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ISSN 2532-8913

Aspetti processuali in ordine alla nullità dell’atto amministrativo per violazione o elusione del giudicato (di Francesca Pollastro)

SOMMARIO: 1.La definizione di nullità dell’atto amministrativo e l’introduzione dell’art. 21 septies nella legge n. 241 del 1990, con particolare riferimento al vizio di violazione ed elusione del giudicato. – 2. L’azione di nullità nel diritto amministrativo. – 3. La deroga alla disciplina processuale dell’azione di nullità prevista dall’art. 31, comma 4, primo periodo, del Codice del processo amministrativo, per violazione o elusione del giudicato. – 4. La rilevabilità d’ufficio della azione di nullità per violazione o elusione del giudicato.

 
 
1) La definizione di nullità dell’atto amministrativo e l’introduzione dell’art. 21 septies nella leggen. 241 del 1990, con particolare riferimento al vizio di violazione ed elusione del giudicato.

L’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990 regola la disciplina sostanziale della nullità di un provvedimento amministrativo e stabilisce quali siano le cause che rendono lo stesso invalido

Dettadisposizione,introdotta con la legge n. 15 del 2005, sancisce, dopo numerosi contrasti dottrinali, l’autonomia della figura della nullità, come invalidità degli atti amministrativi.

Negli anni precedenti all’intervento dellnovella legislativa era sorto,tra gli interpreti, un acceso dibattito dottrinale che vedeva il fronteggiarsi di due correnti di pensiero; da un lato era stata prospettata la teoria negoziale, ai sensi della quale al provvedimento amministrativo avrebbe dovuto estendersi la disciplina prevista per il negozio giuridico, riprendendo le definizioni di nullità contemplate nell’art. 1418 del Codice Civile.

Dall’altro lato era stata formulata la tesi autonomistica che, inveceveniva basata sul carattere di autonomia del diritto amministrativo rispetto al diritto privato, così restringendo all’annullabilità l’unica forma di invalidità dell’atto amministrativo.

In questo scenario, la giurisprudenzaeragiunta a delineare una tesi mediana tra le due contrapposte visioni, ammettendo, accanto al vizio dell’annullabilità, anche la nullità strutturale e testuale, non residuando invece spazio per le nullità cd. virtuali, sancite dall’art. 1418, primo comma, del Codice Civile, nel caso di violazione di norme imperative.

Detta interpretazione, per cosi dire “mediana” o “intermedia”, a prescindere dalle ipotesi di esplicita previsione legislativa, aveva consentito di ricondurre ad ipotesi di nullità anche le fattispecie che riguardavano atti adottati in elusione del giudicato.

Il legislatore ha poi fatto proprio il punto cui era giunta la giurisprudenza, codificando le ipotesi di nullità dell’atto amministrativo all’art.21 septies della legge n. 241 del 1990 e per l’effetto delineando una categoria autonoma di nullità, finalizzata a garantire la stabilità e la certezza del diritto amministrativo.

Tuttavia, anche successivamente all’introduzione della norma sopra citata, l’applicazione giurisprudenziale è stata assai prudente ed ha assegnato alla nullità un rilievo limitato alle sole ipotesi espressamente indicate dal legislatore.

Si registrano solo poche e isolate decisioni in cui il giudice amministrativo ha cercato di estendere lo spazio applicativo della nullità, comunque sconfessate da decisioni subito successive.

Inoltre, è rimasta esclusadall’intervento riformatore la categoria dell’inesistenza,spesso usata dalla giurisprudenza pregressa che utilizzava indistintamentei termini nullità/inesistenza per indicare gli stati patologici del provvedimento, implicanti una sua inefficacia originaria.

Ciononostante, l’atto inesistente e l’atto nullo differiscono concettualmente tra loro, in quanto il primo non risulta dotato di una reale apparenza giuridica, tanto da non poter neppure essere identificato come atto giuridico, mentre all’opposto solo un atto esistente, ancorché illegittimo, può esprimere una sua efficacia.

Pertantooccorre sottolineare che, malgrado la codificazione dei principi di diritto nel 2005, la materia della configurabilità dei vizi di nullità continua, ancora oggi, ad essere oggetto di contrasti tra gli interpreti, con una giurisprudenza che, in più occasioni, ha tracciato confini variabili tra annullabilità e nullità.

Tanto premesso, risulta ora possibile soffermarsi sulle differenti ipotesi di nullità contemplate nella indicata norma della legge n. 241 del 1990, concentrando poi l’attenzione sulla violazione o elusione del giudicato.

Tra le specie di vizi che producono la nullità,la prima di esse è costituita dalla mancanza degli elementi essenziali del provvedimento, con ciò ricalcandosila disciplina propria del Codice Civile. Tale nullità cd.strutturale non può tuttaviacondurre a considerare applicabili le medesime regole civilistiche, in quanto,nel diritto amministrativo la mancanza e l’illiceità della causa, requisiti essenziali del contratto, sono da considerarsi classiche figure di eccesso di potere e come tali da ricondursi alle ipotesi di annullabilità del provvedimento stesso.Ne consegue che gli elementi indefettibili del provvedimento vanno individuati nel contenuto e nella forma del provvedimento.

La seconda specie di nullità prevista dal legislatore amministrativo è rappresentata dal difetto assoluto di attribuzione che evoca il concetto di carenza di potere in astratto, vale a dire il caso in cui la Pubblica Amministrazione assume un potere che non le è stato attribuito da nessuna norma di legge. Anche detta causa di nullità è stata oggetto di ampi contrasti giurisprudenziali negli anni, fino adun recente indirizzo della Corte di Cassazione, condiviso almeno in parte dalla giurisprudenza amministrativa, che considera causa di nullità per difetto assoluto di attribuzione anche la carenza in concreto di potere.

Tanto precisato, sia pure in forma estremamente sintetica, si intende qui concentrare l’attenzione sulla terza fattispecie di vizio di nullità delineata dal legislatore all’art.21 septies della legge n. 241 del 1990rappresentata dalla violazione o elusione del giudicato.

Già nel 1984, il Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, con pronuncia n. 6, poi confermata da ulteriori sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali, aveva affermato che, quando il comportamento dell’amministrazione si poneva in contrasto con un precedente giudicato, i provvedimenti emessi dovevano essere considerati affetti da nullità.

Pertanto, tale tipologia di nullità nasceva per ragioni principalmente processuali, come aspetto inerente aipresupposti del giudizio di ottemperanza; infatti, nella indicata pronuncia della Adunanza Plenaria veniva ammesso un giudizio di ottemperanza in relazione ad un giudicato dal quale fosse integralmente desumibile il provvedimento che l’amministrazione era tenuta ad emettere.

In effetti, prima dell’avvento dell’art. 21 septies, chiarificatore delle ipotesi di nullità nel diritto amministrativo, la giurisprudenza aveva precisato che la nullità per violazione o elusione del giudicatopoteva sussistere solo se l’atto si poneva in integrale contrasto con il precedente giudicato e che quindi la sua attuazione avrebbe dovuto dare luogo ad una attività provvedimentale vincolata.

A ciò si collegava il dubbio se il giudizio di ottemperanza fosse volto a sanzionare qualsiasi inadempimento, sia in violazione che inelusione; si era delineata, cioè, una distinzione tra gli atti violativi edelusivi del giudicato, ritenendosi solo i primi denunciabili in sede di ottemperanza e invece i secondi necessariamente impugnabili attraverso un ordinario giudizio di legittimità

Tuttavia, con una pronuncia del Consiglio di Stato del 1992, l’elusione del giudicato era stata ritenuta anche essa un vizio sindacabile in sede di ottemperanza, al pari della violazionecosì anticipando quanto statuito poi, dalla novella del 2005, all’art. 21 septies, che esplicitamente equipara le due ipotesi, superando definitivamente la precedente distinzione.

Proprio muovendo dalle novità normative del 2005, la giurisprudenza è poi andata oltre, interpretando in maniera estensiva la portata stessa del concetto di violazione o elusione del giudicato; in più occasioni i giudici hanno affermato che si può ravvisare nullità non solo quando gli atti elusivi siano stati adottati dopo la formazione del giudicato formale, ma anche quando essi sianostatiadottati dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado e nelle more della definizione del giudizio di appello, poi conclusosi con la conferma della sentenza del primo giudizio.

La giurisprudenza amministrativa, addirittura, in anni recenti, ha ritenuto che l’art. 21 septiespossa trovare applicazione anche con riferimento ai provvedimenti adottati in violazione o elusione delle statuizioni contenute in ordinanze cautelari non più soggette a gravame.

Quindi, nonostante vi siano sempre state anche decisioni in senso contrario,sulla base di un principio di equivalenza tra giudicato e giudicato cautelare, viene proposta da parte della giurisprudenza una nozione di giudicato ampia e comprensiva di tutte le pronunce aventi efficacia immediatamente esecutiva.

Detta visione interpretativa che amplia il concetto di giudicato ai fini della valutazione della nullità per violazione o elusioneha condotto anche ad un intervento del legislatore che, attraversol’art. 114, comma 4, lettera c), del Codice del processo amministrativo,dispone che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice possa dichiarare “l’inefficacia” degli atti emessi in violazione od elusione anche di “sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti”.

Pertanto, dalla lettura dell’articolo sopra citato, si può dedurre che gli atti adottati dalla Pubblica Amministrazione in violazione o elusione del provvedimento giurisdizionale non ancora definitivo sianoda ritenersi colpiti da inefficacia e non da nullità.

Ciò posto, nonostante una accertata apertura di parte della giurisprudenza, di fronte al dettato normativo non sembra possibile un’interpretazione di tipo estensivo del concetto di giudicato, atteso che il legislatore ha sempre mantenuto distinte le due fattispecie di nullità e di inefficacia.

Sulla possibilità di estensione della nozione di giudicato ai fini della dichiarazione di nullità di un provvedimento non definitivo quindi, allo stato, sembra doversi concludere in senso negativo, perlomeno fino ad un futuro intervento legislativoovvero ad una eventuale decisione della Corte Costituzionale sulla distinzione dei concetti di nullità ed inefficacia.

La questione della nullità per violazione o elusione del giudicato, quindi, anche antecedentemente all’emanazione del Codice del processo amministrativo, ed a maggior ragione oggi, si intrecciacon il tema processuale del giudizio di ottemperanza, ossia con quelparticolare giudizio, disciplinato dagli artt.112 e seguenti del Codice del processo amministrativo, che consente di portare a esecuzione sentenze non eseguite dall’amministrazione.

Il vizio di nullità è dunque strettamente funzionale al rimedio giurisdizionale dell’ottemperanza; per l’effetto, in presenza di un atto amministrativo che contrasti con un giudicato, il cittadino non può essere costretto ad attivare un nuovo giudizio di cognizione ordinario, con il rischio di nuove impugnazioni, venendo a lui data piuttosto la possibilità di attivare un giudizio specifico che consenta di ottenere l’utilità ingiustamente negata.

Tuttavia, occorre sottolineare la necessità di distinguere quando emerga una esecuzione scorretta del giudicato amministrativo ovvero quando ci si trovi di fronte a un nuovo e diverso esercizio del potere.

Secondo le elaborazioni più recenti, affinché si possa ravvisare il vizio di nullità per violazione ed elusione del giudicato, è necessario che l’amministrazione eserciti nuovamente la medesima potestà pubblica, già illegittimamente esercitata, in contrasto con il contenuto precettivo del giudicato amministrativo, oppure cerchi di realizzare il medesimo risultato con azione di sviamento di potere.

È invece da escludersi il vizio di elusione del giudicato, quando l’amministrazione sia tornata sulla vicenda oggetto di giudicato per un fine diverso e utilizzando un potere differente da quello già esercitato, così ponendo in essere un’attività amministrativa diversa e autonoma da quella che era stata oggetto di contenzioso.

 
2) L’azione di nullità nel diritto amministrativo.

Tanto premesso dal punto di vista sostanziale, si intende qui esaminare, sia pure in forma assai sintetica,l’azione di nullitàdisciplinata dal legislatoreall’art. 31, comma 4, del Codice del processo amministrativo.

In precedenzal’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990 aveva omesso di statuire sulla sorte processuale della nullità degli atti amministrativicosì determinando una lettura congiunta con le norme del processo civile; nel 2010, invece, con l’introduzione del Codicel’impostazione è cambiata e l’azione di nullità è stata ricondotta nella categoria delle azioni di accertamento o dichiarativecosì distinguendoladalle azioni di annullamento.

La novella legislativa, in effetti, non contempla espressamente un’azione generale di accertamento, limitandosi invece a prevedere, tramite l’art. 31, comma 4, un’azione specifica per la declaratoria di nullità degli atti amministrativi.

In particolare, il legislatore ha disposto che la relativa domanda vada proposta entro il termine di decadenza di 180 giorni, così distinguendo tale disciplinadalle previsioni civilistiche che contemplano la rilevabilità della nullità senza limiti di tempo.

Peraltro l’art. 31 del Codice del processo amministrativonell’ambito delle azioni di accertamento, tratta l’azione di nullità unitamente a quella concernente il silenzio; stante l’eterogeneità dei due istituti ne deriva una certa incoerenza della struttura normativa, probabilmente dovuta alla genesi storica della disposizione in questione.

È incontestabile che nel diritto amministrativo l’introduzione di termini rigidi di decadenza, persegue l’obbiettivo di assicurare una maggiore certezza nelle situazioni giuridiche, evitando il rischio di una contestazione indefinita nel tempoTuttavia, la previsione e l’istituzione di un termine all’azione di accertamento possono risultare intrinsecamente contraddittorie rispetto alla nozione stessa di nullità, evidenziandosi come il termine stabilito sia particolarmente breve (180 giorni)con la conseguenza che potrebbe trattarsi diuna sorta di annullabilità rinforzata.

Nonostante la presenza del termine, infatti, l’atto nullo rimane improduttivo di effetti, anche dopo la scadenza di esso, e lazione di nullità può essere sempre opposta dalla parte resistente o può essere rilevata d’ufficio dal giudice.

Anche questa articolazione normativa disposta dal legislatore, è fonte di incertezza tra gli interpreti, in primo luogo in riferimento alla espressione “parte resistente”che sembra rapportarsi ai casi in cui la sola amministrazione si difenda avanti al giudice amministrativo, così determinando una sorta di perpetuità della eccezione.

In secondo luogo, dubbi ha suscitato la previsione normativa che consente al giudice di poter sempre rilevare d’ufficio la nullità.

Tuttavia, in un’ottica di distinzione e poi di coordinamento del profilo sostanziale e del profilo processuale della rilevabilità d’ufficio delle azioni di nullità, è stata sottolineata la impossibilità di salvare le azioni proposte oltre il termine di decadenza.

Il Giudice può dunque rilevare la nullità, ma solo nell’ambito di un ricorso considerato ricevibile e dunque proposto entro i termini, nel rispetto delprincipio della domanda; ne deriva chedi fronte ad un giudizio tardivamente istaurato,l’organo giudicante non possa pronunciare azione di nullità sostanziale o analizzare questioni attinenti al merito, madebba limitarsi a una pronuncia di rito.

Il rilievo d’ufficio del giudice non pare neppure possibile nell’ipotesi in cui siano contestati atti o comportamenti posti in essere sulla base di un atto nullo, nell’ambito di un ricorso in cui si prescinda dalla esplicita denuncia della causa di nullità.

Se si ritenesse infattiammissibile che, nell’ambito di un giudizio di annullamento, il giudice possarilevare d’ufficio la nullità in favore del ricorrente, si finirebbe, di fatto, per rimettere in termini quest’ultimo rispetto ad una azione di nullità non esercitata.

Muovendo da tali considerazioni se ne potrebbe dedurreche il rilievo d’ufficio del giudice sarebbeesercitabile solo in favore dell’amministrazione, nel caso in cui la declaratoria di nullità dell’atto presupposto conduca al rigetto dell’azione intentata dal ricorrente.

Tuttavia questa conclusione porterebbe ad interpretare l’art. 31, comma 4, del Codice del processo amministrativo,come una norma fuori sistema, in quanto in possibile contrasto coni principi di ragionevolezza ed espressione di un principio diverso e antitetico rispetto a quello dispositivo che governa la materia processuale nel suo complesso.

In altre parole, il potere–dovere di intervenire d’ufficio per l’organo giudicante, se posto in relazione al principio della domanda ai sensi degli artt.99 e 112 del Codice di procedura civile, comporterebbeconseguenze diverse a seconda del ramo processuale preso in considerazione.

L’aspetto della rilevabilità d’ufficio della causa di nullità, dunque, mantiene forti aspetti di criticità,suscitando differenti interpretazioni e problematiche che si riflettono anche sul regime di nullità per il vizio di violazione o elusione del giudicato.

 

3) La deroga alla disciplina processuale dell’azione di nullità prevista dall’art. 31, comma 4, primo periodo, del Codice del processo amministrativo, per violazione o elusione del giudicato.

La denuncia della nullità dell’atto per violazione o elusione del giudicato segue una disciplina processuale differente rispetto agli altri casi di nullità previsti dall’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990.

Prima dell’introduzione del Codice del processo amministrativo la giurisprudenza si divideva circa i termini di impugnabilità del provvedimento nullo per violazione o elusione del giudicato; da un lato si riteneva che nel caso di provvedimento nullo la violazione o elusione del giudicato potesse essere fatta valere in ogni tempo, dall’altro lato veniva ammessa solo nel termine decennale di prescrizione dell’azione, non avendo l’interessato bisogno di impugnare l’atto con un ordinario ricorso giurisdizionale, soggetto a decadenza.

Ora, invece, con l’avvento del Codice del processo amministrativo, il legislatore ha previsto che le disposizioni relative all’azione di nullità, di cui all’art. 31, comma 4 del Codice, “non si applicano alle nullità di cui all’articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del libro IV”; così determinando che, nell’ambito delle azioni di nullità per violazione o elusione del giudicato, la dichiarazione debba necessariamente avvenire in sede di giudizio di ottemperanza.

Le previsioni del Titolo I del Libro IV, richiamate dal comma 4 dell’art. 31 del Codice e ritenute applicabili nell’ipotesi di nullità per violazione o elusione del giudicato, non contengono alcun riferimento all’azione processuale effettivamente da attuare, limitandosi a rinviare alle norme proprie del giudizio di ottemperanza.

Pertanto, mentre in passato appariva dubbio se il giudizio di ottemperanza fosse volto a sanzionare sia gli inadempimenti di carattere violativo che quelli di carattere elusivo del giudicato, attualmente con l’introduzione dell’art. 21 septies, che chiaramente equipara le due ipotesi, la contrapposizione tra elusione e violazione deve ritenersi superata, ancor di più a livello processuale, ove viene prevista una ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice dell’ottemperanza.

Tuttavia, anche tale disposizione che esplicitamente devolve le controversie in materia di nullità per violazione o elusione del giudicato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in particolare al giudice dell’ottemperanza, è stata oggetto di dibattito dottrinale

Una parte degli studiosi ha criticato la scelta adottata dal legislatore, in quanto la devoluzione della competenza ad un solo giudice non consente di fare emergere la distinzione tra diritti ed interessi.

Altra parte della dottrina invece, ha ritenuto tale disposizione normativa opportuna in quanto essendo assai stretto il discrimine tra nullità ed annullabilità, data la frequente difficile fase dell’esecuzione del giudicato, appare utile affermare la giurisdizione del giudice amministrativo a prescindere dalla situazione soggettiva coinvolta, così inquadrando il procedimento di nullità per violazione o elusione del giudicato come una sorta di rito speciale di ottemperanza.

Seguendo tale orientamento, parte della dottrina ha precisatoulteriormente che il giudice dell’ottemperanza, non incontrando limiti nella distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo, possa giudicare altresì per l’esecuzione delle sentenze del giudice civile, che per loro natura riguardano sempre diritti soggettivi; pertanto la esplicita previsione dell’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990, in riferimento alla giurisdizione esclusiva di detto giudice, persegue l’intento di evitare, per questa ipotesi di nullità, la devoluzione della controversia al giudice ordinario

Dunque, contro il provvedimento violativo od elusivo del giudicato, non va mai attivato un nuovo giudizio di cognizione, dovendo invece essere esperito un ricorso in ottemperanza, nel termine di prescrizione previsto per l’actio iudicati, fissato in dieci anni.

Ai fini dell’azione di nullità, quindi, si può concludere che il termine di decadenza di 180 giorni, previstonel primo periodo dell’art. 31, comma 4, del Codice del processo amministrativo, valga solo per le nullità strutturali e per il difetto assoluto di attribuzione, non essendo invece ammissibile nel caso di violazione o elusione del giudicato, per il quale è da ritenersi invece applicabile il termine di prescrizione ordinaria di dieci anni, previsto per l’azione avanti al giudice dell’ottemperanza.

Tale impostazione processuale può altresì essere interpretata come strumento specifico per il superamento del breve termine di impugnazione previsto a livello generale, riconducendo infatti le ipotesi di nullità per violazione o elusione del giudicato al termine prescrizionale di dieci anni, da cui emerge chiaramentel’intenzione del legislatore di offrire una garanzia rafforzata per il privato. 

Nonostante l’apparente chiarezza espositiva, anche l’utilizzo della espressione “prescrizione” ha dato origine a dibattito, in quanto tale termine è da ritenersi soggetto a interruzione ai sensi del Codice Civile, conformemente al principio del giusto processo delineato all’art. 111 della Costituzione, richiamato altresì dall’art. 2 del Codice del processo amministrativo.

Ulteriore conferma della necessaria riconduzione dell’azione di nullità nell’ambito del giudizio di ottemperanza, deriva dall’analisi della decisione n. 2 del Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, del 2013, in cui è stata esclusa la possibilità di una conversione in giudizio di ottemperanza di un’azione impostata con rito ordinario.

Essendo il giudice dell’ottemperanza, il solo competente in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa successiva al passaggio in giudicato della sentenza e per l’accertamento della eventuale nullità di tali atti, ne consegue che, solo al giudice dell’ottemperanza potrebbe essere proposta una domanda di conversione in giudizio di annullamento e non viceversa.

Inoltre, il Consiglio di Stato ha altresì sottolineato che, in ipotesi di congiunta devoluzione al medesimo giudice di una impugnazione in ottemperanza per atti in violazione o elusione del giudicato e di un ricorso per legittimità, ove si prospettano numerosi vizi, attinenti ai medesimi atti, il giudice dell’ottemperanza, nel caso in cui ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione o elusione del giudicato, ne deve dichiarare in via principale la nullità, con conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda

Viceversa nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza concluda per il rigetto della domanda di nullità, dovrà, lui stesso, disporre la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio avanti al giudice competente per la cognizione, comunque tenendo presente i presupposti e i termini della relativa azione; per esempio nell’ipotesi di conversione da giudizio di ottemperanza a giudizio di annullamento è necessario che il ricorso sia stato proposto nel rispetto del termine decadenziale di sessanta giorni, non valendo per tale azione il più ampio termine di dieci anni. 

Infine, tale necessario utilizzo del giudizio di ottemperanza nelle ipotesi di violazione o elusione del giudicato, è sottolineato altresì dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia di ampiezza del themadecidendum, oggetto di tale particolare giudizio. Il Consiglio ha ancora di recente affermato il principio di diritto in forza del quale avanti al giudice dell’ottemperanza possa essere dedotta non solo l’inerzia della Pubblica amministrazione, ma anche un “facere”, quale comportamento attivo attraverso cui si realizza un’ottemperanza parziale o inesatta, ovvero una violazione o elusione attiva del giudicato, incombendo sulla amministrazione un obbligo di leale cooperazione per la concreta attuazione della sentenza.

 

4)La rilevabilità d’ufficio dell’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato. 

Ciò posto sulla competenza del giudice dell’ottemperanza nell’ipotesi di violazione o elusione del giudicato e in merito alla inapplicabilità dei termini di decadenza previsti per l’azione di nullità di cui all’art. 31, comma 4 del Codice, appare opportuno concentrare l’attenzione sullo specifico aspetto della rilevabilità d’ufficio del vizio violativo o elusivo di una precedente decisione, passata in giudicato.

Come già sopra specificato, con l’introduzione dell’art. 31, comma 4 del Codice del processo amministrativo, il Legislatore ha dettato una complessa disciplina positiva dell’azione di accertamento della nullità di un atto amministrativo, per un verso prevedendo che l’azione debba essere proposta entro il termine decadenziale di centottanta giorni decorrenti dalla piena conoscenza dell’atto medesimo, per altro verso recependo gli aspetti tipici della disciplina della nullità, quali quelli della opponibilità in perpetuum e della rilevabilità d’ufficio da parte del giudice.

Sul punto l’ultimo periodo del citato comma 4, dell’art. 31, del Codice del processo amministrativo, lascia chiaramente intendere che le nullità degli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato vanno dedotte con azione di ottemperanza da proporsi innanzi al giudice competente.

Se ne deduce che la nullità derivante da violazione o elusione del giudicato, come già sopra analizzato,viene sottoposta ad un regime processuale particolare che la differenzia in modo significativo dalla categoria generale: infatti da un lato non soggiace al termine di decadenza di centottanta giorni, dall’altro lato si sottrae al regime dell’opponibilità e della rilevabilità d’ufficio proprio delle nullità. 

Tuttavia, anche sulla questione della rilevabilità d’ufficio,ancora una volta, occorre distinguere due differenti tesi.

La giurisprudenza, in alcune decisioni, ha ritenuto di escludere comunque la possibilità di una rilevabilità d’ufficio, basandosi sulla lettura testuale della disposizione normativa di cui all’ ultimo periodo dell’art.31, comma 4, in forza del quale il legislatore, proprio in ragione della inapplicabilità delle disposizioni relative alle diverse forme di nullità, sembra voler escludere la rilevabilità d’ufficio per violazione o elusione del giudicato. 

Esclusione della rilevabilità d’ufficio anche per ragioni di coerenza con la specialità del giudizio di ottemperanza, disciplinato all’art. 114 del Codice, nell’ambito del quale non può trovare applicazione la normativa generale sui contratti, enunciata all’art. 1421 del Codice Civile, in forza del quale il vizio di nullità può essere rilevato da chiunque ne abbia interesse ed anche dal giudice d’ufficio.

Differente l’opinione manifestata dal Consiglio di Stato in una pronuncia del 2016 proprio nell’ambito di un giudizio di ottemperanza; il Consiglio ha chiarito che, ai fini della declaratoria di nullità di atti emanati in violazione o elusione del giudicato, non è necessaria la loro formale impugnazione e quindi la proposizione della relativa domanda di nullità, affinché il giudice dell’ottemperanza possa esercitare anche d’ufficio il relativo potere.

A sostegno di tale decisione, si fa riferimento ancora una volta alla sentenza del Consiglio di Stato in Adunanza plenaria n. 2 del 2013 che ha identificato nel giudizio di esecuzione la sede processuale naturale dello scrutinio dell’esatta conformazione degli obblighi nascenti da giudicato ed anche in relazione alla norma di cui all’art. 31, comma 4, del Codice del processo amministrativo, che, al suo ultimo periodo, dichiara espressamente inapplicabile al giudizio di ottemperanza le disposizioni previste per le diverse forme di nullità, così evidenziando la differente modulazione del potere d’ufficio del giudice nelle due forme di giudizio di dichiarazione della nullità.

Nel caso delle nullità di cui ai primi periodi del comma 4, dell’art. 31 del Codice, infatti, il rilievo d’ufficio si presenta come eccezione rigorosamente delimitata al principio della domanda; nel caso, invece, della nullità per violazione o elusione del giudicato, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, è da ritenersi comunque possibile l’intervento d’ufficio, ancorché l’atto elusivo non sia stato oggetto di specifica impugnazione.

Addirittura il Consiglio di Stato nella sopra richiamata pronuncia del 2016 ha affermato che, ai fini della possibilità di un suo intervento di ufficio, non sia neppure necessaria l’indicazione degli estremi di un provvedimento amministrativo elusivo in sede di ricorso, ancorché adottato prima della proposizione del giudizio di ottemperanza.

Secondo tale orientamento giurisprudenziale, deve perciò ritenersi ammissibile ed in ogni caso procedibile il ricorso per esecuzione del giudicato proposto ai sensi dell’art. 112 del Codice del processo amministrativo, anche se non vi sia stata esplicita impugnazione del provvedimento elusivo del giudicato, non potendosi ravvisare alcun tipo di preclusione o decadenza in conseguenza della mancata impugnazione.

Seguendo detta tesi si può pertanto concludere che, non assume rilievo determinante ai fini della decisione, né la mancanza nel ricorso per ottemperanza di una censura diretta, né la proposizione di motivi aggiunti nel caso di atto elusivo o violativo del giudicato in corso di causa: infatti, nell’ipotesi in cui sia sopravvenuto un provvedimento che il privato ricorrente reputi nullo, non è necessaria la rituale impugnazione affiche il giudice dell’ottemperanza sia investito del potere di decidere. Analogamente, non è considerato indispensabile che la parte ricorrente indichi esplicitamente nella sua epigrafe gli estremi del provvedimento sopravvenuto come oggetto di impugnazione, essendo ricompresa nel petitum la richiesta di rimuovere l’atto viziato.

Così ulteriormente ribadendo il carattere strumentale della procedura di cui all’art. 114 del Codice del processo amministrativo, nella scelta di politica legislativa di conformare il comportamento dell’amministrazione alle statuizioni derivanti da “dictum” giudiziali.

Tuttavia quest’ultima analisi non convince a pieno l’intera giurisprudenza amministrativa, in quanto, ancora in recenti decisioni, i Collegi dei Tribunali Amministrativi Regionali, mantengono ferma l’interpretazione letterale della norma, escludendo la rilevabilità d’ufficio della nullità per violazione o elusione del giudicato.

Nonostante la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato ammetta la rilevabilità d’ufficio della nullitàla giurisprudenza di merito, tuttavia, continua ad escludere la rilevabilità d’ufficio nella ipotesi di nullità per violazione o elusione del giudicato; da un lato, ritenendo che il rinvio al giudizio di ottemperanza per tali categorie di nullità, comporti la necessaria azione ex art. 114 del Codice del processo amministrativo, dall’altro lato facendo riferimento al tenore letterale della disposizione, ove dispone l’inapplicabilità del comma 4 dell’art. 31 e delle sue prescrizioni per le nullità per violazione o elusione del giudicato.

Tali recenti decisioni, alla base del loro ragionamento, ribadiscono sia i principi processuali della domanda, che i principi della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, da cui si desume che la rilevabilitàd’ufficio di un vizio non potrebbe avere una funzione di supplenza, rispetto a quanto è onere della parte ricorrente.

Il principio della rilevabilità d’ufficio di un atto amministrativo deve comunque coordinarsi con le regole fondamentali del contradditorio e della domanda tipiche del processo amministrativo, si che una pronuncia di declaratoria di nullità di un atto per violazione o elusione del giudicato può conseguire solo ad una rituale denuncia di violazione o falsa applicazione della norma di cui all’art. 2909 del Codice Civile e dei principi in tema di elementi costitutivi e di efficacia della cosa giudicata.

(8 luglio 2019)

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