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ISSN 2532-8913

Il fuorigioco, l’oceano blu e la giarrettiera: alcuni spunti sull’odierno studio del diritto (di Giovanni Cossa)

1.Due libri

Questo breve contributo era stato immaginato comesegnalazione bibliografica di un volume in tema di formazione del moderno giurista, recentemente edito (o tale era al momento della data di pubblicazione originariamente prevista) per i tipi di Giappichelli (2018). Il passare del tempo rispetto alla primitiva ideazione ha determinato due conseguenze. Da un lato, ha permesso che esso venisse arricchito dalla menzione di un secondo lavoro monografico, su temi “ideologicamente” confinanti col primo. Dall’altro, ne ha suggerito l’integrazione con ulteriori considerazioni – naturalmente soggettive, e pertanto potenzialmente non condivisibili – scaturite da una panoramica sullo “stato dell’unione” accademica italiana. Anzitutto, però, ilprimo libro: Gli attrezzi del giurista. Introduzione alle pratiche discorsive del diritto, ad opera di Emanuele Stolfi.

Il lavoro trae evidentemente spunto da un’esperienza di insegnamento universitario, segnatamente verso studenti dei primi anni di corso (e su materie romanistiche), a cui esplicitamente si rivolge in Premessa (sintomatica è la scelta di concentrare le note bibliografiche nella sezione finale del testo, per agevolarne la lettura). Tuttavia, pur se forzando l’“interpretazione autentica” dell’Autore, credo che una sua consultazione sarebbe ben più che feconda per tutti coloro che – anche dopo l’anno da matricola – abbiano in animo di dedicarsi alle professioni giuridiche, e forensi in particolare. Benché il registro e lo stile siano scelti per essere fruibili da una platea potenzialmente non pratica dei tecnicismi della lingua giuridica, e anzi appositamente allo scopo di chiarirequesti ultimi, lo “strumentario” che viene illustrato è senza dubbio irrinunciabile per chiunque voglia maturare delle competenze che vadano al di là della nuda memorizzazione di norme e istituti giuridici. La recente integrazione della disciplina relativa all’accesso all’albo forense – il D.M. 17/2018, di cui è peraltro stata rinviata l’entrata in vigore, secondo un ben noto mos italicus– richiede, ad esempio, una preparazione non solo giuridica, bensì contestualmente lessicale e retorico-argomentativa.

In cosa consiste dunque questo “strumentario”? Anzitutto, nelle molteplici operazioni linguistiche che ogni giurista è chiamato quotidianamente a compiere, talvolta senza rendersene conto. Mi pare che appunto un simile tasso di inconsapevolezza, spesso sfociante in un’inesatta formulazione delle stesse, non affligga solamente le matricole di giurisprudenza (come è fisiologico), e si riveli particolarmente sconsigliabile nell’esercizio delle professioni legali. Non essere in grado di fornire la definizione di un istituto oppure di classificare le varie ipotesi di applicazione di una norma sono carenze di gravità equiparabile alla mancata padronanza dei vari codici; e altrettanto è a dirsi per l’incapacità di interpretare un documento o una risultanza probatoria, come di costruire un solido ragionamento in grado di dimostrare una tesi determinata. Si tratta, del resto, di nozioni che raramente trovano spazio in un curriculumuniversitario, sia perché pochissimi Atenei ritengono opportuno prevedere corsi di retorica forense o argomentazione giuridica, sia perché lo studente medio non si troverebbe comunque invogliato a seguirli, preferendo loro insegnamenti di taglio illusoriamente più pratico, magari incentrati su tematiche dal visus attraente e dall’ambito necessariamente ristretto (i “Fondamenti giuridicidella musica pop” e finanche un controversiale “Diritto del fuorigioco”, sebbene palesemente irrazionali, avrebbero di sicuro più studenti della vieta “Logica giuridica”).

Stolfi, allora, si impegna in un percorso esplicativo tra le operazioni linguistiche e logiche che si materializzano continuamente nel lavoro del giurista – inteso latamente come “colui che si occupa del diritto” – e che non possono ormai essere trascurate. Dopo alcune premesse di carattere generale, allora, il libro si addentra nella “specialità” del linguaggio giuridico, per poi passare a delineare gli schemi operativi e le tipologie di proposizioni. Si passa così dalla qualificazione (essenziale, nel campo del ius, per l’inquadramento dei fatti e degli istituti) alla definizione (solo illusoriamente banale, e in realtà compito tra i più ardui), dall’elenco alla classificazione (con i loro tratti necessariamente distinti): tutto ciò, senza dimenticare la dimensione “isagogica”, e quindi accompagnando le enunciazioni teoriche con dovizia di esempi e digressioni. Si viene, poi, nella seconda parte del volume, a intercettare un nuovo ordine di problematiche, quelle concernenti il modo di ragionare dei giuristi, e le tecniche affinché le diverse asserzioni possano essere riconosciute come fondate: vengono toccati, pertanto, i meccanismi deduttivi e induttivi che guidano l’argomentazione giuridica, a partire dal sillogismo. Prima di affrontare, però, in modo più esplicito proprio l’argomentazione, c’è spazio per addentrarsi nelle pieghe della lingua tecnica che quotidianamente utilizziamo, sia sotto il profilo dei processi semantici rilevanti – metafora e metonimia, ad esempio, non sono concetti limitati alle lezioni di italiano delle scuole superiori –, sia in relazione a un procedimento indispensabile quale l’interpretazione: dall’attribuzione di un senso a un enunciato, alle nozioni di “chiarezza” e “oscurità”, fino alle tecniche dell’ermeneuticagiuridica e ai suoi protagonisti. Di seguito, si torna a parlare di argomenti e di fondamento logico del ragionamento, snodi centrali nella pratica giuridica in generale, e forense in particolare: la visuale è quella, di ascendenza “neo-retorica” (e perelmaniana dunque), che collega l’argomentazione alla persuasione di un uditorio, quale dimensione proficua attraverso la quale riscoprire il valore degli strumenti oratori del passato (non mancando alcune intuizioni originali, come quella concernente il valore dell’“argomentazione” del giudice). Particolarmente interessanti risultano, in questa chiave “pragmatica”, i chiarimenti sui vari argumenta a disposizione del giurista (analogico, a contrarioa fortiori, per citarne alcuni), nonché sulle strategie per usarli e disporli nel modo più efficace. Infine, si precisano talune situazioni genericamente “patologiche” che possono affliggere le norme (vaghezza e ambiguità, lacune e antinomie, indicando la via per individuarle con precisione e ovviarvi), per chiudere con la descrizione delle fallacie, ossia dei vizi logici più comuni, in cuinormalmente si incorre senza attribuirvi importanza (importanza che, invece, in un sistema che ancora fa della razionalità delle norme e delle decisioni un obiettivo e un paradigma, non dovrebbe essere affatto sottostimata): dall’ignoratio elenchi alla petizione di principio, passando tra  numerosi “finti” argomenti, quali quelli ad hominem o ad baculum.

Insomma, siamo davanti a un terso repertorio di mezzi posti nella disponibilità degli studenti, rispetto ai quali si avverte l’esigenza improrogabile di offrire qualcosa di più della mera cognizione, per quanto ragionata, delle regole legislative. Sulla medesima linea di supporto all’apprendimento del diritto, benché su un livello diverso, ossia anteriore, si colloca un ulteriore scritto di Stolfi (in collaborazione stavolta con Stefano Benvenuti e Roberto Tofanini): Verso Giurisprudenza. Guida alle prove di accesso ai corsi di laurea giuridici (Giappichelli, 2019).

Il titolo racconta molto dell’intento e dei contenuti di un volume che si rivolge addirittura a coloro che, salutando le scuole superiori, desiderino imbarcarsi nel periglioso viaggio verso una laurea in materie giuridiche. Costoro si trovano, da qualche anno a questa parte, a misurarsi con un esame preliminare relativo alle proprie “conoscenze iniziali”, che dovrebbe rappresentare un primo momento di autoverifica personale sulla disposizione a quel percorso di studio. Senonché, a differenza dei test d’ingresso nelle Facoltà a numero chiuso, quella prova non assume generalmente carattere vincolante, bensì implica solamente che il giovane debba in qualche modo “sopravvivervi”, riuscendo a superarlo anche con più tentativi, e dopo avere ormai intrapreso il percorso di apprendimento, magari lasciandosi alle spalle qualche esame del primo anno. Il carattere solo “consultivo” – nel senso di consiglio per il proprio futuro che lo studente può trarne – comporta una concreta attenuazione del valore effettivo del test, su cui si avrà occasione di tornare. 

In realtà, e a ragione, il testo in oggetto prende molto sul serio la preparazione alla prova, e si propone di colmare una lacuna esistente nel panorama bibliografico attuale: quella dei sussidi per lo studio in vista dell’esame di accesso. A mio modo di vedere, peraltro, esso potrebbe dimostrarsi utile a isolare e risolvere le principali manchevolezze nella cosiddetta “cultura generale” dei diplomati, individuando materie e questioni di cui è essenziale che essi abbiano conoscenza (cosa che – parlando per esperienza personale – è ben lontano dall’essere la normalità). L’approccio, del resto, è eminentemente pratico. Poiché il questionario deve vertere, nei suoi tratti costitutivi fondamentali (previsti uniformemente a livello nazionale), su tre “aree tematiche”; e poiché, al tempo stesso, non sarebbe stato opportuno né ragionevole allestire un complessivo manuale che trattasse in termini “istituzionali” di tutte le materie che in quelle aree ricadono; si è scelto, allora, di impostare il materiale come una serie di (centinaia di) domande esemplificative (con relativa risposta), che possano costituire un modello per le prove che potenzialmente i candidati si troveranno ad affrontare (e forse – potremmo ipotizzare – per taluno dei docenti che dovessero trovarsi a scegliere come conformarle, almeno nei termini di un modello generico). Quelle grandi sfere del sapere riguardano la “Storia politica e istituzionale”, la “Cittadinanza e la Costituzione” e la “Logica e argomentazione”; i quesiti, d’altronde, sono principalmente frutto dell’esperienza degli Autori nell’orientamento universitario e nella materiale redazione di test per le future matricole dell’Università di Siena, ma vengono arricchite da tutta una serie di possibili varianti, declinate in funzione dell’efficacia didattica. Come si nota, si tratta di un lavoro, benché lontano da profili teorici (o forse proprio per quello), estremamente prezioso e – plausibilmente – destinato a riscuotere immediata fortuna nella prassi della preparazione all’ingresso a Giurisprudenza. La sua diffusione, pertanto, andrà di pari passo con l’attrazione di quest’ultimo cursus studiorum, e anzi ne sarà forse un indice piuttosto attendibile.

 

2. Molti problemi

Se vogliamo allora cercare di allargare lo sguardo e ricostruire il quadro d’insieme di questa composita operazione diretta agli studenti delle discipline giuridiche, è opportuno avere contezza del contesto in cui essa si vuole calare. Per far ciò, appare utile tornare all’idea che non vi sia la materiale possibilità di intendere le nude norme, e avvalersi consapevolmente e utilmente di esse nella professione, qualora non si maneggino le basilari nozioni critiche di cui si è discorso finora. Tali cognizioni, invero, non sembrano generalmente potersi acquisire là dove ci aspetteremmo, ossia nella formazione universitaria. A questo punto viene però da chiedersi: cosa è andato storto nell’evoluzione del metodo accademico perché un libro come quello appena segnalato passasse dall’essere opportuno, al divenire assolutamente necessario?

Conviene partire dai numeri. Un recente articolo dello stesso Stolfi su questa Rivista ha trovato singolare ma non imprevedibile conferma in alcune statistiche rilanciate nei mesi passati suiquotidiani nazionali, che tratteggiano una riduzione decennale degli iscritti a Giurisprudenza nell’ordine di quasi il 40% di unità. Da un lato, una riflessione sulle ragioni e i possibili rimedi dellacontemporanea crisi dell’insegnamento giuridico, nelle sue forme costitutive come nel suo prestigio tradizionale, e dall’altro lato, il riscontro empirico – per la verità espressivo di una tendenza sempre più marcata degli ultimi tempi – dalla migrazione verso diversi e più appetibili corsi di laurea.

Per capire meglio quella che ha l’apparenza di una vera spirale viziosa, potenzialmente suscettibile di condannare alla (non troppo) lenta desertificazione le Facoltà, o meglio i Dipartimenti giuridici, credo che sia interessante tornare al momento antecedente a questa fase di abbandono, per cogliere quale sia stato il fattore determinante nell’inversione di andamento. In altre parole, cosa ha causato la progressiva “fuga” verso più allettanti itinerari di studio? Ebbene, sono anche io convinto che a questo esito abbiano contribuito molteplici fattori, spesso sottovalutati dalle istituzioni politiche e accademiche, quali, tra gli altri, la svalutazione delle professioni (non solo forense, ma anche giudicante, come si deve ammettere se ci si spoglia delle ipocrisie di comodo), la deflagrazione del novero delle Università (ormai sempre più staccate dal rapporto con la “fisicità” della didattica,per agganciarsi alla supposta maggiore “potabilità” della forma telematica), l’introduzione di nuovi cursus abbreviati (che avrebbero dovuto offrire percorsi funzionalizzati a determinate professionalità, ma nella specializzazione hanno dovuto rinunciare alla completezza e, spesso, alla profondità dell’insegnamento). In questa sede, però, preferisco soffermarmi su quella che mi appare essere una differente e altrettanto decisiva causa del fenomeno in esame, che anzi dovrebbe rappresentare il sostrato, la base fattuale su cui si sono innestate tutte le altre appena indicate: la quantità esorbitante di matricole nelle discipline giuridiche, all’alba di quella inversione di trend.

Potrebbe sembrare un paradosso che nel volgere di pochi anni il panorama si sia rovesciato così radicalmente, ma – se ci pensiamo bene – ogni crisi discende da situazioni di tensione che superano il limite, o da eventi scatenanti che fanno crollare l’intero equilibrio del sistema. A me pare che nel nostro caso si sia verificato un meccanismo del primo tipo, proprio in forza del concorso di quei fattori rammentati. E credo anche che, vista la natura irreversibile di alcuni di essi, occorra ormai ragionare nell’ottica dei rimedi e delle prospettive di recupero in termini molto realistici, senza sperare di poter tornare al passato glorioso semplicemente recuperandone le forme, a ora difficilmente riproponibili. Qualcosa di nuovo, dunque, come nuovo è il quadro sociale ed economico, a cui le professioni giuridiche devono rivolgersi: un insegnamento svincolato da esse non può concepirsi come attrattivo, ma nemmeno come sostenibile allo stato attuale.Da un lato, le contingenze economiche, che in generale rendono sempre più elitaria l’aspirazione allo studio universitario, trasformano quasi in miraggio la mobilità interna e la circolazione di studenti verso sedi diverse da quelle più prossime ai luoghi di provenienza. Dall’altro, i meccanismi ormai eminentemente premiali di ripartizione delle risorse ministeriali ingenerano una serrata concorrenza tra Atenei che, già da qualche tempo, finisce per innestare una serie di reazioni a catena: la loro ricaduta ultima si produce rovinosamente sul piano della didattica. E siamo,appunto, al circolo vizioso al quale è sempre più arduo sfuggire: la preferenza della matricola non si gioca quasi mai sulla riduzione dei costi per l’acquisizione del sapere, e solo sporadicamente sul rafforzamento o sull’ampliamento delle strutture per la ricerca, visto che è proprio per ottenere dei fondi mancanti che la contesa si inasprisce. La direzione designata, e ormai diffusamente praticata, è un’altra, quella di riforme dell’offerta formativa, che possano rendere alcune Università più affascinanti di altre.

Il vero problema di questo ordine di considerazioni, però, è che gli strumenti impiegati potrebbero addirittura finire peraggravare le criticità, secondo almeno due linee di faglia: in primo luogo, perché la moltiplicazione di materie eccessivamente schiacciate su settori richiesti dal mercato favorisce la creazione di una conoscenza giuridica estremamente parcellizzata. Lo studente si abitua a percepire, e analizzare, di volta in volta solo unproblema specifico o uno scorcio limitato del diritto, finendo per ottenerne un’immagine frammentaria e incompleta: con molti istituti specifici avrà magari una dimestichezza esemplare, ma gli mancherà quasi sicuramente la visione d’insieme del complesso delle relazioni giuridiche, che appare sacrificata nella scelta di un iter formativo segnato da approfondimenti puntiformi. In seconda istanza, e conseguentemente, non è un mistero che le prime a essere mortificate, nella medesima logica, sono le discipline giudicate meno o per nulla spendibili nelle professioni legali del post-laurea: de plano, le materie storiche e quelle filosofiche.Oltre alla progressiva mistificazione che esse vanno incontrando nei percorsi scolastici – da ultimo, la cancellazione della traccia storica nelle prove di Maturità, che anche all’uomo della strada farebbe venire alla mente la celebre citazione di Primo Levi sulla condanna a rivivere il passato per chi lo dimentica –, si assiste da tempo a una “guerra di trincea” che, nei Dipartimenti giuridici così come a livello di programmazione ministeriale, i relativi docenti devono combattere per evitare di essere confinati nelle “riserve indiane” (talune – va detto – colpevolmente autoimposte), guardati con sospetto e sufficienza dai colleghi “latori” della modernità giuridica. Credo che sia, peraltro, opportuno rifletteresu entrambi i profili ricordati.

In merito alla “settorialità” del sapere emergente dal restyling dei corsi di laurea in chiave sempre più attualizzante, credo che la direttrice assunta sia abbastanza pericolosa. C’è un rischio insito nella moltiplicazione degli insegnamenti in funzione della richiesta del mercato, o nella costruzione di piani di studio plasmati sulla preparazione di precise professionalità: è quello di snaturare l’essenza dell’insegnamento del diritto, e dimenticarne i tratti costitutivi. Invero, un Ateneo giuridico non può ragionare come un’azienda – benché vi sia indotta dal regime dei finanziamenti statali e privati – per uno sconfinato numero di ragioni: tra di esse, non sottovaluterei quella attinente alla strategia operativa. Un azzardo equivalente a quello rappresentato dal concentrarsi prevalentemente su argomenti circoscritti mi sembra che possa ravvisarsi in una diversa proposta didattica, che va facendosi strada: è quella di un’Università che creacostantemente materie a immagine della pratica economica. Ebbene, siamo di fronte a qualcosa di paragonabile a quella che in ambito economico è chiamata “Blue Ocean Strategy”: essaconsiste nel superare la concorrenza scegliendo di non lottare per prevalere su mercati esistenti, bensì di innovare creandone di nuovi. Ma tale metodo, se risulta vincente per i soggetti economici, non può esserlo per quelli culturali, laddove imponga di perdere di vista il mercato di riferimento iniziale (quello che viene detto “oceano rosso” e comprende tutti i settori – nel nostro caso i settori disciplinari – già noti). Fuori dalla metafora e a mero titolo di esempio, non mi si convincerà, da un lato, che insegnare delle “Istituzioni di vigilanza bancaria”, solo perché il tema è di attualità pressante (e rappresenterebbe un soggetto di studio ben delimitato), sostituisca un completo corso di “Diritto bancario”(che sarebbe l’“oceano rosso”), nel processo formativo di uno studente, né che, dall’altro lato, abbia effetti realmente formativi compatibili con la reale funzione dell’istruzione universitaria il creare magari una cattedra di “Legislazione dell’e-banking” (un potenziale “oceano blu”). Lo stesso potrebbe dirsi, ovviamente, in riferimento a tutti i settori disciplinari, da quelli storici a quelli “positivi”. Se la nuova strada comporta la compressione degli spazi riservati alle nozioni (tradizionali sì, ma in quanto) fondamentali, ritengo che non indirizzi verso risultati positivi; e ciò ci conduce al secondo punto.

Quali sono le materie fondamentali? Chi può e deve giudicarle? Come si conquista quel “rango”? Il discorso sarebbe lungo e complesso, e non si potrebbe certo esaurire in un articolo. È chiaro però che alcuni dati oggettivi possono ancora – pur nella mobilità dei tempi moderni – essere tenuti per fermi: è chiaro, cioè, che da alcuni insegnamenti basilari non si può prescindere, come del resto continua a sostenere lo stesso legislatore, con le varie tabelle ministeriali; come lo è altrettanto che simili corsi dovrebbero godere di un’inamovibile obbligatorietà nei piani di studio, senza subire una concorrenza che spesso è suggerita da motivi di nuda politica accademica. Tuttavia, nello specificoalcuni rilievi problematici possono essere sollevati. In particolar modo, ci si dovrebbe chiedere se l’utilità, o meglio l’insostituibilità dei corsi universitari debba essere ormai determinata sulla base della loro attualità, e di conseguenza del richiamo che essi possono esercitare sullo studente in pectore: nei tempi moderni non si tratta più di una domanda retorica.

Non è mia intenzione riprendere, d’altro canto, la vexata quaestio delle discipline storico-filosofiche, di cui già haabbondantemente informato Emanuele Stolfi nell’articolo già citato. Si può, però, aggiungere che proprio il primo libro qui segnalato – e non è evidentemente un caso che l’Autore sia il medesimo – ci riporta al cuore del problema. Un’offerta didattica orientata su contenuti sempre più puntuali – a scapito della prospettiva storica e teorica che ogni normativa positiva presuppone, e da cui è originata e motivata – non fa che rafforzare il concreto rischio di predisporre per gli affamati studenti una tavola imbandita con pietanze sempre più raffinate e particolari, ma senza aver loro spiegato prima come e, soprattutto, per quale ragione ci si nutra. Certo, lo apprenderanno nella pratica – che, nei fatti, è quella delle professioni legali –, ma in essa verranno calati senza i consoni strumenti critici che permettano loro di comprendere veramente le norme, e non di esserne proni utilizzatori. Dovrebbe rimanere allora intoccabile il compito dell’Università di predisporre una proposta che si faccia carico di fornire proprio quegli strumenti critici agli aspiranti giuristi (non potendoci per ora realisticamente aspettare – absit iniuria verbis –  una riforma dell’insegnamento scolare che aiuti a compensare i difetti di cui si discorre, come sarebbe idealmente possibile trattandosi comunque di problematiche connesse a operazioni linguistiche e logiche, e non strettamente giuridiche).

 

3. Una soluzione?

Dopo questa ricostruzione apparentemente pessimistica, è forse il momento di introdurre qualche considerazione costruttiva, individuando dei possibili rimedi. Un primo, non ininfluente, intervento, in realtà, non sarebbe un correttivo, ma consisterebbe nell’usare prudenza rispetto a quelle recenti tendenze “espansive”dell’offerta formativa di cui si è parlato: sono però dell’idea che si tratti di un “cervantesco” assalto ai mulini a vento, e che forse sia meglio guardare a qualcosa di più realizzabile. Come si garantisceil livello della docenza universitaria? In vari modi, ça va sans dire, ma poiché qui mi sto occupando del lato didattico e dei cursus studiorum, sono convinto che uno dei mezzi più efficaci sia quello di assicurare una maggiore selettività. Se vogliamo, cioè, ragionare davvero in termini di mercato e concorrenza, è appunto la difficoltà di ottenere un dato bene a misurarne molto spesso il prestigio, e senza dubbio a renderlo più appetibile ai potenziali fruitori (è la dimensione dello “status symbol”). Trasponendo, quindi, il discorso sul piano dell’Accademia, il percorso – a mio parere – più breve, per restituire lo status di dignità confacente allo studio del diritto, consiste nell’introdurre il “numero chiuso”per i corsi di Giurisprudenza, o almeno per la laurea magistrale. 

Con un ammontare contingentato di accessi, selezionati in base al merito, si otterrebbero una serie di risultati pratici di sicurosegno positivo: si opererebbe una cernita ex ante sugli studenti più motivati e preparati (constatando che i test sulle conoscenze preliminari delle matricole – come osservato – non rappresentano alcun tipo di deterrente verso i meno pronti, da un lato, e che manca da cinquant’anni in Italia un sistema scolare superiore che aiuti a indirizzare gli alunni verso il percorso più adatto a loro); si garantirebbe la presenza di un numero di studenti sostenibile per le strutture a disposizione (le quali – abbiamo visto – non possono più espandersi all’infinto in mancanza di finanziamenti statali), sulla scorta di quanto già accade con Medicina; si formerebbe un numero di laureati corrispondente, o comunque non superiore, alla richiesta del mercato delle professioni giuridiche (ma anche degli altri posti pubblici per i quali il nostro titolo è requisito, concorsi inflazionatissimi allo stato); con ciò, si incentiverebbe lo studente a concludere rapidamente e con profitto il proprio iter, nella prospettiva di un’occupazione non più così aleatoria; infine, tornando alla radice del problema, si stimolerebbero le nuove leve ad aspirare allo studium iuris, e a competere per intraprenderlo.Un circolo nuovamente virtuoso, dunque.

Naturalmente, a questa riforma strutturale dovrebbe accompagnarsi il recupero o il mantenimento di un livello soddisfacente di didattica, ma i due aspetti non sono disgiunti. A fronte di una realtà in cui i posti di accesso siano ovunque limitati, e la base di selezione sia la medesima, la scelta della sede sarebbe più facilmente effettuata sulla base dell’offerta di apprendimento. Quindi le Università non sarebbero certo esentate dal mantenere una qualità alta della docenza e della ricerca, laddove oggi sembra che ciò sia motivato solamente dall’intento di compiacere i servizi di valutazione nazionale per ottenere più risorse. D’altronde, mi pare che solo un sistema con queste caratteristiche potrebbeveramente giustificare il sanguinoso livello delle tasse universitarie, che gravano esizialmente sui bilanci familiari. In definitiva, non si tratterebbe di essere “costretti” al “numero chiuso”, come recitava un articolo di qualche mese fa su Corriere.it, a firma di Milena Gabanelli (da un angolo visuale però diverso); si tratta, piuttosto, di introdurlo con coscienza quale meccanismo potenzialmente in grado di invertire la tendenza al deprezzamento delle carriere giuridiche, da tempo in atto. 

Si potrebbero formulare – e si formulano nella realtà – varie obiezioni contro questa idea di restrizione: non posso che richiamare le più sensibili. Anzitutto, si afferma che essa causerebbe una limitazione di fatto al diritto allo studio tutelato in Costituzione, frustrando le aspettative di molti. In realtà, premesso che l’esempio della laurea in Medicina rappresenta un valido precedente, non si comprende dove starebbe l’effetto “antidemocratico” del numero chiuso. Posto che l’ammissione dovrebbe essere incentrata su criteri meritocratici (ideando cioè delle forme di preselezione idonee a individuare coloro che siano effettivamente i più portati alla disciplina), e non certo su basi sociali o economiche (anzi mantenendo vigorosi sostegni statali per rendere effettivo proprio il diritto previsto dagli artt. 3 e 34 Cost.) o di provenienza territoriale, non si violerebbe certo l’uguaglianza dei cittadini, a meno di non male interpretare questa come un egualitarismo forzoso che abbatte ogni prospettiva di valorizzazione delle capacità personali. Non si tratta di introdurre un regime elitario, fondato sulla esclusività e sul privilegio; non si dovrebbe, insomma creare un nuovo “Ordine della Giarrettiera” a beneficio dei pochi eletti per diritto di sangue: l’obiettivo sarebbe quello di attrarre i migliori (ovviamente con un’approssimazione dipendente dalle concrete modalità di selezione), e nel contempo risollevare lo spirito della materia. D’altronde, negli anni in cui le Facoltà di Giurisprudenza erano prese d’assalto, quel curriculumera altresì reputato diffusamente un refugium peccatorum per i diplomati che non avessero alternative: una soluzione molte volte di ripiego, per giovani che non avevano nemmeno ben chiaro cosa andassero a intraprendere, quando non un “parcheggio” a tempo indefinito. La ricaduta di lungo periodo si è osservata negli anni recenti: a essere presi d’assalto sono gli esami di accesso alle professioni e i concorsi nel settore legale, con tutte le conseguenze negative che si immaginano (anzi, più che immaginare, si toccano con mano: tra le altre, offuscamento dei valori di preparazioneindividuale, abbassamento generale del livello delle professioni più “accessibili”, assenza di prospettive occupazionali), e che realizzano un quadro assai meno “democratico” di quello temuto col numero chiuso. Ma tutto questo è derivato precisamente da una situazione di sovraffollamento dello studio del diritto: e allora, quella che sembrerebbe una soluzione paradossale – ossia, in un momento di crollo delle iscrizioni, porre un “calmiere” alle medesime – risulta forse l’unica prospettiva per garantire un futuro a quel medesimo studio. A margine, va comunque ribadito che altre sono le possibili riserve, e merita anche ricordare che alcune delle resistenze più forti a questa prospettiva vengono opposte giocando su argomenti di tipo “politico”, con considerazioni che riconducono agli ordini professionali: in merito a esse, però, è qui preferibile astenersi.

Perché una simile proposta non rimanga al livello delle utopie, occorre del resto segnalare che vi è già un Ateneo che si è mosso su questa via, quello di Verona: presso quella sede, a partire dall’a.a. 2018/19 è stato introdotto il “numero programmato”, proprio allo scopo di consentire una maggiore qualità della didattica e una più concreta aspettativa di sbocchi lavorativi. Ciò ha comportato la predisposizione di un test d’entrata coerente con il percorso giuridico, pur se si sono rese necessarie più selezioni progressive per assegnare il totale dei posti messi a bando. Ma il mancato raggiungimento della quota prefissata non depone per forza contro il meccanismo adottato: anzitutto, perché potrebbe essere solo necessario calibrare il numero degli accessi; in secondo luogo, e più incisivamente, perché siamo ancora all’inizio di un percorso che, per produrre effetti tangibili, dovrebbe essere uniforme sul piano nazionale (l’attrattività di corsi ancora a “numero aperto” non gioca certo a vantaggio di chi sceglie di “chiuderlo”). A ogni modo, non è un esempio tratto da un paese lontano ed esotico: sembra pertanto un passo che può, e dovrebbe, essere compiuto. Il rischio di trovarsi nella condizione di Medicina, per la quale si lamenta quotidianamente la scarsità di abilitati all’arte di Ippocrate a disposizione delle struttureospedaliere, è talmente remoto per Giurisprudenza – con lepeculiarità delle professione e del relativo mercato, e con il residuo di “esuberi” ancora in cerca di collocazione – che le polemiche rivolte a quel meccanismo di accesso non possano certo impensierire il legislatore (e i giuristi).

In conclusione, si tratta di una suggestione destinataprobabilmente a rimanere impopolare, ma – di fronte a uno status quo che continua a incrementare in proporzione geometrica la disaffezione verso lo studio giuridico, nonostante i tentativi di riformarne i connotati, e finanche lo spirito – sospetto che, in un arco di tempo non molto lungo, esso potrebbe divenire l’extrema ratio a cui aggrappare le speranze di un ritorno di gradimento da parte delle matricole. D’altronde, ciò che si va compiendo in questi anni non è altro che un numerus clausus di fatto; ma l’effetto di contrazione del corpo studenti, pur venendoastrattamente incontro alla medesima esigenza retrostante la programmazione normativa di un limite alle immatricolazioni,dev’essere tenuto ben distinto nella sostanza da quest’ultima.Infatti, è ben diverso uno scenario in cui si accede in pochi a un percorso ambito, da quello in cui lo si scarta perché inconcludente e poco stimato. Le obiezioni possibili sono spesso inconsistenti, e quindi facilmente sormontabili se si prenda coscienza dello stato di progressivo declino dell’apprendimento e del post-laurea giuridici: chi si oppone appare essenzialmente legato a logiche che non sembrano tenere conto delle criticità emerse nei tempi recenti.Queste ultime rappresentano la vera esigenza cui far fronte, in grado di superare anche il (pretestuoso) movente connesso al rispetto dell’uguaglianza sostanziale. Si potrà allora opporsi a chi lo brandisce prendendo davvero a esempio l’Ordine della Giarrettiera, ma solo per recuperarne simbolicamente il motto: “Honni soit qui mal y pense”.

(8 luglio 2019)

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“Professione” orientatore. L’orientatore universitario quale connettore sistemico (di Stefano Benvenuti e Roberto Tofanini)

Il tema dell’orientamento universitario implica la trattazione di molteplici aspetti, sia interni alle strutture di ogni singolo ateneo, sia soprattutto esterni, in riferimento allacrescentedomanda proveniente dal mondo delle scuole superiori, con tutte le loro componenti, studenti, corpo docente e famiglie: una domanda che mira all’individuazione di iniziative finalizzate, in prima istanza, a specifiche attività formative e motivazionali

Dopo lunghi anni di scarsa attenzione, si è ormai consolidata la consapevolezza di quanto l’orientamento costituisca un elemento fondamentale e strutturale del processo di crescita di ogni studente.In questa prospettiva, un sistema scolastico e universitario orientante assume un rilievo fondamentale perché indispensabile quale supporto per i giovani. Esso può facilitare le loro scelte e favorire processi di autodeterminazione piùconsapevoli sia nel percorso di formazione, che nel successivo inserimento lavorativo, nonché, in generale,per i momenti di transizione lungo l’arco della vita.

Da alcuni anninelle normative nazionalila funzione primaria dell’orientamento, espressa anche dal Consiglio dell’Unione Europea nel 2004, è ormai ampiamente condivisa

È però con il nuovo ordinamento universitario delineato dalla legge n. 240/2010 che l’orientamento è divenuto compito istituzionale per gli atenei.Peraltroper ottenere importanti e incisivi risultati, esso necessita del coinvolgimento attivo degli istituti di istruzione superiore in raccordo con le strutturuniversitarie di accoglienza, orientamento e tutorato, con i dipartimenti e, in particolare con i docenti delegati a tale attività

L’impegno del corpo docente nel portare avanti le funzioni di orientamento è andato via via rafforzandosi nel corso degli anni, anche in considerazione del ruolo tutoriale ad essi attribuito, che trova fondamento giuridico nella legge n. 341/1990 di riforma degli ordinamenti didattici universitari

Definire obiettivi, strumenti e regole rappresenta, quindi, una necessità ineludibileonde consentire agli studenti, frequentanti almeno gli ultimi due anni degli istituti di istruzione superiore (opportuno sarebbe, invero, un coinvolgimento anche dei frequentanti delle terze classi), di acquisire non solo informazioni utili in merito all’offerta formativa degli atenei, ma anche (e soprattutto), maturare piena consapevolezza delleproprie scelte e una progettualità che ponga al centro il proprio futuro lavorativo. Ciò potrà essere conseguito grazie a un confronto dialettico con la struttura universitaria, specialmente con i docenti impegnati attivamente sul campo

Solo la definizione di adeguate e incisive politiche di orientamento̶ collegate ad interventi di cooperazione fra scuola, università, mondo del lavoro e famiglie  ̶  consente di realizzare percorsi virtuosi a favore degli studentiL’orientamento, infatti, èfunzione che si compone di dimensioni trasversali, che richiedono uncoordinamento centrale e di dimensioni specifiche, di pertinenza delle diverse strutture didattiche.

È necessario precisare come la varietà delle scuole superiori renda ancora più complessa la definizione di adeguate politiche di orientamento e conseguentemente la ricerca di tecniche di attuazione opportunamente differenziateInfatti gli istituti di istruzione superiore italiani si presentano strutturalmentemultiformi e multipolari: scuole statali (gestite direttamente dal Ministero) e scuole non statali, rappresentate da istituzioni pubbliche e private non amministrate dallo Stato(scuole non statali pubbliche quando il gestore è rappresentato dal comune, dalla provincia o dalla regionescuole non statali  private quando il gestore è rappresentato da soggetti privati laici o religiosi)Inoltre, l’offerta formativa è assai variegata,con una molteplicidi indirizzi di studio: dal classico allo scientifico, dal professionale al tecnologico, dal commerciale all’agrario, dalle scienze umane all’economico sociale, dal linguistico al musicale-coreutico(solo per citarne alcuni).

Appare evidente che l’attività di orientamento, per avere efficacia nella prospettiva di una ricaduta occupazionale, deveessere attentamente calibrata sulla base di queste specificità, ma anche prendendo in considerazione, fra l’altro,fattori come le caratteristiche socio-economiche del territorio di riferimento, i servizi, i fabbisogni delle imprese

Autonomia e integrazione devono caratterizzare i due livelli fondamentali,scuola e università, sui quali si fonda tutta l’attività di orientamento: autonomia nell’individuazione degli obiettivi, con la realizzazione di progetti condivisi e integrati. La condivisione costituisce, infatti, un elemento basilare per venire incontro alle aspettative degli utenti (studenti e famiglie in primis)con la promozione, da parte degli atenei, di efficaci collaborazioni con il sistema dell'istruzione scolastica e della formazione professionale, con le istituzioni e gli enti territoriali, con il mondo del lavoro e delle professioni.   

Pertanto l’orientamento universitario non può avere, come accadeva nel passato e come purtroppo ancora avviene in alcuni contesti, carattere prevalentemente, se non esclusivamente,informativo, ma deve essere primariamente formativo e motivazionale. Ciò comporta per l’orientatore la necessità di costruirsi una propria “veste professionale” con competenze e attitudini specifiche allo svolgimento di tali attività.

Per migliorare il processo di apprendimento e rendere l’orientamento più significativo ed efficacesono quindi necessari nuovi metodi di insegnamento, nuovi programmi, "nuovi" insegnanti e formatori che sappiano individuare e valutare le capacità e le attitudini dei discenti, sintonizzando su di essi i processi di insegnamento e di accompagnamento epredisponendogli indicatori che consentano analisi e confronti costruttivi

Ma chi è l’orientatore?

Anche questa figura presenta molteplici accezioni. È opportuno distinguere tra un orientatore “istituzionale” (la famiglia, la scuola, l’università, intese come soggetti che devono adottare politiche e iniziative volte a predisporre mezzi finalizzatiall’orientamento) e un orientatore “professionale” (il genitore, il singolo insegnante, il docente universitario, che, pur non essendo un professionista dell’orientamento, non avendo ricevuto una formazione specifica, è comunque chiamato a svolgere sul campo una tale attività). 

L’orientatore “istituzionale”, che necessariamentedeve avereconsapevolezza degli obiettivi, ha mezzi e una propria organizzazione (uffici scolastici e strutturedi ateneo), si avvale sovente dell’orientatore “professionale”, anche se non “professionista”.

Nella società contemporanea assistiamo da tempo a una sempre più marcata trasformazione del ruolo e della funzione sociale dell’insegnante di scuola superiore e del docente universitario. La crescita di nuove professionalità è determinata dalla necessità di confrontarsi con lo sviluppo della tecnologia e di sviluppare nuove e più moderne tecniche e strategie didattiche e comunicative. Per chi si occupa di orientamento un aggiornamento continuo e qualificato è condizione indispensabileper ottenere risultati positivi, a prescindere dalla funzione svolta e dal ruolo ricoperto. Ma, ancor prima, l’orientatore “professionale” deve progettare l’orientamento per programmare e realizzare in concreto le relative attività.

In questo contesto la scuola e l’università  ̶che da sempre, insieme alla famiglia, svolgonoil ruolo primario nella formazione dei giovani̶sonoinvestite del difficile compito di predisporre attività propedeutiche al futuro ingresso nel mondo del lavoro, in quella vita reale che è spesso tutt’altro che inclusiva, al fine di incoraggiare, guidare e facilitare gli studenti nel percorso formativo per loro più idoneo, accendendone la motivazione affinché essi riescano a effettuare scelte consapevoli, che tengano conto delle personali aspirazioni e attitudini

Ciò non può che avvenire attraverso nuove metodologie educative che, come è già stato rilevato, trasformano l’attività di orientamento, in passato episodica e meramente informativa, in attività sia formativa che motivazionale,in parte anche grazie a specifici progetti ministeriali (come, ad esempio, l’alternanza scuola-lavoro) e la predisposizione e l’adesione a iniziative che contribuiscano a stimolare negli studenti la consapevolezza delle difficoltà e delle competenze necessarie per avviare la realizzazione di un proprio percorso.

Sulla base dell’esperienza maturata nel corso di molti anni nell’orientamento, abbiamo rilevatocome attività di supporto, di stimolo e di accompagnamento (quali lezioni “mirate” alle peculiarità deglindirizzi scolastici, effettuazione di test ufficialidiscussioni e presentazioni di libri,partecipazione diretta a lezioni universitariestagesinterventi in giornate di orientamentoorganizzate dalle scuole,riunioni operative con i dirigenti e il corpo docente degli istituti superioriper sviluppare modelli di progettualità operativa) costituiscano da un lato “connettori sistemici”, dall’altrostrumentiimprescindibili di raccordo strategico per unaconsapevole scelta universitaria, autonoma e responsabile, finalizzata all’ingresso nel mondo del lavoro.

È in tale contesto di accompagnamento e di sostegno che è uscito di recente un volume, scritto in collaborazione con l’amico Emanuele Stolfi, nel quale si è cercato di dare un contributo concreto agli studenti che si accingono a intraprendere lo studio universitario in un percorso quinquennale o triennale attinente al diritto. Il libro  ̶scritto per chi si deve misurare con la prova iniziale, di valutazione delle proprie conoscenze e competenze, prevista in ogni percorso di laurea giuridico ̶rappresenta una sorta di supporto a una scelta che di anno in anno risulta sempre più complessa, visti anche gli innumerevoli corsi di laurea che le universitàoffrono alla platea dei giovani diplomati.

L’orientamento è vera e propria formazione, anche per ciò che riguarda l’acquisizione da parte dei giovani di valori etici,inserendosi nella più complessa e articolata costruzione di una cittadinanza attiva.Infatti, l’avvio fin dai banchi di scuola della definizione di un personale complesso di valori e principi da conservare come patrimonio finalizzatoallo svolgimento del lavoro futuro, potrà rivelarsi assai utile per i giovani, perché contribuirà a rendere la loro attività professionale più forte.

Una consapevolezza delle difficoltà e un’eticanella propria realizzazione, prima come cittadinopoi comelavoratore, che il giovane si potrà costruire anche grazie a un’attività di orientamento efficace, moderna e “professionale”.

(8 luglio 2019)

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In difesa della cultura giuridica. Fra tradizione e riforme dei nostri studi (di Emanuele Stolfi)

Ripropongo qui – su cortese sollecitazione di Giovanni Cossa e Simone Lucattini – alcune considerazioni da me formulate in un volume collettaneo apparso di recente, e integralmente dedicato a 'fare il punto' circa gli attuali problemi, e i nuovi possibili scenari, che interessano la formazione giuridica .
Il testo che segue – modificato, rispetto alla precedente versione, solo nel titolo (il quale esigeva, distaccandosi dall'originario contesto, una formulazione meno ellittica) e in alcune limitate integrazioni – tiene conto del dibattito riprodotto in quella sede: con una pluralità di prospettive che testimonia, se non altro, la vivacità della riflessione in atto presso tutti i giuristi, nella piena consapevolezza che ci troviamo dinanzi a mutamenti di estremo rilievo, e di straordinario impatto sul nostro quotidiano impegno di ricercatori e docenti. La percezione di avere di fronte difficoltà di ampio respiro, che in gran parte trascendono il lavoro di tutti noi, non si è mai tradotta, in chi ha partecipato a quella discussione, in acquiescenza o smobilitazione. Un segno non trascurabile, a fronte di tante riforme che ci hanno riguardato, e che i professori universitari hanno quasi integralmente subíto, senza apprezzabili reazioni critiche.
È doveroso (ma anche pressoché superfluo) precisare che sull'orientamento assunto in queste pagine incide, in qualche misura, la veste professionale del suo autore: che è uno storico del diritto, e più precisamente di esperienze giuridiche da noi molto distanti nel tempo (quelle di Roma e della Grecia antiche). Oso sperare, tuttavia, di non essere stato troppo condizionato da logiche di parte: se a certe conclusioni sono stato condotto da un certo 'spirito di corpo', questo non era dettato da battaglie di retroguardia né dalla difesa a oltranza di una piccola comunità di studiosi (che pure merita rispetto), ma dal senso dell'appartenenza alla scienza giuridica nella sua integrità. Della quale è tempo di riaffermare, pur con un lessico doverosamente svecchiato, l'intima unità: che riposa, innanzi tutto, sulla nostra tradizione, e non solo su quella più recente.

 

1. Non solo crisi


Logorata dall'uso, la nozione di crisi – già in sé spesso opinabile, quando a servirsene sia lo storico (anche) del diritto – rischia di spegnersi in una formula di rito, che probabilmente non aiuta molto a capire e tantomeno a indicare vie d'uscita. Un topos tralatizio, che finisce per attrarre ed esaurire, captare per sterilizzarla, ogni discussione attorno ai problemi con cui dobbiamo misurarci. Evocarla inquieta e appaga a un tempo, elidendo (o almeno attenuando) ogni responsabilità, anche di riflessione critica. E da essa procedono dinamiche di molteplici interazioni, in cui diviene difficile, se non impossibile, distinguere le cause dagli effetti.
Tutto si fa incerto e sfumato, dileguando in un gioco senza fine di rifrazioni e cerchi concentrici, dinanzi ai quali doverci (o poterci) sentire inermi, ma in certa misuri assolti, perché impotenti senza colpa. La crisi degli studi in Giurisprudenza si dilata a crisi della cultura giuridica e del ruolo del giurista nell'odierno scenario delle professioni, si proietta nell'ambito della crisi dell'istruzione (in particolare) pubblica , cioè della (mille volte evocata) crisi dello Stato (almeno in questa, che costituisce da tempo una delle sue funzioni primarie), ma anche sullo sfondo della crisi del nostro intero sistema economico, dei nostri tradizionali valori, delle istituzioni familiari e delle strategie di investimento sociale, sino a coinvolgere la stessa identità occidentale e di quello che per millenni ha più concorso a costituirne l'essenza – i suoi articolati «regimi di storicità», non schiacciati sul solo «presentismo del presente» , e i suoi saperi stimati più alti, anche se (e non di rado proprio perché) privi di immediate ricadute applicative.
La «geometria del pessimismo» che viene così a delinearsi ha dalla sua molte buone ragioni, da cui non è facile (né forse del tutto legittimo) prescindere per chi affronti la specificità di certi fenomeni. La consapevolezza che essi si inscrivono in un più vasto complesso di repentine e radicali trasformazioni, tali da incrinare molte saldezze trádite – e non nei termini traumatici ma estemporanei di una crisi, quanto piuttosto entro un moto d'insieme, accelerato e annichilente, che è cifra peculiare e connaturata al nostro tempo – rende manifesto che non siamo i soli a soffrire (magrissima consolazione), ma anche come sia titanico sovvertire il corso delle cose, e reagire a una disaffezione per la formazione e trasmissione del sapere giuridico.
Eppure qualcosa dobbiamo pur tentare di fare, e assumerci integralmente l'onere del nostro destino, per quanto ciò possa apparire fittizio, o velleitario, al disincanto della ragione. La minore attrattiva dei corsi di laurea in Giurisprudenza – che lamentano quasi ovunque vistosi decrementi di immatricolazioni (migliaia ogni anno) –, il livello mediamente basso dell'istruzione che siamo costretti a impartire (stretti fra una scuola superiore che ha perduto in rigore per non guadagnare in innovazione didattica, e una pressione ministeriale che valuta solo sulla scorta di grezzi parametri quantitativi, per cui è lodevole solo ciò che venga semplificato sino alla banalità più dozzinale, superabile senza fatica da chiunque abbia il solo merito di pagare le tasse universitarie), il contrarsi degli sbocchi professionali dei nostri laureati, sui quali il mondo del lavoro è sempre meno disposto a investire: tutto ciò, e molto altro ancora, è sotto gli occhi di tutti.
Né vale insistere troppo sulla circostanza – incontestabile – che su questo precipita un complesso di dati, rispetto ai quali possiamo incidere ben poco, se non richiamarli con forza dinanzi a chi cavalca quei numeri più o meno allarmanti per screditare la nostra funzione, porre in discussione lo statuto profondo della scienza giuridica e condannarci a meri erogatori di informazioni, all'insegna di un nozionismo che si vorrebbe al passo dei tempi, ed è invece destinato a rivelarsi sempre attardato (vi tornerò) , il più vulnerabile se preso nella «tenaglia» di economicismo e tecnocrazia . Non iscriversi alla laurea magistrale in Giurisprudenza o rinunciarvi dopo pochissimi esami non è solo espressione dei limiti dei suoi docenti, incapaci di abbandonare modelli formativi antiquati.
È, piuttosto, anche un inevitabile (o quasi) frutto dei tempi, con famiglie che non sono più disposte a sopportare sacrifici per garantire ai figli un'istruzione priva di un ritorno immediato e copiosamente remunerativo; manifestazione di un sentire sociale (assecondato dalla miopia politica) che non tollera il gravame di una formazione rigorosa e perciò selettiva (ossia autenticamente meritocratica, che poi significa non classista) e non riesce a dispiegare lo sguardo nel tempo, chino sul momentaneo, e di diffuse convinzioni che vogliono ogni decisione rilevante, nel pubblico come nel privato, dettata solo da praticabilità economica e volontà politica, confinando il giurista a mero controllore della correttezza formale (se non a bieco consigliere circa gli stratagemmi da adottare per eluderla).
Se a questo, nell'immaginario collettivo, è ridotto il ruolo dello studioso e operatore del diritto, vorrà pur significare qualcosa. E del resto è noto come ogni realtà storica abbia privilegiato alcuni saperi piuttosto che altri, assumendone i protagonisti quali intellettuali (più o meno «organici» o «di regime») provvisti di una funzione di guida, al di là del loro stesso ambito disciplinare. Riuscire a identificarli, riconoscerne le funzioni e la stessa veste simbolica rivela sempre molto dei rispettivi scenari politici e sociali, contribuendo a individuarne i tratti di fondo – dai «maestri di verità» incarnati dai poeti della Grecia arcaica ai filosofi dell'Atene fra V e IV secolo a.C., da oratori e iuris prudentes di estrazione aristocratica nella Roma tardorepubblicana ai vescovi detentori della parrhesía nell'impero tardoantico sino ai giuristi dell'Italia comunale , i moderni «consiglieri del principe», i professori (soprattutto di diritto) dell'Europa liberale, i medici della Germania nazista e gli odierni tecnocrati ed esperti di finanza .
Il giuridico, negli ultimi decenni, si è irradiato anche su fasi e dimensioni del vissuto umano che sembravano essergli precluse , cercando di catturare alla sua attitudine disciplinante ogni spazio della «nuda vita»; e tuttavia esso ne è uscito come sfibrato, con un'identità vacillante, e una presa infinitamente meno salda sugli ambiti che da un tempo remoto gli sono stati propri. Non si tratta di rivendicarne – con una demistificazione salutare e arricchente – la «feconda impurità» , ma di constatare con preoccupazione come ai suoi interpreti altri, nella comune sensibilità, si siano affiancati, sino a relegarli ai margini di molte, decisive strategie: psicologi, sociologi, politologi e soprattutto economisti.
Dinanzi a tutto questo, all'improvviso, il giurista si è scoperto povero. Protagonista di una tecnica plurimillenaria, da sempre apparsa ineludibile nell'edificazione di qualsiasi forma di compagine pubblica e nella regolamentazione della convivenza umana, depositario di un complesso di principi, concetti e lessico dall'incalcolabile peso sociale – che sgomentava e disarmava i profani, per porli alla sua mercé –, padrone di pratiche discorsive inestricabilmente intessute col potere, oggi egli si avvede di avere ben poco in mano. Scarso peso nei luoghi istituzionali di legislazione e governo (ove fino a pochi decenni fa si accedeva solo con una robusta formazione giuridica), scarso appeal sui giovani, scoraggiati dal defatigante tecnicismo del diritto e dal suo stesso, troppo rigoroso, linguaggio esoterico; scarsa considerazione sociale – soprattutto per gli avvocati, a meno che non siano di straordinario (ma sempre sospetto, in quel caso) successo economico. Non parliamo poi dei professori universitari: stimati dai più fannulloni e corrotti, nepotisti incalliti, costruttori di vacue dottrine, prive di alcun riscontro nella realtà, a un passo dall'onanismo intellettuale.
L'ambizione di molte famiglie italiane è stata per decenni avere un figlio laureato in Giurisprudenza (e poi giudice, notaio o avvocato): era elevazione (o conservazione di prestigio) sociale e garanzia di benessere, ma anche – si trattava pur sempre di professioni «intellettuali» – sinonimo di crescita culturale e investimento sul futuro. Oggi questo scenario, ideale ma anche estremamente concreto, si è quasi del tutto dissolto. Resiste solo entro fasce opposte della popolazione: quelle più elevate (per cui gli sbocchi professionali sono però garantiti più da relazioni familiari, se non clientelari, e da esperienze sul campo, tanto più se fuori d'Italia, che dalla laurea acquisita) e altre che si rinvengono, immuni per arretratezza, nelle campagne e nei paesi, soprattutto del Mezzogiorno. Per il resto, semplicemente, vendiamo sogni che non esistono più.
E, oltre che povero, quasi di colpo il giurista si è scoperto vecchio. Il suo modo d'esprimersi suona gratuitamente desueto, lo specialismo dei suoi studi indecifrabile e remoto – quanti colleghi di diritto civile o amministrativo vengono presentati, nei talk-show televisivi, quali «costituzionalisti», quasi che l'impropria assimilazione possa renderli meno respingenti e distanti, prossimi alle materie più frequentate dai giornalisti? La tenuta delle categorie di cui teorici e operatori del diritto si servono da secoli è quotidianamente minata dall'erompere di nuove realtà, e soluzioni normative, imposte dal turbine del progresso tecnologico e dalla dimensione sovranazionale (a quello connessa) di scambi, relazioni, interessi. Da sempre impegnato in una disciplina in costante dialogo col proprio passato, per attingervi concetti e schemi ordinanti – giacché il diritto «non ha una storia», semplicemente «perché é storia» –, e come tale contrassegnata da vischiose ma rassicuranti continuità (il tradizionalismo, quale cifra di fondo pressoché ineludibile, di un intero ceto, anche nei suoi esponenti più aperti al nuovo), il giurista avverte adesso che tutto ciò appare ai più un insensato ingombro, la difesa di un privilegio corporativo (chissà poi quale) affidata a una logica stantia e a una terminologia attardata.

 

2. Una proposta «inattuale»


«Meno diritto romano, più diritto dell'informatica!». In questa e analoghe espressioni – in linea con chi ritiene di poter ridurre una politica di riforme nei moduli espressivi (e nello spessore di pensiero) di un social network – veniva da alcuni condensata (ma forse c'era poco da sintetizzare: la sua profondità concettuale era tutto lì, in quel conciso vaniloquio) la strategia di rinnovamento degli studi giuridici, in grado di traghettarli fuori dell'odierno stallo e renderli ancora una volta appetibili. L'orrore che ne ho provato non credo fosse dettato solo dall'interesse (in ogni senso) personale – dal momento che il primo mi dà da vivere e del secondo ignoro quasi tutto. Il mio sgomento, come dinanzi a molte sublimi manifestazioni dell'idiozia umana, era anche amara constatazione di un'assoluta impossibilità di dialogo. E scoprirmi così estraneo alla diffusa ideologia sottesa a simili enunciazioni, e al seguito (forse epidermico ma certo non trascurabile) che esse avrebbero riscosso, mi ha fatto sentire – lo dico con tutta franchezza, sperando che essa non sia intesa come arroganza – provvidenzialmente «inattuale» , salvato dal mio tempo.
La logica (se pomposamente vogliamo chiamarla tale) che sorreggeva, e tuttora sorregge, slogan di quel tipo non è in effetti difficile da riconoscere. La formazione giuridica non attrae come un tempo perché – si sostiene – non è più al passo con le nuove realtà dell'economia e delle professioni, che esigono la massima specializzazione, una preparazione mirata in questo o quel (micro)settore. I giuristi devono radicalmente svecchiarsi, abbandonare certe sembianze paludate, porgersi in modo nuovo, twittare (in english, of course!) coi propri studenti e assicurarsi che essi sappiano, su quel piano, articolare una risposta – non occorre per questo un semestre a Oxford –, per stimare invece veniali certe loro disinvolture espressive (secondo i parametri di una lingua a sua volta antiquata e periferica come l'italiano) o sovrapposizioni concettuali (anche la «logica dei dintorni», che non consente di distinguere proprietà da possesso o invalidità da inefficacia, è una rispettabile espressione della temperie odierna). Si liberino dal fardello ostico e opprimente – per loro e per gli altri – di tutte quelle scorie del passato, inerte erudizione senza tangibili ricadute (giusta la raffinatissima convinzione, ormai consolidata e bipartisan, per cui «con la cultura non si mangia»). A quale imprenditore volete che interessino le dottrine del contratto di giuristi vissuti quasi duemila anni fa, o la teoria del dominio utile e diretto messa a punto appena una decina di secoli più tardi? E se non interessa a lui, perché dovrebbe farlo rispetto a ragazzi di diciott'anni destinati a entrare da vittime sacrificali nel mondo nel lavoro, resi inermi e passivi da almeno tredici anni di buonismo scolastico, spontaneo o indotto che sia (chi si arrischia a tentare un minimo di selezione sa perfettamente di essere atteso da almeno due gradi di giudizio amministrativo)?
La storia ha sostituito la matematica come materia più odiata dagli studenti delle scuole medie inferiori e superiori: trovarla troppo presente in un corso di Giurisprudenza – in almeno due settori disciplinari ad essa rivolti, senza contare le sue insopportabili propaggini nella comparazione giuridica e anche in certe gratuite premesse allo studio del diritto vigente – scoraggerebbe chiunque. Meglio prevenire la fuga, e convincere piuttosto i giuristi a fuggire dalla storia, e da tutto ciò che si presenti come mera cultura giuridica: si preoccupino di preparare in cose serie, che danno il pane. Per abbellire lievemente il tutto, sarà sufficiente, finché se ne abbia voglia, una carrellata a volo d'uccello nei primissimi momenti del percorso di laurea. Potrebbero forse bastare, per coprire l'intero cammino del diritto in Occidente, una quindicina di slides, da Hammurabi, o più probabilmente da Romolo e Remo (ma anche «Remolo» è stato ormai sdoganato) ai codificatori del 1942.
Mi fermo qui. La ricostruzione di quel modo di ragionare sarebbe però ancora lunga, sino a coinvolgere lo stesso ruolo che si vorrebbe assegnare alle lauree triennali (accompagnate o meno da biennali), magari sul presupposto del loro formidabile successo – rispetto alla laurea magistrale quinquennale – a livello di sbocchi occupazionali. Argomento di per sé risibile, che conferma solo come nulla sia meno neutro e incontrovertibile del bruto dato numerico, se ne difetta una lettura intelligente: è infatti noto come molti degli iscritti a quei percorsi brevi un lavoro lo hanno già al momento dell'immatricolazione (e in certi casi la loro età media supera quella dei docenti!).
Resisto alla tentazione – che pure avverto, viscerale e violenta – di replicare con ragionamenti di ordine teorico, e dal carattere (che potrebbe essere giudicato) troppo elevato e ambizioso. Sarei infatti tentato di rispondere che quando una società rinuncia a investire nella sua cultura (o comunque asseconda e blandisce, anziché contrastare, la dilagante disaffezione per essa) – e non fa certo eccezione la cultura del diritto, che di ogni compagine è espressione peculiare e profonda – non merita, semplicemente, di sopravvivere a se stessa: la sua stessa miopia la consegna alla periferia del mondo e della storia. E anch'io, come di recente Maurizio Bettini , potrei ricorrere alla definizione che della «coltura» proponeva Gaetano Salvemini , secondo il quale essa costituisce «la somma di tutte quelle cognizioni che non rispondono a nessuno scopo pratico, ma che si debbono possedere se si vuole essere degli esseri umani e non delle macchine specializzate. La coltura è il superfluo indispensabile». Dal che anche la risposta che ho imparato a formulare ai molti che da vent'anni mi perseguitano con la domanda «ti occupi di diritto romano: ma a cosa serve?», e che mi sono persuaso di poter zittire solo con l'ironia: «a poco; infatti adesso mi interesso anche di diritti greci, che non servono a niente».
Rinuncio a volare così alto e mi sforzo di pormi sul piano – strettamente operativo, se vogliamo anche utilitaristico – della logica che ho poc'anzi evocato, quale diagnosi della progressiva marginalizzazione degli studi giuridici e sua radicale terapia. Due, connessi ma distinti, mi sembrano i suoi punti focali: l'identità del nuovo giurista e la tipologia di formazione universitaria che egli dovrà garantire. Perché l'uno e l'altra «servano» a qualcosa, e in quanto tali riescano di nuovo attraenti, il primo – si dice – dovrà assumere la fisionomia del puro tecnico, senza altro campo d'interesse se non la normativa oggi vigente nel rispettivo ambito disciplinare (e tanto più meritevole sarà il suo impegno ove più recente, e in divenire, sarà la disciplina con cui egli saprà confrontarsi); la seconda dovrà il più possibile ridisegnarsi a ridosso delle esigenze del mondo del lavoro, quale trasmissione di un bagaglio specialistico di nozioni, un autentico apprendistato professionalizzante orientato sulla concretezza degli sbocchi futuri (del resto a cos'altro mira, già adesso, l'anticipazione di un semestre di pratica forense all'ultimo anno del corso di laurea a ciclo unico?). In una parola, il giurista come puro tecnico, i dipartimenti di Giurisprudenza come enti erogatori di nozioni, strettamente limitate a quelle spendibili dal futuro operatore del diritto.
Ecco, a me sembra, molto brutalmente, che tutto questo «non paghi» affatto: non solo perché (credo sia innegabile) deprimente sul piano culturale – non vi insisto, per i motivi indicati poco fa –, ma proprio perché incapace di assicurare un ritorno soddisfacente, anche solo sul medio termine. Non è remunerativo: anzi, è del tutto controproducente. Il rimedio è peggiore del male, e condurrebbe a rendere strutturale, e irrecuperabile, la nostra subalternità, inchiodandoci a inseguire, anziché cercare di indirizzare e gestire, qualcosa che è altro da noi: perennemente a rimorchio, e fatalmente in ritardo. Assecondare quelle tendenze, dialogarvi anche al fine (anche condivisibile) di ridurre i danni che possono determinare, significa in qualche misura farsene complici, e finire di smantellare la funzione della scienza giuridica – in modo non lontano, e anche meno elegante, di chi la vorrebbe ormai ridotta ad assistere impotente al farsi delle norme dal nulla e nel nulla risprofondare, aggrappata alla sola forma, suo ultimo disperato «salvagente» .
Non «paga» presentare il giurista come (ossia ridurlo a) un puro tecnico. Al contrario, è anzi verosimile – come già è stato colto dai più avveduti – che proprio una simile configurazione abbia contribuito alla sua sostituzione – nelle gerarchie della ragion pratica e nei centri di decisione – con cultori di altre e (così sembrava) meno controvertibili discipline, dalla statistica all'economia (con l'aggiunta, a parziale recupero della dimensione civile un tempo appannaggio del giurista, di una sociologia spesso nebulosa). A puri tecnici si sono avvicendati altri puri tecnici, percepiti (in modo improprio, ovviamente) come portatori di un'ancor più integra neutralità. Miti vecchi e nuovi – ieri la «purezza del diritto» (di Vittorio Scialoja ancor prima di Kelsen) , oggi tecnocrazia, analisi economica e forme molteplici di «creatività finanziaria» – si sono chiusi in una morsa. Abbiamo appena fatto in tempo a enunciare liberatoriamente che, accanto alle tecniche (e indissolubilmente da esse) il lavoro giuridico coinvolge anche l'ideologia, e che quest'ultima è (o dovrebbe essere) «parola da non far più paura» , che tutto questo si è spento e rifluito, per consegnarci ancora una volta all'idolo della neutralità, o semplicemente renderci disinteressati del problema stesso, per chiudersi di fatto dentro allo specialismo, alla tecnica «che serve» (e non è solo un male che noi studiosi subiamo dall'esterno: l'intera produzione scientifica, soprattutto dei più giovani, sembra esserne in genere condizionata).
E ancor meno «paga» pensare che il nostro compito sia tanto più apprezzato e remunerativo – sul piano dell'attrattiva dei corsi di laurea in Giurisprudenza – quanto più concentrato sulla trasmissione di nozioni immediatamente spendibili, elementi oggettivi e certi da sciorinare con prevedibile successo – dati normativi (anche i più riposti e minuti), decisioni giurisprudenziali, orientamenti della prassi negoziale o amministrativa. A parte l'ovvio inconveniente di un approccio didattico così destinato a essere superato già il giorno successivo al superamento dei rispettivi esami – perché empiricamente legato a un bagaglio di leggi e leggine, regolamenti e circolari, che spesso vigono nello spazio di un mattino (e tanto più nei settori che si pretenderebbe di porre al centro dei nostri studi: diritto dell'informatica, degli enti finanziari, delle negoziazioni on line ecc.) –, è la stessa logica che vi presiede a rivelarsi, essa sì, tremendamente vecchia.
In realtà nulla, ai nostri giorni, è così rapidamente raggiungibile come le singole nozioni. Il peggior ignorante della terra, ma che sappia navigare su internet, raggiunge più informazioni di quelle che avrebbe potuto solo immaginare Pico della Mirandola (pur rimanendo, ovviamente, l'ignorante che era prima, e anzi incoraggiato a restarlo). Molti esseri umani stanno atrofizzando ampie porzioni della propria intelligenza (cominciando dalla memoria) delegando alla tecnologia quel che prima affidavano al cervello. Ci stiamo forse avviando a divenire semplici supporti animati di quel che presto sostituirà I-Pad e Smartphone, così da rendere sempre più labile il diaframma fra sapere dell'individuo (rectius, a cui l'individuo più accedere) e sapere della specie: un fatto epocale nella parabola dell'homo sapiens, unico tra i viventi ad aver votato la sua esperienza proprio a ispessire e articolare quel diaframma, e che per certi versi – anche se per eccesso, e non penuria, di cognizioni (reali o potenziali) – lo riconsegna, oggi o domani, all'istintualità animale.
In uno scenario del genere – che non credo di aver evocato in termini troppo irrealistici, e che anzi nel prossimo futuro è verosimile sarà ancora accentuato – puntare sulla mera trasmissione di informazioni è, con ogni evidenza, una scelta perdente. I nostri studenti non hanno tanto bisogno di sapere cosa recita il tale articolo del codice o di un remoto regolamento – questo lo apprendono assai più rapidamente digitando sul telefonino sotto (ma ormai anche sopra) il banco. Ciò di cui hanno maggiormente bisogno, e sui dovremmo centrare la nostra offerta didattica, è proprio l'inverso: è tutto ciò che i supporti digitali e informatici non possono garantire, che è un complesso di tecniche, attitudini, sensibilità che vengono dalla tradizione e intessono la cultura giuridica.
Su questo è necessario puntare, assumendo l'elemento informativo (pur indispensabile) a mero dato strumentale. Tecniche di definizione e qualificazione, tipologie e momenti dell'interpretazione, individuazione di lacune e antinomie, soluzione di ambiguità e vaghezze, modalità di esame del caso e di confronto fra esso e le fattispecie normative, comparazione (ma ragionata e critica, non meramente descrittiva) fra le nostre e le soluzioni legislative (e non solo) di altre realtà, corretta impostazione di una tesi interpretativa e allestimento, rigoroso ma anche efficace sul piano suasorio, di una strategia argomentativa a suo sostegno. Questo è appunto «il superfluo indispensabile» che dovremmo porre al centro della nostra proposta formativa, non per esaurirlo in pochi insegnamenti iniziali di teoria e storia del diritto, ma per farne cifra ricorrente e intrinseca a tutta la nostra didattica.
E se davvero il giurista è divenuto povero, gli sarà indispensabile attingere alla tradizionale risorsa dei poveri: la fantasia. Dovrà essere in grado, come un personaggio buffo di Jodorowski, di addestrare le ombre a saltare e gli specchi a cantare. Dovrà reinventarsi uno stile di trasmissione del sapere, che salvaguardi però – proprio perché nuovo – la sua specifica identità. Solo la rivoluzione salva il passato, ammoniva il pensatore italiano più antico del Novecento, Pier Paolo Pasolini, ricorrendo a un (apparente) ossimoro, come così spesso accadeva nella sua filosofia di poeta. Il nuovo consista nei metodi ancor più che negli oggetti di insegnamento: più casistica, più esercitazioni pratiche, più occasioni di sinergie didattiche (con lo stesso tema esposto agli studenti da docenti di materie diverse), più argomentazione giuridica, più esercizi di reciproca dialettica fra insegnanti e/o studenti che sostengano tesi interpretative contrapposte e si impegnino nel sostenerle e confutarle a vicenda, più preparazione alla retorica forense e alla scrittura di atti – facendo magari comprendere che l'uso appropriato della lingua italiana è indispensabile per chi intenda apprendere una (ulteriore) cultura delle regole.
Lavoriamo sull'affinare il senso giuridico dei nostri ragazzi, che non è patrimonio comune né nasce spontaneamente (ben lo sapeva un maestro come Vittorio Scialoja), ancor più che ingozzarli di nozioni dettagliate e indigeste, che dimenticheranno ancor prima di arrivare a un colloquio di lavoro. Quel che darà loro il pane è proprio quanto viene dalla storia alle nostre spalle, e dalla tanto svilita cultura: capacità di diagnosi giuridica, abilità nell'affrontare casi problematici e bilanciarvi gli interessi in gioco, formulazione elegante e convincente di un complesso discorsivo, attitudine al disputare e controvertere sui profili giuridici, e (ancor prima) a saperli rintracciare entro il labirinto dei fatti.
Nessuna alterità o cesura fra studio storico-giuridico e analisi del diritto positivo. Le informazioni attorno ai rispettivi nuclei normativi dovrebbero essere, in entrambi i casi, solo il passo iniziale, l'indispensabile premessa. E chi sia impegnato su esperienze del passato finisce anzi con l'essere avvantaggiato, se (come dovrebbe) pienamente consapevole che, di per sé, le nozioni che egli impartisce non sono di alcuna diretta utilità . È il fascio di metodi e riflessioni critiche che le avvolge – il metodo topico dei giuristi antichi e le rielaborazioni che hanno innescato negli interpreti di oltre mille anni – a garantirne ancora una validità formativa, felicissimamente inattuale. Su certi motivi di lungo periodo – il necessario radicamento del diritto nella giustizia ma la sua distinzione dalla morale e (almeno nell'esperienza dell'Occidente) dalla religione, l'esigenza di disciplinare in modo congruo e proporzionalmente eguale le concrete situazioni, il calcolo degli effettivi interessi coinvolti, i metodi del ragionamento e dell'argomentazione, le rationes decidendi messe in campo – credo che ciascuno, nei propri insegnamenti, dovrebbe insistere maggiormente, facendo verificare ai nostri giovani come tanti slogan oggi in voga abbiano ben poco di inedito, che l'esistenza (cioè la storia) del diritto è sempre scandita dall'intrecciarsi di trama e ordito di continuità e cesure (ove le difformità morfologiche non sono meno significative delle persistenze genealogiche), e che quello giuridico non è un linguaggio esoterico e remoto, ma traduce e coinvolge (pur nella sua ineludibile carica di astrazione, e nel suo specialismo, mai neutro) la vita e la carne di ciascuno – è composto di parole, ma con le quali è dato (secondo la fortunata formula di Austin) «fare cose», e tra le più rilevanti nella convivenza umana .
Ragioniamo dunque pure di percorsi alternativi, che affianchino quello a ciclo unico (ma senza sovrapporsi con esso, consentendo troppo agevoli transiti, che snaturerebbero gli uni e l'altro), ma sforziamoci di resistere, in merito a quest'ultimo, a nuovismi approssimativi e volgari, senza respiro e senza futuro, che amputano senza ripensare in profondità. Anche buttare a mare la tradizione può essere una scorciatoia. La proposta «inattuale» che ho formulato costa fatica, e molta, a docenti e studenti: è più gravoso (condurre a) pensare che (imporre di) immagazzinare dati. Ma è anche più gratificante, e più remunerativo. Il giurista abbia il coraggio di non rinunciare alla propria identità – che è costituita in primo luogo dalla sua storia e dalla sua cultura; dalla profonda, intrinseca unità del suo sapere –, ed eviti di indossare vesti a lui inadatte. Cadrebbero presto: e così, oltre povero e vecchio, egli si scoprirebbe anche vergognosamente nudo.

(22 maggio 2018) 

Note

1. Si veda infatti E. STOLFI, Salvaguardare la cultura del giurista, in B. PASCIUTA-L. LOSCHIAVO (a cura di), La formazione del giurista. Contributi ad una riflessione, Roma 2018, pp. 169 ss.


2. Ho sempre trovato calzanti, per quanto messe a punto in un diverso contesto storico, e alle prese con altre 'crisi', le riflessioni che attorno a questo concetto formulava L. RAGGI, Materialismo storico e studio del diritto romano, ora in Scritti, Milano 1975, pp. 2 ss., stimandolo «valido … solamente nel quadro di una interpretazione teleologica della storia, cioè in relazione ad uno svolgimento finalistico … In tali concezioni il concetto di crisi, come avvenimento palingenetico che pone una frattura nella storia … svolge un’utile funzione. Muovendo invece da premesse storicistiche, il concetto di crisi, come anomalia eccezionale del moto storico, non riesce mai ad assumere un significato teoreticamente valido e storiograficamente utile, ma si risolve per lo più in un generico sentimento di pessimismo» (in
questo senso, anche lo svolgimento storico di qualsiasi esperienza giuridica non si rivela altro «che una serie ininterrotta di crisi»).


3. Pur in modo differenziato e spesso nebuloso, il nostro paese – ma non esso soltanto, probabilmente – percepisce che non è più l'università (in particolare quella pubblica) l'istituzione cui è ancora pienamente demandata la triplice funzione che storicamente ha assolto: di centro prevalente della vita culturale, di luogo di formazione della classe dirigente, di ente che seleziona e prepara al mondo del lavoro. Altre dinamiche e altre realtà, più a ridosso dei centri di potere economico – schiacciate sulle sue logiche e ormai prive di efficaci mediazioni –, premono e incombono, a loro volta agevolate dal diffuso discredito riversato sul mondo accademico.


4. Presuppongo F. HARTOG, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, trad. it. Palermo 2007, spec. pp. 13 ss., 52 ss. Cfr. inoltre E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia. Itinerari, Bologna 2010, pp. 51 ss. ove altra bibl.


5. Mutuo la formula, coniata in altro contesto – ma sempre inerente alla storia giuridica: si riferisce infatti ad alcuni temi emergenti dall'epistolario di Cicerone col giurista Servio Sulpicio Rufo – da A. SCHIAVONE, Ius. L'invenzione del diritto in Occidente, Torino 20172, p. 269.


6. Infra, § 2.


7. Riprendo, ma per lasciare qui sullo sfondo la «clero-crazia» cui egli congiuntamente si richiama, una formula di N. IRTI, La tenaglia. In difesa dell'ideologia politica, Roma-Bari 2008, spec. 36 ss., 57 ss.


8. Nel senso di M. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica, trad. it. Roma-Bari 1977.

9. Nella composita valenza della nozione greca – ma dalla parabola storica ancor più lunga – posta in luce soprattutto da M. FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collége de France (1981-1982), trad. it. Milano 2011, spec. pp. 121 ss. e ID., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collége de France (1982-1983), trad. it. Milano 2009, pp. 49 ss., spec. 341 ss. (in riferimento alle sue nuove declinazioni connesse alla pastorale cristiana, di fronte a un potere imperiale sempre più assoluto).

10. Ho in mente, tra la folta letteratura in proposito, soprattutto M. SBRICCOLI, L'interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell'età comunale, Milano 1969, spec. pp. 49 ss.

11. Per un'acuta e suggestiva lettura filosofica di quest'aspetto si vedano almeno G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995 (poi 2005), spec. pp. 131 ss., 159 e R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino 2004, spec. pp. 137 ss. e 149 ss.; ID., Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale, Torino 2007, spec. pp. 70 ss.

12. Ai quali dobbiamo anche quella torsione del lessico culturale, invaso da «metafore economiche» (dal «patrimonio storico e artistico» ai «beni» o «giacimenti culturali» sino ai «prodotti» dei docenti universitari, oggetto di «valutazione» da parte di organi ministeriali), su cui ha recentemente ironizzato M. BETTINI, A che servono i Greci e i Romani? L'Italia e la cultura umanistica, Torino 2017, pp. 9 ss.

13. Sull'odierna «law-satured society», per tutti, S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano 2009, pp. 9 ss.

14. Nel senso di R. ORESTANO, ‘Diritto’. Incontri e scontri, Bologna 1981, spec. pp. 558 ss.

15. Secondo la felice notazione di P. CARONI, La solitudine dello storico del diritto. Appunti sull'inerenza di una disciplina altra, Milano 2009, p. 123. In senso non molto difforme già R. ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 332 ss. (con radicali perplessità circa la tralatizia distinzione fra «conoscenza scientifica» e «conoscenza storica» del diritto).

16. In una sua precisa valenza, così rilevante anche per lo storico del diritto (cfr. E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia, cit. nt. 4, pp. 75 ss. ove bibl.), riconducibile alla nozione nietzscheana di «unzeitgemäß». La ritroveremo ancora, nelle pagine seguenti.

17. A che servono i Greci e i Romani?, cit., nt. 12, p. 4.

18. Che cosa è la coltura?, Parma 1954, p. 11.

19. I riferimenti sono ovviamente a N. IRTI, Nichilismo giuridico, Roma-Bari 2004 e ID., Il salvagente della forma, Roma-Bari 2007. Cfr. anche ID., Un diritto incalcolabile, Torino 2016. Per un quadro delle riflessioni, soprattutto critiche, destate dall'impostazione di Irti cfr. L. GAROFALO, Giurisprudenza romana e diritto privato europeo, Padova 2008, p. 212 nt. 124 ed E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia, cit. nt. 4, p. 41.

20. Posso rinviare, in proposito, a E. STOLFI, Giuristi ideologie e codici. Scialoja e Betti nell'interpretazione di Massimo Brutti, in «Sociologia», 48, 2014, pp. 77 s., 86.

21. Riferimenti più puntuali ancora in E. STOLFI, Giuristi ideologie e codici, cit. nt. 20, pp. 73 s.

22. Ove si illuda del contrario, e su questa falsa rappresentazione modelli la propria offerta didattica, è mia convinzione che il suo apporto non solo sia sostanzialmente inutile, ma anzi affatto dannoso. Il miglior argomento nelle mani di chi vorrebbe spazzare dagli studi giuridici i corsi di storia del diritto (antico, medievale e moderno). Conoscere perfettamente i requisiti
formali del testamentum per aes et libram nella Roma tardorepubblicana, o il numero dei vestimenta pactorum riconosciuti da Piacentino, non rende alcuno studente un migliore operatore del diritto, una volta uscito dall'Università. Semmai – se a suo tempo torturato solo su questi dati nozionistici, senza che ne venisse illustrata l'intima connessione con problematiche di più ampio respiro, che toccano il cuore stesso del diritto privato (il dilatarsi delle possibilità di disporre mortis causa, aprendo alla volontà individuale nuovi spazi di efficacia; il faticoso percorso premoderno che ha condotto il nudo elemento consensuale a produrre vincoli giuridici, ove accompagnato da elementi ulteriori rispetto alla mera volontà delle parti) – lo porterà a ingrossare le fila di quanti conservano un ricordo negativo delle nostre materie, e ne hanno tratto ben poco profitto.

23. Un aspetto su cui non insisteremo mai abbastanza nel presentare alle nostre matricole il percorso di studi che li attende, e poi nel condurli nel cuore delle varie discipline. Si sviluppa proprio attorno a questo tema il mio ultimo libro (attualmente in corso di pubblicazione): Gli attrezzi del giurista. Introduzione alle pratiche discorsive del diritto.

 

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