlamento.

  1. La vicenda.

Nel novembre 2003 il Consiglio dei Ministri deliberava, in coerenza con un parere dell’Avvocatura generale dello Stato, di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione di un’intesa, ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost., con l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (di seguito: UAAR), ritenendo la professione di ateismo non assimilabile ad una confessione religiosa.

L’UAAR ricorreva al TAR Lazio, che, con sentenza del dicembre 2008, dichiarava inammissibile il ricorso per difetto assoluto di giurisdizione, ascrivendo la deliberazione impugnata nel novero degli atti politici “non giustiziabili” (art. 31 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (1) e, oggi, art. 7, comma 1, ultimo periodo, del codice del processo amministrativo, approvato con d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104).

L’UAAR ricorreva in appello: la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con sentenza del novembre 2011, accoglieva l’appello e rimetteva le parti davanti al primo giudice (art. 105, comma 1, c.p.a.), ritenendo il rifiuto di avvio delle trattative espressivo bensì di discrezionalità (tecnica), ma privo di natura politica.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ricorreva, avverso tale sentenza, dinnanzi alle Sezioni unite della Corte di Cassazione ex art. 111, ultimo comma, Cost., insistendo per la qualificazione del rifiuto di avvio delle trattative alla stregua di atto politico, come tale affrancato dal sindacato giurisdizionale.

Le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con sentenza 28 giugno 2013, n. 16305 (2), respingevano il ricorso, ritenendo il rifiuto di avvio delle trattative espressivo di discrezionalità (tecnica), ma privo di natura politica, e come tale non emancipato dallo scrutinio giurisdizionale.

Con sentenza del luglio 2014, il TAR Lazio, presso il quale il giudizio era stato nel frattempo riassunto ex art. 105, comma 3, c.p.a., respingeva nel merito il ricorso dell’UAAR, escludendo che la valutazione compiuta dal Governo, in ordine al carattere non confessionale dell’associazione ricorrente, fosse “manifestamente inattendibile o implausibile, risultando viceversa coerente con il significato che, nell’accezione comune, ha la religione”.

L’UAAR ricorreva al Consiglio di Stato: il giudizio d’appello è ancora pendente.

Tuttavia, nel settembre 2014 la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sempre convinta della qualificazione del rifiuto di avviare le trattative come atto politico sottratto al sindacato giurisdizionale, sollevava, davanti alla Corte costituzionale, un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di Cassazione, in relazione alla sentenza da quest’ultima resa nel giugno 2013, a Sezioni unite (quale Giudice regolatore della giurisdizione: art. 111, ultimo comma Cost., art. 362 c.p.c., art. 110 c.p.a.).

In particolare, la Presidenza del Consiglio dei Ministri domandava alla Corte costituzionale di dichiarare che non spettava alle Sezioni unite della Corte di Cassazione affermare la sindacabilità, ad opera dei giudici comuni, del rifiuto del Governo di avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa di cui all’art. 8, comma 3, Cost.

Data l’incidenza (in termini di improcedibilità) dell’eventuale accoglimento del ricorso sulla sorte del processo amministrativo, ancora pendente innanzi al Consiglio di Stato, l’UAAR interveniva (ammissibilmente), nell’aprile 2015, nel giudizio presso la Consulta.

A seguito dell’udienza pubblica celebrata nel gennaio 2016, con sentenza 10 marzo 2016, n. 52 la Corte costituzionale accoglieva il ricorso della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dichiarando “che non spettava alla Corte di Cassazione affermare la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio dei Ministri ha negato all’UAAR l’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’art. 8, terzo comma, della Costituzione e, per l’effetto”, annullando “la sentenza della Corte di Cassazione, sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305”.

          1. Una motivazione alternativa a supporto di un dispositivo condivisibile.

Chi scrive condivide in pieno l’approdo cui è pervenuta la Consulta, ma non è persuaso fino in fondo dalla (pur brillante) motivazione offerta.

Qui di seguito si riporta, in sintesi, la ratio decidendi che chi scrive avrebbe posto a sostegno del (condivisibile) dispositivo.

Non è configurabile alcun obbligo di tradurre in legge l’intesa eventualmente stipulata con una confessione religiosa: né l’obbligo, in capo al Governo, di (esercitare il potere di) iniziativa legislativa per l’avvio dell’iter di formazione della legge che, recependo i contenuti dell’intesa, regola i rapporti tra lo Stato e la confessione religiosa; né l’obbligo, in capo al Parlamento, di approvare la legge, anche una volta che fosse stata perfezionata l’intesa e assunta, non importa se dal Governo o da altri soggetti titolati (art. 71 Cost.), l’iniziativa legislativa. Stando così le cose – e precisato che l’intesa è soltanto presupposto del procedimento legislativo – che senso ha discettare di obbligo di avviare le trattative (o di stipulare l’intesa)? La decisione di avviare o meno le trattative, così come quella di stipulare o meno l’intesa, partecipa della stessa natura di atto politico della successiva fase legislativa, risultando pertanto coinvolta la responsabilità politica, rispettivamente, del Governo (di fronte al Parlamento) e del Parlamento (di fronte al corpo elettorale).

Insensata si rivelerebbe l’imposizione (al Governo) dell’avvio delle trattative (e della stipulazione dell’intesa), se poi dell’intesa – che, si ribadisce, è soltanto presupposto del procedimento legislativo – non si assicurasse giudizialmente (come in effetti non si può assicurare giudizialmente), nei confronti di Governo e Parlamento, la traduzione in legge.

Essendo il procedimento, considerato nella sua globalità, strutturalmente e funzionalmente preordinato al conseguimento di uno scopo – nella specie, la regolazione dei rapporti tra Stato e confessione religiosa attraverso la traduzione in legge dell’intesa – è proprio la non configurabilità di una pretesa (nei confronti di Governo e Parlamento) all’esito positivo della procedura (unitariamente considerata) a mettere a nudo l’inconsistenza dell’affermazione di una pretesa (nei confronti del Governo) soltanto al suo avvio (o soltanto al suo approdo ad uno stadio intermedio).

A nulla varrebbe obiettare, con approccio sociologico, un implicito effetto di “legittimazione” in fatto, ricavabile dal solo avvio delle trattative o dalla sola stipula dell’intesa: l’interesse a ricorrere (al giudice amministrativo), empiricamente apprezzabile (anche sub specie di interesse morale) sul piano processuale, non surroga l’assenza di interesse giuridicamente rilevante sul piano sostanziale, a sua volta dipendente dalla natura di atto politico della decisione (governativa) di avviare o meno le trattative finalizzate alla stipula dell’intesa o della decisione (governativa) di stipulare o meno l’intesa, siccome decisioni (governative) che, quand’anche positive, mettono capo semplicemente al presupposto per l’avvio, del tutto eventuale, di un iter legislativo dall’esito assolutamente libero (3), del quale vengono a condividere la natura.

Si aprirebbe un varco verso orizzonti diversi solo se, per effetto di puntuali opzioni di diritto positivo, la stipula delle intese comportasse, per chi vi aspira, conseguenze variamente favorevoli sub specie di attribuzione di vantaggi, benefici, utilità (4). La stipula dell’intesa, ferma restando la sua valenza di presupposto di un procedimento legislativo assolutamente libero, diverrebbe altresì autonomo bene della vita oggetto, nel contempo, dell’aspirazione di chi ad esso anela e di un potere assegnato dalla legge al Governo (art. 2, comma 3, lett. l), della 23 agosto 1988, n. 400). In relazione ad un profilo siffatto, davvero arduo sarebbe continuare ad attrarre le decisioni (governative) in ordine all’avvio delle trattative o alla stipula dell’intesa nella successiva fase legislativa e a predicarne, per ciò solo, la natura politica.

Non rimarrebbe, allora, che (affrontare di petto il problema e) affermarne la natura intrinsecamente politica, in considerazione della “necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative”: “scelte del genere, per le ragioni che le motivano [e, quindi, per la loro intrinseca natura], non possono [istituzionalmente] costituire oggetto di sindacato da parte del giudice” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016 cit., sub 5.2 del “Considerato in diritto”) (5).

Un altro varco in direzione di differenti scenari (arg. da Corte cost., 5 aprile 2012, n. 81) (6) si dischiuderebbe altresì qualora il legislatore ordinario, nell’esercizio della sua discrezionalità, dettasse al Governo criteri e parametri – sostanziali e procedurali – per la selezione degli interlocutori con cui avviare, condurre e perfezionare trattative. “Se ciò accadesse, il rispetto di tali vincoli costituirebbe un requisito di legittimità … delle scelte governative, sindacabile nelle sedi appropriate” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016 cit., sub 5.1 del “Considerato in diritto”). Non poco problematico risulterebbe, allora, seguitare a predicare la natura politica delle decisioni governative in questione, vuoi come conseguenza della loro attrazione nel successivo iter legis, vuoi sub specie di natura intrinsecamente politica, cui farebbe velo, in effetti, l’ipotizzata regolazione della fase amministrativa di negoziazione e perfezionamento dell’intesa. Ma – realisticamente – nessuna regolazione del genere farebbe a meno di clausole generali capaci di prestarsi, a chiusura (ed estrema difesa) del sistema, a veicolare (immanenti) valutazioni di natura intrinsecamente politica, che per questa via tornerebbero a pervadere le decisioni (governative) in parola, quali ineliminabili valvole di sfogo del sistema.

          2. Osservazioni critiche sulla motivazione offerta dalla Consulta.

Non convince fino in fondo la Corte costituzionale allorché – sub 4) del “Considerato in diritto” – espelle a priori dal campo d’indagine ogni considerazione intorno al procedimento legislativo successivo all’intesa: certamente la fase legislativa (nella specie evidentemente mai avviata) era estranea all’oggetto del conflitto di attribuzioni, ma ciò non equivale (né autorizza) affatto a non tenere in conto le sue “caratteristiche” nell’ambito del ragionamento giuridico che guida verso la soluzione del caso.

Si trascura così un dato che è parso, invece, decisivo a chi scrive: insensata si rivelerebbe l’imposizione, al Governo, dell’avvio delle trattative (e della stipulazione dell’intesa), se poi dell’intesa – che è soltanto presupposto del procedimento legislativo – non si garantisse giudizialmente (come in effetti non si può garantire giudizialmente), nei confronti di Governo e Parlamento, la traduzione in legge. La manifesta assenza di una pretesa (nei confronti di Governo e Parlamento) all’esito positivo della procedura (unitariamente considerata) svuota di ogni significato e ricopre di velleità l’affermazione di una pretesa (nei confronti del Governo) soltanto al suo avvio (o soltanto al suo approdo ad un passaggio interlocutorio).

Relegata la fase legislativa al di fuori del suo percorso motivazionale, la Consulta – sub 5.2 del “Considerato in diritto” – individua tre “ragioni” a fondamento della sua decisione, le prime due di ordine “costituzionale” e la terza di ordine “istituzionale”:

  1. il “metodo bilaterale”, sotteso all’art. 8, comma 3, Cost., che “pretende una concorde volontà delle parti, non solo nel condurre e nel concludere una trattativa, ma anche, prima ancora, nell’iniziarla”;
  2. la “non configurabilità di una pretesa soggettiva alla conclusione positiva” delle trattative (e quindi alla stipulazione dell’intesa), che svuota “di significato l’affermazione di una pretesa soltanto al suo avvio”;
  3. il venire in rilievo di “determinazioni importanti, nelle quali sono già impegnate la … discrezionalità politica” del Governo “e la responsabilità che normalmente ne deriva in una forma di governo parlamentare”; “la necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative”; “scelte del genere, per le ragioni che le motivano, non possono costituire oggetto di sindacato da parte del giudice”.

Quanto all’argomento sub a), certamente il “metodo della bilateralità”, che l’art. 8, comma 3, Cost. ha esteso alle confessioni religiose non cattoliche, intende evitare che lo Stato detti unilateralmente la disciplina delle sue relazioni con le singole confessioni religiose, “sul presupposto che la stessa unilateralità possa essere fonte di discriminazione” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016, sub 5.1 del “Considerato in diritto”). Ma ciò nulla dimostra in ordine all’esistenza o meno, in capo al Governo, dell’obbligo di avviare una trattativa a fronte della richiesta in tal senso da parte di un’associazione. La struttura bilaterale del “metodo” non è affatto incompatibile, dal punto di vista logico, con eventuali obblighi di negoziare. Ad opinare diversamente, la matrice garantistica del “metodo bilaterale” finirebbe per (avvilupparsi in una singolare eterogenesi dei fini e) ritorcersi contro le associazioni che aspirano a negoziare con il Governo.

Quanto all’argomento sub b), vero è che dalla non giustiziabilità dell’aspirazione alla stipulazione dell’intesa si desume la non giustiziabilità dell’anelito all’avvio delle trattive: ma difetta la dimostrazione della bontà della premessa, semplicemente data per scontata. Né tale dimostrazione affonda le sue radici nel “metodo bilaterale”, poiché l’esperienza del diritto civile insegna che la bilateralità del negozio non è affatto incompatibile con eventuali obblighi di contrarre. Inoltre, una volta che fosse sancito, sul piano sostanziale, l’obbligo del Governo di stipulare l’intesa, non mancherebbero i rimedi processuali: il pensiero corre al ricorso giurisdizionale amministrativo contro la decisione di recedere dalle trattative o, giunte le stesse sulla soglia della sigla, contro la decisione di non perfezionare l’intesa o contro il silenzio-inadempimento inteso come omessa adozione dell’atto preliminare alla stipula dell’intesa (secondo lo schema di cui all’art. 11, comma 4-bis, della legge n. 241/90, che ben si presterebbe ad un’applicazione analogica).

Nell’argomento sub c), e in esso soltanto, risiede l’autentica ratio decidendi della sentenza, che chi scrive, come già anticipato, condivide pienamente, ma considera una motivazione per così dire di secondo livello, cui attingere solamente se, per effetto di precise opzioni di diritto positivo, la stipula dell’intesa comportasse, per gli aspiranti, l’attribuzione di vantaggi, benefici, utilità (7). Il perfezionamento dell’intesa smetterebbe d’essere soltanto il presupposto della successiva (assolutamente libera) fase legislativa e si ergerebbe ad autonomo bene della vita: diventerebbe estremamente problematico seguitare ad attrarre le decisioni (governative) in ordine all’avvio delle trattative (o alla stipula dell’intesa) nel successivo procedimento legislativo e a predicarne, per ciò solo, la natura politica.

Non rimarrebbe, allora, che (aggredire frontalmente il problema e) riconoscerne la natura intrinsecamente politica, in considerazione della “necessità di ben considerare la serie di motivi e vicende, che la realtà mutevole e imprevedibile dei rapporti politici interni ed internazionali offre copiosa, i quali possono indurre il Governo a ritenere non opportuno concedere all’associazione, che lo richiede, l’avvio delle trattative”: “scelte del genere, per le ragioni che le motivano [e, quindi, per la loro intrinseca natura], non possono [istituzionalmente] costituire oggetto di sindacato da parte del giudice” (così la stessa Corte cost., n. 52/2016 cit., sub 5.2 del “Considerato in diritto”) (8) (9).

Ma, sino a che l’intesa si atteggia solamente come presupposto del successivo iter legis, la motivazione per così dire di primo livello, a supporto del condivisibile dispositivo reso dalla Consulta, va rintracciata nella palese assenza di una pretesa, nei confronti di Governo e Parlamento, all’esito positivo della procedura di cui all’art. 8, comma 3, Cost., unitariamente considerata, che illumina l’inconsistenza dell’affermazione di una pretesa, nei confronti del Governo, soltanto all’avvio, più che mai velleitario, della procedura medesima (10).

  1. Prima ancora, art. 24 della legge 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.
  2. Su cui si veda G. DI MUCCIO, Atti politici e intese tra lo Stato e le confessioni religiose non cattoliche: brevi note a Corte di Cassazione, sez. unite civ., sentenza 28 giugno 2013, n. 16035, in www.federalismi.it, 2013.
  3. Sulla legge come atto libero nel fine, in mancanza di deputatio ad finem impressale da precetti costituzionali, è sempre attuale E. CHELI, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, 1961, 188 ss.
  4. Ma l’ipotizzato sentiero è tanto stretto da rasentare un impercettibile pertugio, giacché – secondo la costante giurisprudenza costituzionale (ribadita dalla stessa Corte cost., n. 52/2016, sub 5.1 del “Considerato in diritto”) – il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose, sul versante della libertà di organizzazione e di azione loro immediatamente garantite dai primi due commi dell’art. 8 Cost. (a mo’ di specificazione dell’art. 3 Cost.), in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato (Corte cost., 16 luglio 2002, n. 346; 27 aprile 1993, n. 195). Cfr., al riguardo, A. PIN, L’inevitabile caratura politica dei negoziati tra il Governo e le confessioni e le implicazioni per la libertà religiosa: brevi osservazioni a proposito della sentenza n. 52 del 2016, par. 2, in www.federalismi.it, 2016.
  5. Per un’ampia ricognizione, anche in chiave storica e di diritto comparato, sull’atto politico, cfr. G. TROPEA, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Dir. amm., 2012, 329 ss. Cfr. altresì le rassegne di giurisprudenza di M. DELSIGNORE, sub art. 31 r.d. n. 1054/1924, in Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, a cura di A. Romano e R. Villata, Padova, 2009, 1484 ss.; F. CORVAJA, Il sindacato giurisdizionale sugli atti politici, in AA.VV., Giudice amministrativo e diritti costituzionali, a cura di P. Bonetti, A. Cassatella, F. Cortese, A. Deffenu, A. Guazzarotti, Torino, 2012, 74 ss.
  6. “ … gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di … validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate”. Già E. GUICCIARDI, Atto politico, in Arch. dir. pubbl., 1937, 271 individuava il sostrato dell’atto politico in ragioni estranee all’ordine giuridico. Per l’affermazione dell’attitudine del legislatore ad incidere sul confine tra atti politici ed atti meramente amministrativi (benché di alta amministrazione o comunque ampiamente discrezionali), cfr. G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Atto politico e atto di governo, in Enc. giur., Roma, 1988, 2.
  7. Si è già osservato, nella precedente nota 4, quanto sia remoto un simile scenario, alla luce della giurisprudenza costituzionale costante nel ritenere che i primi due commi dell’art. 8 Cost. (nonché gli artt. 19 e 20 Cost.) precludano al legislatore di discriminare tra associazioni religiose, a seconda che abbiano o meno stipulato un’intesa, in vista dell’applicazione di normative di settore attinenti alla libertà di culto, come ribadito da ultimo da Corte cost., 24 marzo 2016, n. 63, sub 4.1 e 4.2 del “Considerato in diritto”.
  8. Qualche spunto in tal senso era già stato offerto da F.F. PAGANO, Gli atti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico nella più recente giurisprudenza tra separazione dei poteri e bilanciamenti costituzionali, in Dir. pubbl., 2013, 885-890.
  9. Già E. GUICCIARDI, Atto politico, cit., 271 sottolineava l’immanenza della categoria dell’atto politico ad ogni Stato costituzionale: mai l’atto politico, in quanto sia tale, può “per definizione” (in quanto formatosi sulla base di ragioni estranee all’ordine giuridico) essere contrario all’interesse pubblico, e quindi mai può essere invalido. Considerazioni che riecheggiano allorché la Consulta, ancora nel 2016, riconduce ad una ragione di ordine schiettamente “istituzionale” l’emancipazione degli atti politici dallo scrutinio giurisdizionale, con impostazione ben nota anche in altri sistemi “dei quali così spesso la dottrina sottolinea la diversità [rispetto al nostro] e, talora, il maggior potere dei giudici”: il riferimento è, al di là dello scontato parallelo con l’esperienza francese, alle “political questions” negli Stati Uniti d’America e alla “royal prerogative” nel Regno Unito (G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Atto politico, cit., 3). Specialmente nell’esperienza giurisprudenziale statunitense è molto avvertito il tema della riserva di certe competenze all’Esecutivo, anche se talvolta mascherato sotto la disputa, a tratti stucchevole, intorno allo standing ai fini della judicial review: cfr. M. DELSIGNORE, La legittimazione delle associazioni ambientali nel giudizio amministrativo: spunti dalla comparazione con lo standing a tutela di environmental interests nella judicial review statunitense, in Dir. proc. amm., 2013, 759-776.

Anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, si è sottolineata l’idea che certe decisioni, proprio perché politicamente controverse, possano essere più adeguatamente apprezzate dal Parlamento e dagli elettori, che non da un giudice: cfr. G. NAPOLITANO – M. ABRESCIA, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, 2009, 276.

La stessa Corte EDU, verrebbe da dire insospettabilmente, ha escluso che l’immunità dal sindacato giurisdizionale di atti politici (nella specie, atti e operazioni di guerra) violi l’art. 6 CEDU (14 dicembre 2006, n. 1398, Markovic c. Italia).

D’altra parte, disposizioni di legge sull’insindacabilità in sede giurisdizionale degli atti politici – dagli albori della giustizia amministrativa (art. 24 della legge n. 5992/1889) fino all’art. 7, comma 1, ultimo periodo, dell’odierno c.p.a., approvato con d. lgs. n. 104/2010 – hanno accompagnato tutte le stagioni degli ultimi centotrentanni di storia italiana: dalla monarchia alla repubblica; dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana; dallo Stato liberale a quello democratico, transitando per quello fascista.

Non si intende, qui, disconoscere l’insegnamento, illuminato e ben radicato, che distingue tra atti di governo ed atti amministrativo-politici, al fine di emancipare solamente i primi, nella misura in cui “previsti implicitamente od esplicitamente dalla Costituzione, in quanto indispensabili per l’esplicazione della funzione di governo”, dallo scrutinio giurisdizionale (P. BARILE, Atto di governo (e atto politico), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 225; E. CHELI, Atto politico, cit., 194), ma semplicemente evidenziarne il carattere ‘storicistico’, a riprova del quale si rammenta il radicale ripensamento, nel breve volgere di un decennio, da parte di E. GUICCIARDI, Aboliamo l’art. 31?, in Foro amm., 1947, II, 15 ss., nella cui scia si pone, in anni più recenti, V. CERULLI IRELLI, Politica e amministrazione tra atti “politici” e atti di “alta amministrazione”, in Dir. pubbl., 2009, 114-121. Le insopprimibili ragioni “istituzionali” – ben colte, ancora nel 2016, dalla Corte costituzionale – non si prestano, per la loro stessa natura, ad essere imprigionate in formule astratte e pervase dall’illusoria vocazione all’eternità. Né è ipotizzabile, in una prospettiva di bilanciamento necessario tra i vari interessi costituzionali in gioco, che uno di essi (la garanzia della tutela giurisdizionale di un individuo o di una formazione sociale) si erga a despota assoluto degli altri (tra i quali l’indirizzo politico, basato ora sulla Costituzione, ora sulla sovranità popolare), specie quando vengono in rilievo questioni politicamente incandescenti che coinvolgono la suprema direzione, l’identità e la capacità di perpetuarsi di una comunità nazionale.

10 Rimane così sullo sfondo un dato che altrimenti sarebbe ipocrita negare, e cioè la natura essenzialmente politica della decisione sul carattere politico di un atto. Non stupisce, allora, che l’ultima parola al riguardo spetti, nel nostro ordinamento, non già al Giudice regolatore della giurisdizione, bensì alla Corte costituzionale, che il Governo può adire sollevando un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, proprio nei confronti della Corte di Cassazione.

               (4 maggio 2016)

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