In difesa della cultura giuridica. Fra tradizione e riforme dei nostri studi (di Emanuele Stolfi)
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Ripropongo qui – su cortese sollecitazione di Giovanni Cossa e Simone Lucattini – alcune considerazioni da me formulate in un volume collettaneo apparso di recente, e integralmente dedicato a 'fare il punto' circa gli attuali problemi, e i nuovi possibili scenari, che interessano la formazione giuridica .
Il testo che segue – modificato, rispetto alla precedente versione, solo nel titolo (il quale esigeva, distaccandosi dall'originario contesto, una formulazione meno ellittica) e in alcune limitate integrazioni – tiene conto del dibattito riprodotto in quella sede: con una pluralità di prospettive che testimonia, se non altro, la vivacità della riflessione in atto presso tutti i giuristi, nella piena consapevolezza che ci troviamo dinanzi a mutamenti di estremo rilievo, e di straordinario impatto sul nostro quotidiano impegno di ricercatori e docenti. La percezione di avere di fronte difficoltà di ampio respiro, che in gran parte trascendono il lavoro di tutti noi, non si è mai tradotta, in chi ha partecipato a quella discussione, in acquiescenza o smobilitazione. Un segno non trascurabile, a fronte di tante riforme che ci hanno riguardato, e che i professori universitari hanno quasi integralmente subíto, senza apprezzabili reazioni critiche.
È doveroso (ma anche pressoché superfluo) precisare che sull'orientamento assunto in queste pagine incide, in qualche misura, la veste professionale del suo autore: che è uno storico del diritto, e più precisamente di esperienze giuridiche da noi molto distanti nel tempo (quelle di Roma e della Grecia antiche). Oso sperare, tuttavia, di non essere stato troppo condizionato da logiche di parte: se a certe conclusioni sono stato condotto da un certo 'spirito di corpo', questo non era dettato da battaglie di retroguardia né dalla difesa a oltranza di una piccola comunità di studiosi (che pure merita rispetto), ma dal senso dell'appartenenza alla scienza giuridica nella sua integrità. Della quale è tempo di riaffermare, pur con un lessico doverosamente svecchiato, l'intima unità: che riposa, innanzi tutto, sulla nostra tradizione, e non solo su quella più recente.
1. Non solo crisi
Logorata dall'uso, la nozione di crisi – già in sé spesso opinabile, quando a servirsene sia lo storico (anche) del diritto – rischia di spegnersi in una formula di rito, che probabilmente non aiuta molto a capire e tantomeno a indicare vie d'uscita. Un topos tralatizio, che finisce per attrarre ed esaurire, captare per sterilizzarla, ogni discussione attorno ai problemi con cui dobbiamo misurarci. Evocarla inquieta e appaga a un tempo, elidendo (o almeno attenuando) ogni responsabilità, anche di riflessione critica. E da essa procedono dinamiche di molteplici interazioni, in cui diviene difficile, se non impossibile, distinguere le cause dagli effetti.
Tutto si fa incerto e sfumato, dileguando in un gioco senza fine di rifrazioni e cerchi concentrici, dinanzi ai quali doverci (o poterci) sentire inermi, ma in certa misuri assolti, perché impotenti senza colpa. La crisi degli studi in Giurisprudenza si dilata a crisi della cultura giuridica e del ruolo del giurista nell'odierno scenario delle professioni, si proietta nell'ambito della crisi dell'istruzione (in particolare) pubblica , cioè della (mille volte evocata) crisi dello Stato (almeno in questa, che costituisce da tempo una delle sue funzioni primarie), ma anche sullo sfondo della crisi del nostro intero sistema economico, dei nostri tradizionali valori, delle istituzioni familiari e delle strategie di investimento sociale, sino a coinvolgere la stessa identità occidentale e di quello che per millenni ha più concorso a costituirne l'essenza – i suoi articolati «regimi di storicità», non schiacciati sul solo «presentismo del presente» , e i suoi saperi stimati più alti, anche se (e non di rado proprio perché) privi di immediate ricadute applicative.
La «geometria del pessimismo» che viene così a delinearsi ha dalla sua molte buone ragioni, da cui non è facile (né forse del tutto legittimo) prescindere per chi affronti la specificità di certi fenomeni. La consapevolezza che essi si inscrivono in un più vasto complesso di repentine e radicali trasformazioni, tali da incrinare molte saldezze trádite – e non nei termini traumatici ma estemporanei di una crisi, quanto piuttosto entro un moto d'insieme, accelerato e annichilente, che è cifra peculiare e connaturata al nostro tempo – rende manifesto che non siamo i soli a soffrire (magrissima consolazione), ma anche come sia titanico sovvertire il corso delle cose, e reagire a una disaffezione per la formazione e trasmissione del sapere giuridico.
Eppure qualcosa dobbiamo pur tentare di fare, e assumerci integralmente l'onere del nostro destino, per quanto ciò possa apparire fittizio, o velleitario, al disincanto della ragione. La minore attrattiva dei corsi di laurea in Giurisprudenza – che lamentano quasi ovunque vistosi decrementi di immatricolazioni (migliaia ogni anno) –, il livello mediamente basso dell'istruzione che siamo costretti a impartire (stretti fra una scuola superiore che ha perduto in rigore per non guadagnare in innovazione didattica, e una pressione ministeriale che valuta solo sulla scorta di grezzi parametri quantitativi, per cui è lodevole solo ciò che venga semplificato sino alla banalità più dozzinale, superabile senza fatica da chiunque abbia il solo merito di pagare le tasse universitarie), il contrarsi degli sbocchi professionali dei nostri laureati, sui quali il mondo del lavoro è sempre meno disposto a investire: tutto ciò, e molto altro ancora, è sotto gli occhi di tutti.
Né vale insistere troppo sulla circostanza – incontestabile – che su questo precipita un complesso di dati, rispetto ai quali possiamo incidere ben poco, se non richiamarli con forza dinanzi a chi cavalca quei numeri più o meno allarmanti per screditare la nostra funzione, porre in discussione lo statuto profondo della scienza giuridica e condannarci a meri erogatori di informazioni, all'insegna di un nozionismo che si vorrebbe al passo dei tempi, ed è invece destinato a rivelarsi sempre attardato (vi tornerò) , il più vulnerabile se preso nella «tenaglia» di economicismo e tecnocrazia . Non iscriversi alla laurea magistrale in Giurisprudenza o rinunciarvi dopo pochissimi esami non è solo espressione dei limiti dei suoi docenti, incapaci di abbandonare modelli formativi antiquati.
È, piuttosto, anche un inevitabile (o quasi) frutto dei tempi, con famiglie che non sono più disposte a sopportare sacrifici per garantire ai figli un'istruzione priva di un ritorno immediato e copiosamente remunerativo; manifestazione di un sentire sociale (assecondato dalla miopia politica) che non tollera il gravame di una formazione rigorosa e perciò selettiva (ossia autenticamente meritocratica, che poi significa non classista) e non riesce a dispiegare lo sguardo nel tempo, chino sul momentaneo, e di diffuse convinzioni che vogliono ogni decisione rilevante, nel pubblico come nel privato, dettata solo da praticabilità economica e volontà politica, confinando il giurista a mero controllore della correttezza formale (se non a bieco consigliere circa gli stratagemmi da adottare per eluderla).
Se a questo, nell'immaginario collettivo, è ridotto il ruolo dello studioso e operatore del diritto, vorrà pur significare qualcosa. E del resto è noto come ogni realtà storica abbia privilegiato alcuni saperi piuttosto che altri, assumendone i protagonisti quali intellettuali (più o meno «organici» o «di regime») provvisti di una funzione di guida, al di là del loro stesso ambito disciplinare. Riuscire a identificarli, riconoscerne le funzioni e la stessa veste simbolica rivela sempre molto dei rispettivi scenari politici e sociali, contribuendo a individuarne i tratti di fondo – dai «maestri di verità» incarnati dai poeti della Grecia arcaica ai filosofi dell'Atene fra V e IV secolo a.C., da oratori e iuris prudentes di estrazione aristocratica nella Roma tardorepubblicana ai vescovi detentori della parrhesía nell'impero tardoantico sino ai giuristi dell'Italia comunale , i moderni «consiglieri del principe», i professori (soprattutto di diritto) dell'Europa liberale, i medici della Germania nazista e gli odierni tecnocrati ed esperti di finanza .
Il giuridico, negli ultimi decenni, si è irradiato anche su fasi e dimensioni del vissuto umano che sembravano essergli precluse , cercando di catturare alla sua attitudine disciplinante ogni spazio della «nuda vita»; e tuttavia esso ne è uscito come sfibrato, con un'identità vacillante, e una presa infinitamente meno salda sugli ambiti che da un tempo remoto gli sono stati propri. Non si tratta di rivendicarne – con una demistificazione salutare e arricchente – la «feconda impurità» , ma di constatare con preoccupazione come ai suoi interpreti altri, nella comune sensibilità, si siano affiancati, sino a relegarli ai margini di molte, decisive strategie: psicologi, sociologi, politologi e soprattutto economisti.
Dinanzi a tutto questo, all'improvviso, il giurista si è scoperto povero. Protagonista di una tecnica plurimillenaria, da sempre apparsa ineludibile nell'edificazione di qualsiasi forma di compagine pubblica e nella regolamentazione della convivenza umana, depositario di un complesso di principi, concetti e lessico dall'incalcolabile peso sociale – che sgomentava e disarmava i profani, per porli alla sua mercé –, padrone di pratiche discorsive inestricabilmente intessute col potere, oggi egli si avvede di avere ben poco in mano. Scarso peso nei luoghi istituzionali di legislazione e governo (ove fino a pochi decenni fa si accedeva solo con una robusta formazione giuridica), scarso appeal sui giovani, scoraggiati dal defatigante tecnicismo del diritto e dal suo stesso, troppo rigoroso, linguaggio esoterico; scarsa considerazione sociale – soprattutto per gli avvocati, a meno che non siano di straordinario (ma sempre sospetto, in quel caso) successo economico. Non parliamo poi dei professori universitari: stimati dai più fannulloni e corrotti, nepotisti incalliti, costruttori di vacue dottrine, prive di alcun riscontro nella realtà, a un passo dall'onanismo intellettuale.
L'ambizione di molte famiglie italiane è stata per decenni avere un figlio laureato in Giurisprudenza (e poi giudice, notaio o avvocato): era elevazione (o conservazione di prestigio) sociale e garanzia di benessere, ma anche – si trattava pur sempre di professioni «intellettuali» – sinonimo di crescita culturale e investimento sul futuro. Oggi questo scenario, ideale ma anche estremamente concreto, si è quasi del tutto dissolto. Resiste solo entro fasce opposte della popolazione: quelle più elevate (per cui gli sbocchi professionali sono però garantiti più da relazioni familiari, se non clientelari, e da esperienze sul campo, tanto più se fuori d'Italia, che dalla laurea acquisita) e altre che si rinvengono, immuni per arretratezza, nelle campagne e nei paesi, soprattutto del Mezzogiorno. Per il resto, semplicemente, vendiamo sogni che non esistono più.
E, oltre che povero, quasi di colpo il giurista si è scoperto vecchio. Il suo modo d'esprimersi suona gratuitamente desueto, lo specialismo dei suoi studi indecifrabile e remoto – quanti colleghi di diritto civile o amministrativo vengono presentati, nei talk-show televisivi, quali «costituzionalisti», quasi che l'impropria assimilazione possa renderli meno respingenti e distanti, prossimi alle materie più frequentate dai giornalisti? La tenuta delle categorie di cui teorici e operatori del diritto si servono da secoli è quotidianamente minata dall'erompere di nuove realtà, e soluzioni normative, imposte dal turbine del progresso tecnologico e dalla dimensione sovranazionale (a quello connessa) di scambi, relazioni, interessi. Da sempre impegnato in una disciplina in costante dialogo col proprio passato, per attingervi concetti e schemi ordinanti – giacché il diritto «non ha una storia», semplicemente «perché é storia» –, e come tale contrassegnata da vischiose ma rassicuranti continuità (il tradizionalismo, quale cifra di fondo pressoché ineludibile, di un intero ceto, anche nei suoi esponenti più aperti al nuovo), il giurista avverte adesso che tutto ciò appare ai più un insensato ingombro, la difesa di un privilegio corporativo (chissà poi quale) affidata a una logica stantia e a una terminologia attardata.
2. Una proposta «inattuale»
«Meno diritto romano, più diritto dell'informatica!». In questa e analoghe espressioni – in linea con chi ritiene di poter ridurre una politica di riforme nei moduli espressivi (e nello spessore di pensiero) di un social network – veniva da alcuni condensata (ma forse c'era poco da sintetizzare: la sua profondità concettuale era tutto lì, in quel conciso vaniloquio) la strategia di rinnovamento degli studi giuridici, in grado di traghettarli fuori dell'odierno stallo e renderli ancora una volta appetibili. L'orrore che ne ho provato non credo fosse dettato solo dall'interesse (in ogni senso) personale – dal momento che il primo mi dà da vivere e del secondo ignoro quasi tutto. Il mio sgomento, come dinanzi a molte sublimi manifestazioni dell'idiozia umana, era anche amara constatazione di un'assoluta impossibilità di dialogo. E scoprirmi così estraneo alla diffusa ideologia sottesa a simili enunciazioni, e al seguito (forse epidermico ma certo non trascurabile) che esse avrebbero riscosso, mi ha fatto sentire – lo dico con tutta franchezza, sperando che essa non sia intesa come arroganza – provvidenzialmente «inattuale» , salvato dal mio tempo.
La logica (se pomposamente vogliamo chiamarla tale) che sorreggeva, e tuttora sorregge, slogan di quel tipo non è in effetti difficile da riconoscere. La formazione giuridica non attrae come un tempo perché – si sostiene – non è più al passo con le nuove realtà dell'economia e delle professioni, che esigono la massima specializzazione, una preparazione mirata in questo o quel (micro)settore. I giuristi devono radicalmente svecchiarsi, abbandonare certe sembianze paludate, porgersi in modo nuovo, twittare (in english, of course!) coi propri studenti e assicurarsi che essi sappiano, su quel piano, articolare una risposta – non occorre per questo un semestre a Oxford –, per stimare invece veniali certe loro disinvolture espressive (secondo i parametri di una lingua a sua volta antiquata e periferica come l'italiano) o sovrapposizioni concettuali (anche la «logica dei dintorni», che non consente di distinguere proprietà da possesso o invalidità da inefficacia, è una rispettabile espressione della temperie odierna). Si liberino dal fardello ostico e opprimente – per loro e per gli altri – di tutte quelle scorie del passato, inerte erudizione senza tangibili ricadute (giusta la raffinatissima convinzione, ormai consolidata e bipartisan, per cui «con la cultura non si mangia»). A quale imprenditore volete che interessino le dottrine del contratto di giuristi vissuti quasi duemila anni fa, o la teoria del dominio utile e diretto messa a punto appena una decina di secoli più tardi? E se non interessa a lui, perché dovrebbe farlo rispetto a ragazzi di diciott'anni destinati a entrare da vittime sacrificali nel mondo nel lavoro, resi inermi e passivi da almeno tredici anni di buonismo scolastico, spontaneo o indotto che sia (chi si arrischia a tentare un minimo di selezione sa perfettamente di essere atteso da almeno due gradi di giudizio amministrativo)?
La storia ha sostituito la matematica come materia più odiata dagli studenti delle scuole medie inferiori e superiori: trovarla troppo presente in un corso di Giurisprudenza – in almeno due settori disciplinari ad essa rivolti, senza contare le sue insopportabili propaggini nella comparazione giuridica e anche in certe gratuite premesse allo studio del diritto vigente – scoraggerebbe chiunque. Meglio prevenire la fuga, e convincere piuttosto i giuristi a fuggire dalla storia, e da tutto ciò che si presenti come mera cultura giuridica: si preoccupino di preparare in cose serie, che danno il pane. Per abbellire lievemente il tutto, sarà sufficiente, finché se ne abbia voglia, una carrellata a volo d'uccello nei primissimi momenti del percorso di laurea. Potrebbero forse bastare, per coprire l'intero cammino del diritto in Occidente, una quindicina di slides, da Hammurabi, o più probabilmente da Romolo e Remo (ma anche «Remolo» è stato ormai sdoganato) ai codificatori del 1942.
Mi fermo qui. La ricostruzione di quel modo di ragionare sarebbe però ancora lunga, sino a coinvolgere lo stesso ruolo che si vorrebbe assegnare alle lauree triennali (accompagnate o meno da biennali), magari sul presupposto del loro formidabile successo – rispetto alla laurea magistrale quinquennale – a livello di sbocchi occupazionali. Argomento di per sé risibile, che conferma solo come nulla sia meno neutro e incontrovertibile del bruto dato numerico, se ne difetta una lettura intelligente: è infatti noto come molti degli iscritti a quei percorsi brevi un lavoro lo hanno già al momento dell'immatricolazione (e in certi casi la loro età media supera quella dei docenti!).
Resisto alla tentazione – che pure avverto, viscerale e violenta – di replicare con ragionamenti di ordine teorico, e dal carattere (che potrebbe essere giudicato) troppo elevato e ambizioso. Sarei infatti tentato di rispondere che quando una società rinuncia a investire nella sua cultura (o comunque asseconda e blandisce, anziché contrastare, la dilagante disaffezione per essa) – e non fa certo eccezione la cultura del diritto, che di ogni compagine è espressione peculiare e profonda – non merita, semplicemente, di sopravvivere a se stessa: la sua stessa miopia la consegna alla periferia del mondo e della storia. E anch'io, come di recente Maurizio Bettini , potrei ricorrere alla definizione che della «coltura» proponeva Gaetano Salvemini , secondo il quale essa costituisce «la somma di tutte quelle cognizioni che non rispondono a nessuno scopo pratico, ma che si debbono possedere se si vuole essere degli esseri umani e non delle macchine specializzate. La coltura è il superfluo indispensabile». Dal che anche la risposta che ho imparato a formulare ai molti che da vent'anni mi perseguitano con la domanda «ti occupi di diritto romano: ma a cosa serve?», e che mi sono persuaso di poter zittire solo con l'ironia: «a poco; infatti adesso mi interesso anche di diritti greci, che non servono a niente».
Rinuncio a volare così alto e mi sforzo di pormi sul piano – strettamente operativo, se vogliamo anche utilitaristico – della logica che ho poc'anzi evocato, quale diagnosi della progressiva marginalizzazione degli studi giuridici e sua radicale terapia. Due, connessi ma distinti, mi sembrano i suoi punti focali: l'identità del nuovo giurista e la tipologia di formazione universitaria che egli dovrà garantire. Perché l'uno e l'altra «servano» a qualcosa, e in quanto tali riescano di nuovo attraenti, il primo – si dice – dovrà assumere la fisionomia del puro tecnico, senza altro campo d'interesse se non la normativa oggi vigente nel rispettivo ambito disciplinare (e tanto più meritevole sarà il suo impegno ove più recente, e in divenire, sarà la disciplina con cui egli saprà confrontarsi); la seconda dovrà il più possibile ridisegnarsi a ridosso delle esigenze del mondo del lavoro, quale trasmissione di un bagaglio specialistico di nozioni, un autentico apprendistato professionalizzante orientato sulla concretezza degli sbocchi futuri (del resto a cos'altro mira, già adesso, l'anticipazione di un semestre di pratica forense all'ultimo anno del corso di laurea a ciclo unico?). In una parola, il giurista come puro tecnico, i dipartimenti di Giurisprudenza come enti erogatori di nozioni, strettamente limitate a quelle spendibili dal futuro operatore del diritto.
Ecco, a me sembra, molto brutalmente, che tutto questo «non paghi» affatto: non solo perché (credo sia innegabile) deprimente sul piano culturale – non vi insisto, per i motivi indicati poco fa –, ma proprio perché incapace di assicurare un ritorno soddisfacente, anche solo sul medio termine. Non è remunerativo: anzi, è del tutto controproducente. Il rimedio è peggiore del male, e condurrebbe a rendere strutturale, e irrecuperabile, la nostra subalternità, inchiodandoci a inseguire, anziché cercare di indirizzare e gestire, qualcosa che è altro da noi: perennemente a rimorchio, e fatalmente in ritardo. Assecondare quelle tendenze, dialogarvi anche al fine (anche condivisibile) di ridurre i danni che possono determinare, significa in qualche misura farsene complici, e finire di smantellare la funzione della scienza giuridica – in modo non lontano, e anche meno elegante, di chi la vorrebbe ormai ridotta ad assistere impotente al farsi delle norme dal nulla e nel nulla risprofondare, aggrappata alla sola forma, suo ultimo disperato «salvagente» .
Non «paga» presentare il giurista come (ossia ridurlo a) un puro tecnico. Al contrario, è anzi verosimile – come già è stato colto dai più avveduti – che proprio una simile configurazione abbia contribuito alla sua sostituzione – nelle gerarchie della ragion pratica e nei centri di decisione – con cultori di altre e (così sembrava) meno controvertibili discipline, dalla statistica all'economia (con l'aggiunta, a parziale recupero della dimensione civile un tempo appannaggio del giurista, di una sociologia spesso nebulosa). A puri tecnici si sono avvicendati altri puri tecnici, percepiti (in modo improprio, ovviamente) come portatori di un'ancor più integra neutralità. Miti vecchi e nuovi – ieri la «purezza del diritto» (di Vittorio Scialoja ancor prima di Kelsen) , oggi tecnocrazia, analisi economica e forme molteplici di «creatività finanziaria» – si sono chiusi in una morsa. Abbiamo appena fatto in tempo a enunciare liberatoriamente che, accanto alle tecniche (e indissolubilmente da esse) il lavoro giuridico coinvolge anche l'ideologia, e che quest'ultima è (o dovrebbe essere) «parola da non far più paura» , che tutto questo si è spento e rifluito, per consegnarci ancora una volta all'idolo della neutralità, o semplicemente renderci disinteressati del problema stesso, per chiudersi di fatto dentro allo specialismo, alla tecnica «che serve» (e non è solo un male che noi studiosi subiamo dall'esterno: l'intera produzione scientifica, soprattutto dei più giovani, sembra esserne in genere condizionata).
E ancor meno «paga» pensare che il nostro compito sia tanto più apprezzato e remunerativo – sul piano dell'attrattiva dei corsi di laurea in Giurisprudenza – quanto più concentrato sulla trasmissione di nozioni immediatamente spendibili, elementi oggettivi e certi da sciorinare con prevedibile successo – dati normativi (anche i più riposti e minuti), decisioni giurisprudenziali, orientamenti della prassi negoziale o amministrativa. A parte l'ovvio inconveniente di un approccio didattico così destinato a essere superato già il giorno successivo al superamento dei rispettivi esami – perché empiricamente legato a un bagaglio di leggi e leggine, regolamenti e circolari, che spesso vigono nello spazio di un mattino (e tanto più nei settori che si pretenderebbe di porre al centro dei nostri studi: diritto dell'informatica, degli enti finanziari, delle negoziazioni on line ecc.) –, è la stessa logica che vi presiede a rivelarsi, essa sì, tremendamente vecchia.
In realtà nulla, ai nostri giorni, è così rapidamente raggiungibile come le singole nozioni. Il peggior ignorante della terra, ma che sappia navigare su internet, raggiunge più informazioni di quelle che avrebbe potuto solo immaginare Pico della Mirandola (pur rimanendo, ovviamente, l'ignorante che era prima, e anzi incoraggiato a restarlo). Molti esseri umani stanno atrofizzando ampie porzioni della propria intelligenza (cominciando dalla memoria) delegando alla tecnologia quel che prima affidavano al cervello. Ci stiamo forse avviando a divenire semplici supporti animati di quel che presto sostituirà I-Pad e Smartphone, così da rendere sempre più labile il diaframma fra sapere dell'individuo (rectius, a cui l'individuo più accedere) e sapere della specie: un fatto epocale nella parabola dell'homo sapiens, unico tra i viventi ad aver votato la sua esperienza proprio a ispessire e articolare quel diaframma, e che per certi versi – anche se per eccesso, e non penuria, di cognizioni (reali o potenziali) – lo riconsegna, oggi o domani, all'istintualità animale.
In uno scenario del genere – che non credo di aver evocato in termini troppo irrealistici, e che anzi nel prossimo futuro è verosimile sarà ancora accentuato – puntare sulla mera trasmissione di informazioni è, con ogni evidenza, una scelta perdente. I nostri studenti non hanno tanto bisogno di sapere cosa recita il tale articolo del codice o di un remoto regolamento – questo lo apprendono assai più rapidamente digitando sul telefonino sotto (ma ormai anche sopra) il banco. Ciò di cui hanno maggiormente bisogno, e sui dovremmo centrare la nostra offerta didattica, è proprio l'inverso: è tutto ciò che i supporti digitali e informatici non possono garantire, che è un complesso di tecniche, attitudini, sensibilità che vengono dalla tradizione e intessono la cultura giuridica.
Su questo è necessario puntare, assumendo l'elemento informativo (pur indispensabile) a mero dato strumentale. Tecniche di definizione e qualificazione, tipologie e momenti dell'interpretazione, individuazione di lacune e antinomie, soluzione di ambiguità e vaghezze, modalità di esame del caso e di confronto fra esso e le fattispecie normative, comparazione (ma ragionata e critica, non meramente descrittiva) fra le nostre e le soluzioni legislative (e non solo) di altre realtà, corretta impostazione di una tesi interpretativa e allestimento, rigoroso ma anche efficace sul piano suasorio, di una strategia argomentativa a suo sostegno. Questo è appunto «il superfluo indispensabile» che dovremmo porre al centro della nostra proposta formativa, non per esaurirlo in pochi insegnamenti iniziali di teoria e storia del diritto, ma per farne cifra ricorrente e intrinseca a tutta la nostra didattica.
E se davvero il giurista è divenuto povero, gli sarà indispensabile attingere alla tradizionale risorsa dei poveri: la fantasia. Dovrà essere in grado, come un personaggio buffo di Jodorowski, di addestrare le ombre a saltare e gli specchi a cantare. Dovrà reinventarsi uno stile di trasmissione del sapere, che salvaguardi però – proprio perché nuovo – la sua specifica identità. Solo la rivoluzione salva il passato, ammoniva il pensatore italiano più antico del Novecento, Pier Paolo Pasolini, ricorrendo a un (apparente) ossimoro, come così spesso accadeva nella sua filosofia di poeta. Il nuovo consista nei metodi ancor più che negli oggetti di insegnamento: più casistica, più esercitazioni pratiche, più occasioni di sinergie didattiche (con lo stesso tema esposto agli studenti da docenti di materie diverse), più argomentazione giuridica, più esercizi di reciproca dialettica fra insegnanti e/o studenti che sostengano tesi interpretative contrapposte e si impegnino nel sostenerle e confutarle a vicenda, più preparazione alla retorica forense e alla scrittura di atti – facendo magari comprendere che l'uso appropriato della lingua italiana è indispensabile per chi intenda apprendere una (ulteriore) cultura delle regole.
Lavoriamo sull'affinare il senso giuridico dei nostri ragazzi, che non è patrimonio comune né nasce spontaneamente (ben lo sapeva un maestro come Vittorio Scialoja), ancor più che ingozzarli di nozioni dettagliate e indigeste, che dimenticheranno ancor prima di arrivare a un colloquio di lavoro. Quel che darà loro il pane è proprio quanto viene dalla storia alle nostre spalle, e dalla tanto svilita cultura: capacità di diagnosi giuridica, abilità nell'affrontare casi problematici e bilanciarvi gli interessi in gioco, formulazione elegante e convincente di un complesso discorsivo, attitudine al disputare e controvertere sui profili giuridici, e (ancor prima) a saperli rintracciare entro il labirinto dei fatti.
Nessuna alterità o cesura fra studio storico-giuridico e analisi del diritto positivo. Le informazioni attorno ai rispettivi nuclei normativi dovrebbero essere, in entrambi i casi, solo il passo iniziale, l'indispensabile premessa. E chi sia impegnato su esperienze del passato finisce anzi con l'essere avvantaggiato, se (come dovrebbe) pienamente consapevole che, di per sé, le nozioni che egli impartisce non sono di alcuna diretta utilità . È il fascio di metodi e riflessioni critiche che le avvolge – il metodo topico dei giuristi antichi e le rielaborazioni che hanno innescato negli interpreti di oltre mille anni – a garantirne ancora una validità formativa, felicissimamente inattuale. Su certi motivi di lungo periodo – il necessario radicamento del diritto nella giustizia ma la sua distinzione dalla morale e (almeno nell'esperienza dell'Occidente) dalla religione, l'esigenza di disciplinare in modo congruo e proporzionalmente eguale le concrete situazioni, il calcolo degli effettivi interessi coinvolti, i metodi del ragionamento e dell'argomentazione, le rationes decidendi messe in campo – credo che ciascuno, nei propri insegnamenti, dovrebbe insistere maggiormente, facendo verificare ai nostri giovani come tanti slogan oggi in voga abbiano ben poco di inedito, che l'esistenza (cioè la storia) del diritto è sempre scandita dall'intrecciarsi di trama e ordito di continuità e cesure (ove le difformità morfologiche non sono meno significative delle persistenze genealogiche), e che quello giuridico non è un linguaggio esoterico e remoto, ma traduce e coinvolge (pur nella sua ineludibile carica di astrazione, e nel suo specialismo, mai neutro) la vita e la carne di ciascuno – è composto di parole, ma con le quali è dato (secondo la fortunata formula di Austin) «fare cose», e tra le più rilevanti nella convivenza umana .
Ragioniamo dunque pure di percorsi alternativi, che affianchino quello a ciclo unico (ma senza sovrapporsi con esso, consentendo troppo agevoli transiti, che snaturerebbero gli uni e l'altro), ma sforziamoci di resistere, in merito a quest'ultimo, a nuovismi approssimativi e volgari, senza respiro e senza futuro, che amputano senza ripensare in profondità. Anche buttare a mare la tradizione può essere una scorciatoia. La proposta «inattuale» che ho formulato costa fatica, e molta, a docenti e studenti: è più gravoso (condurre a) pensare che (imporre di) immagazzinare dati. Ma è anche più gratificante, e più remunerativo. Il giurista abbia il coraggio di non rinunciare alla propria identità – che è costituita in primo luogo dalla sua storia e dalla sua cultura; dalla profonda, intrinseca unità del suo sapere –, ed eviti di indossare vesti a lui inadatte. Cadrebbero presto: e così, oltre povero e vecchio, egli si scoprirebbe anche vergognosamente nudo.
(22 maggio 2018)
Note
1. Si veda infatti E. STOLFI, Salvaguardare la cultura del giurista, in B. PASCIUTA-L. LOSCHIAVO (a cura di), La formazione del giurista. Contributi ad una riflessione, Roma 2018, pp. 169 ss.
2. Ho sempre trovato calzanti, per quanto messe a punto in un diverso contesto storico, e alle prese con altre 'crisi', le riflessioni che attorno a questo concetto formulava L. RAGGI, Materialismo storico e studio del diritto romano, ora in Scritti, Milano 1975, pp. 2 ss., stimandolo «valido … solamente nel quadro di una interpretazione teleologica della storia, cioè in relazione ad uno svolgimento finalistico … In tali concezioni il concetto di crisi, come avvenimento palingenetico che pone una frattura nella storia … svolge un’utile funzione. Muovendo invece da premesse storicistiche, il concetto di crisi, come anomalia eccezionale del moto storico, non riesce mai ad assumere un significato teoreticamente valido e storiograficamente utile, ma si risolve per lo più in un generico sentimento di pessimismo» (in
questo senso, anche lo svolgimento storico di qualsiasi esperienza giuridica non si rivela altro «che una serie ininterrotta di crisi»).
3. Pur in modo differenziato e spesso nebuloso, il nostro paese – ma non esso soltanto, probabilmente – percepisce che non è più l'università (in particolare quella pubblica) l'istituzione cui è ancora pienamente demandata la triplice funzione che storicamente ha assolto: di centro prevalente della vita culturale, di luogo di formazione della classe dirigente, di ente che seleziona e prepara al mondo del lavoro. Altre dinamiche e altre realtà, più a ridosso dei centri di potere economico – schiacciate sulle sue logiche e ormai prive di efficaci mediazioni –, premono e incombono, a loro volta agevolate dal diffuso discredito riversato sul mondo accademico.
4. Presuppongo F. HARTOG, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, trad. it. Palermo 2007, spec. pp. 13 ss., 52 ss. Cfr. inoltre E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia. Itinerari, Bologna 2010, pp. 51 ss. ove altra bibl.
5. Mutuo la formula, coniata in altro contesto – ma sempre inerente alla storia giuridica: si riferisce infatti ad alcuni temi emergenti dall'epistolario di Cicerone col giurista Servio Sulpicio Rufo – da A. SCHIAVONE, Ius. L'invenzione del diritto in Occidente, Torino 20172, p. 269.
6. Infra, § 2.
7. Riprendo, ma per lasciare qui sullo sfondo la «clero-crazia» cui egli congiuntamente si richiama, una formula di N. IRTI, La tenaglia. In difesa dell'ideologia politica, Roma-Bari 2008, spec. 36 ss., 57 ss.
8. Nel senso di M. DETIENNE, I maestri di verità nella Grecia arcaica, trad. it. Roma-Bari 1977.
9. Nella composita valenza della nozione greca – ma dalla parabola storica ancor più lunga – posta in luce soprattutto da M. FOUCAULT, L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collége de France (1981-1982), trad. it. Milano 2011, spec. pp. 121 ss. e ID., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collége de France (1982-1983), trad. it. Milano 2009, pp. 49 ss., spec. 341 ss. (in riferimento alle sue nuove declinazioni connesse alla pastorale cristiana, di fronte a un potere imperiale sempre più assoluto).
10. Ho in mente, tra la folta letteratura in proposito, soprattutto M. SBRICCOLI, L'interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell'età comunale, Milano 1969, spec. pp. 49 ss.
11. Per un'acuta e suggestiva lettura filosofica di quest'aspetto si vedano almeno G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995 (poi 2005), spec. pp. 131 ss., 159 e R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino 2004, spec. pp. 137 ss. e 149 ss.; ID., Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale, Torino 2007, spec. pp. 70 ss.
12. Ai quali dobbiamo anche quella torsione del lessico culturale, invaso da «metafore economiche» (dal «patrimonio storico e artistico» ai «beni» o «giacimenti culturali» sino ai «prodotti» dei docenti universitari, oggetto di «valutazione» da parte di organi ministeriali), su cui ha recentemente ironizzato M. BETTINI, A che servono i Greci e i Romani? L'Italia e la cultura umanistica, Torino 2017, pp. 9 ss.
13. Sull'odierna «law-satured society», per tutti, S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano 2009, pp. 9 ss.
14. Nel senso di R. ORESTANO, ‘Diritto’. Incontri e scontri, Bologna 1981, spec. pp. 558 ss.
15. Secondo la felice notazione di P. CARONI, La solitudine dello storico del diritto. Appunti sull'inerenza di una disciplina altra, Milano 2009, p. 123. In senso non molto difforme già R. ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 332 ss. (con radicali perplessità circa la tralatizia distinzione fra «conoscenza scientifica» e «conoscenza storica» del diritto).
16. In una sua precisa valenza, così rilevante anche per lo storico del diritto (cfr. E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia, cit. nt. 4, pp. 75 ss. ove bibl.), riconducibile alla nozione nietzscheana di «unzeitgemäß». La ritroveremo ancora, nelle pagine seguenti.
17. A che servono i Greci e i Romani?, cit., nt. 12, p. 4.
18. Che cosa è la coltura?, Parma 1954, p. 11.
19. I riferimenti sono ovviamente a N. IRTI, Nichilismo giuridico, Roma-Bari 2004 e ID., Il salvagente della forma, Roma-Bari 2007. Cfr. anche ID., Un diritto incalcolabile, Torino 2016. Per un quadro delle riflessioni, soprattutto critiche, destate dall'impostazione di Irti cfr. L. GAROFALO, Giurisprudenza romana e diritto privato europeo, Padova 2008, p. 212 nt. 124 ed E. STOLFI, Il diritto, la genealogia, la storia, cit. nt. 4, p. 41.
20. Posso rinviare, in proposito, a E. STOLFI, Giuristi ideologie e codici. Scialoja e Betti nell'interpretazione di Massimo Brutti, in «Sociologia», 48, 2014, pp. 77 s., 86.
21. Riferimenti più puntuali ancora in E. STOLFI, Giuristi ideologie e codici, cit. nt. 20, pp. 73 s.
22. Ove si illuda del contrario, e su questa falsa rappresentazione modelli la propria offerta didattica, è mia convinzione che il suo apporto non solo sia sostanzialmente inutile, ma anzi affatto dannoso. Il miglior argomento nelle mani di chi vorrebbe spazzare dagli studi giuridici i corsi di storia del diritto (antico, medievale e moderno). Conoscere perfettamente i requisiti
formali del testamentum per aes et libram nella Roma tardorepubblicana, o il numero dei vestimenta pactorum riconosciuti da Piacentino, non rende alcuno studente un migliore operatore del diritto, una volta uscito dall'Università. Semmai – se a suo tempo torturato solo su questi dati nozionistici, senza che ne venisse illustrata l'intima connessione con problematiche di più ampio respiro, che toccano il cuore stesso del diritto privato (il dilatarsi delle possibilità di disporre mortis causa, aprendo alla volontà individuale nuovi spazi di efficacia; il faticoso percorso premoderno che ha condotto il nudo elemento consensuale a produrre vincoli giuridici, ove accompagnato da elementi ulteriori rispetto alla mera volontà delle parti) – lo porterà a ingrossare le fila di quanti conservano un ricordo negativo delle nostre materie, e ne hanno tratto ben poco profitto.
23. Un aspetto su cui non insisteremo mai abbastanza nel presentare alle nostre matricole il percorso di studi che li attende, e poi nel condurli nel cuore delle varie discipline. Si sviluppa proprio attorno a questo tema il mio ultimo libro (attualmente in corso di pubblicazione): Gli attrezzi del giurista. Introduzione alle pratiche discorsive del diritto.