Istituzioni
Un’autorità di regolazione per energia acqua e rifiuti? Appunti per uno studio.
di Simone Lucattini
Le autorità indipendenti vanno assumendo un ruolo centrale anche nel governo dei servizi pubblici locali, e non più soltanto dei grandi servizi a rete (energia, telecomunicazioni). Nel 2012 è stata infatti istituita un’Autorità di regolazione dei trasporti e da più parti si auspica l’attribuzione all’Autorità per l’energia, il gas ed il sistema idrico di funzioni di regolazione e controllo in materia di rifiuti. Ci aveva pensato lo schema di decreto legislativo sui servizi pubblici locali di interesse economico generale (articolo 16), a ridenominare la “vecchia” Autorità per l’energia in Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (ARERA), dotandola di nuove competenze in materia di rifiuti. Ma è intervenuta la Corte costituzionale ad annullare l’art. 19 della legge delega c.d. Madia (n. 124/2015) nella parte in cui, in combinato disposto con l’art. 16, prevedeva che il governo adottasse i relativi decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata Stato-regioni(sentenza n. 251 del 2016). Poi fu il referendum, la crisi di governo…
Vicende italiane.
Rimangono però validi i cardini del prefigurato sistema di regolazione: un’autorità indipendente, a livello nazionale, e gli enti di governo d’ambito, a livello locale. Un sistema - già sperimentato nel settore idrico - che si caratterizza, da un lato, per la presenza di un regolatore multisettoriale; dall’altro, per una governance policentrica e multilivello, con al centro, appunto, l’Autorità di regolazione.
Una Autorità, quale sarà il nome, che sembra collocarsi in una dimensione reticolare. “In alto”, l’Unione europea come insieme composito di reti di governance; più in basso, la rete territoriale degli ambiti ottimali e dei loro enti di governo; e giù giù, fino alle “cose da regolare”: le reti “strutturali” e “funzionali” dei servizi pubblici. Un simile groviglio di strutture - fisiche e organizzative - interconnesse sembra richiedere, per forza di cose, un sistema di regolazione scalare, articolato lungo un continuum regolatori locali (gli enti di governo d’ambito) - regolatore nazionale - regolatore europeo (ove esistente, come nel settore energetico, con ACER). A sua volta, un assetto così complesso pone esigenze di coordinamento e razionale allocazione dei poteri, affinché la regolazione divenga, per quanto possibile, un “progetto collaborativo” (T. Prosser, The Regulatory Enterprise, Oxford University Press, 2010), condiviso tra regolatori e organi di governo, locali e nazionali. Fine ultimo di questa architettura istituzionale dovrebbe essere un sistema in grado di rispondere al bisogno di certezza degli operatori economici che vogliono investire.
Gli operatori economici hanno oggi più che mai assoluto bisogno di un apparato dei pubblici poteri che agisca in sincronia con i meccanismi dell’economia; che costituisca, non un ostacolo o un freno, ma una “componente” del mercato, chiamata a produrre certezze: regole certe e stabili, un’azione amministrativa coerente e, quindi, certezza del diritto e tutela dell’affidamento. Affinché questa visione oggettiva - attenta cioè agli effetti del potere pubblico nei confronti dei propri destinatari - si affermi a pieno, appare però necessario, anche a livello metodologico, passare da un approccio statico ad uno dinamico, per concentrarsi più che sui soggetti - le istituzioni di governo dell’economia - sui concreti effetti del potere di regolazione complessivamente inteso. Una prospettiva oggettiva e pragmatica. In quest’ottica, uno studio sulla futura possibile Autorità delle reti e dei servizi (con competenze estese ai rifiuti) dovrebbe incentrarsi, prima ancora che sull’analisi dei variegati poteri di regulation e di enforcement del regolatore, sui rapporti - cooperativi e conflittuali - che quest’Autorità è destinata a intrecciare nello spazio regolatorio, nazionale e comunitario. Lungo un percorso che dischiude due prospettive: una, per così dire, “irenica”, volta a valorizzare l’esigenza di coordinamento, cooperazione, leale collaborazione tra poteri e istituzioni; un’altra irriducibilmente “polemica”, che invece guarda alla competizione tra istituzioni e ai suoi spesso negativi effetti. Prospettive, queste, tenute però assieme dai principi di certezza e tutela dell’affidamento, essenziali in settori fondamentali per lo sviluppo economico come i servizi pubblici, dove, per stimolare gli investimenti infrastrutturali, è necessario disporre di regole certe e stabili.
I conflitti che possono insorgere nello spazio regolatorio presidiato dall’Autorità sono di due tipi, verticali e orizzontali, e possono verificarsi a livello nazionale o in ambito comunitario; tali conflitti coinvolgono, a vario titolo, governo, regolatori europei, nazionali, e locali.
Conflitti verticali
Nell’ordinamento interno governo e regolatori si dispongono lungo una ideale “filiera della produzione delle regole”, che muove dall’indirizzo politico del governo - “in alto” - alla regolazione tecnica del regolatore, “al centro”, per poi svilupparsi fino a livello locale dove le regole e i criteri definiti dall’Autorità nazionale costituiscono una “cornice di regolazione economica” (così Corte Cost. n. 41/2013, in materia di trasporto pubblico locale) entro la quale operano i regolatori locali, ad esempio fissando le tariffe in applicazione del metodo tariffario definito dal regolatore centrale. Lungo questa metaforica “filiera” possono insorgere, appunto, conflitti verticali, tra soggetti collocati, cioè, in fasi “a monte” e “a valle” della filiera istituzionale. Per esempio, il funzionamento del meccanismo di determinazione della tariffa idrica o, in prospettiva, dei rifiuti potrebbe incepparsi per la condotta inerte o ostruttiva degli enti d’ambito; ragion per cui il regolatore nazionale è stato opportunamente dotato di un efficace potere sostitutivo (art. 10, comma 14, lett. d), del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito in legge 12 luglio 2011, n. 106) che consente di superare l’inerzia e/o il conflitto istituzionale, in funzione di certezza di regole e condizioni applicabili.
Conflitti di tipo verticale potrebbero insorgere anche ad un più elevato livello, nei rapporti tra governo e Autorità di regolazione; si tratta di conflitti di solito difficilmente risolvibili, in considerazione del rilievo delle rispettive sfere di autonomia e, in particolare, della forte indipendenza del regolatore, sancita peraltro dalla normativa nazionale ed europea. Già oggi, del resto, nel settore energetico si assiste, con una certa frequenza, all’adozione di atti d’indirizzo governativi invasivi delle attribuzioni del regolatore nella definizione della regola tecnica ed è prevedibile che simili dialettiche governo/autorità di regolazione possano svilupparsi, in maniera più o meno intensa, anche in altri settori (acqua e rifiuti).
Al di là del sempre problematico rapporto politica/regolazione tecnica, il punto che interessa qui evidenziare è che simili conflitti, interni alla pubblica amministrazione, molto spesso pregiudicano la certezza delle regole, essenziale per ogni razionale programmazione economica delle imprese. Anche senza giungere alla patologia di un contenzioso tra pubbliche amministrazione (Autorità energia vs. Ministero dello sviluppo economico: Tar Lazio, sez. III-ter, 2 maggio 2006, n. 3017, riformata da Cons.St., sez.VI, 28 marzo 2008, n. 1274), tali conflitti producono, quasi sempre, il negativo effetto di prolungare i tempi necessari per disporre di un quadro regolatorio certo e definito.
Conflitti orizzontali
Analoghe problematiche possono verificarsi anche come conseguenza di conflitti di tipo orizzontale, tra soggetti omogenei; ad esempio, tra Autorità di regolazione e altre autorità amministrative indipendenti, nazionali o appartenenti ad uno Stato membro. Nell’arena nazionale, finora, si è assistito a conflitti tra regolatori di settore (soprattutto l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e Autorità antitrust per la competenza a sanzionare le pratiche commerciali scorrette; actio finium regundorum, questa, che, come noto, ha dato vita a ben due pronunciamenti - nel 2012 (sentenze n. 11, 12,13, 14,15,16) e nel 2016 (sentenze n. 3 e 4) - dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, tuttavia, non sono riusciti a spengere i più o meno latenti conflitti, anche di carattere meramente interpretativo; come dimostra un recente caso in cui il giudice amministrativo ha annullato la sanzione irrogata dall’Autorità antitrust nei confronti di un gestore del servizio idrico per non aver “tenuto in alcuna considerazione il parere reso dall’AEEGSI” (Tar Lazio-Roma, sez. I, 10 maggio 2016, n. 5450). L’effetto della diversa interpretazione della fattispecie di riferimento data dal dominus della concorrenza e dal regolatore è, anche qui in ultimo, d’incertezza, in ordine alla liceità/illiceità di determinati comportamenti sul mercato.
Allargando la prospettiva a livello comunitario, altri conflitti tipicamente orizzontali sono quelli che possono svilupparsi tra i vari regolatori nazionali, in seno all’ACER (Agenzia per la cooperazione dei regolatori dell’energia), ad esempio nella redazione dei fondamentali codici di rete europei, come nel caso del primo codice di rete, il Capacity Allocation and Congestion Management. Nella creazione di tale corpus di regole si è difatti cercato di comporre, in seno ad ACER, una antinomia tra modelli economici differenti, sostenuti da differenti autorità nazionali, finendo però col dare vita ad una generale soluzione di compromesso. Con due effetti: il considerevole allungamento dei tempi necessari per la definizione di regole definitive e puntuali (il codice di rete alla fine è stato adottato nella forma “soft” di linee guida) e il possibile insorgere di successivi contrasti in fase applicativa, in grado di produrre un’incertezza ancor più lesiva dell’affidamento.
In conclusione, la realtà della regolazione, fatta anche di conflitti e disarmonie, ci porta ad affermare che un aggiornato studio sulla nuova possibile Autorità dovrebbe concentrarsi, non solo e non tanto sui poteri ad essa attribuiti, quanto piuttosto sulle conseguenze della violazione di principi-cardine dell’ordinamento economico, quali la certezza del diritto e la tutela dell’affidamento. In tale prospettiva, il coordinamento e la collaborazione (tra governo e Autorità; tra regolatori nazionali e locali) dovrebbero essere visti come garanzie per i privati e dunque tradursi in una pretesa (azionabile anche dinnanzi al giudice amministrativo e civile) alla sicurezza dei rapporti giuridici: la pretesa ad un comportamento amministrativo razionale, sinergico e armonico.
Un cambiamento di prospettiva (teorica) ad effetto pratico: dalle fredde geometrie della governance alla pulsante vita economica, dove più che alla raffinatezza delle architetture istituzionali ci si interessa agli effetti reali del potere; questi davvero, sì, percepiti, talora subiti, dai privati e comunque sempre condizionanti le decisioni imprenditoriali.
Al centro della scena va dunque collocato il cittadino-imprenditore-utente, e qui il discorso potrebbe portare lontano, ben oltre il tema della regolazione e fino al rapporto tra government (l’indirizzo politico, la politica in senso alto) e governance (la “neutrale” gestione del sistema); tra autorità e libertà, potere pubblico e individuo (illuminante al riguardo, A. Shlaes, L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione, Feltrinelli, Milano, 2011).
Una “messa al centro” di chi vive-lavora-investe-utilizza (determinati servizi), mai scontata e anzi sempre più urgente in tempi di crisi economica (da quasi 10 anni …), inefficienza amministrativa (una costante costosa), riforme incerte (annullamento delega Madia), instabilità politica (ordalie referendarie/campagna elettorale permanente), politiche di sempre più corto respiro … alla ricerca del prossimo like. Problemi che, nella limitata prospettiva di questo breve scritto, convergono verso un unico interrogativo, forse modesto o non così angoscioso per chi immagina sofisticate strategie politiche o pensa alle “grandi” architetture amministrative euro-unitarie e alla neutrale governance del sistema (fondamentali, beninteso), ma non per chi lavora e investe in questi settori: quando arriverà il tanto atteso testo unico sui servizi pubblici locali?
(12 dicembre 2016)
*Le opinioni espresse sono a titolo personale e non impegnano l’Istituzione d’appartenenza: Autorità per l’energia elettrica, il gas ed il sistema idrico
Email
Istituzioni
Sulla riforma costituzionale: forse che SI, forse che NO… ma per quali ragioni?
di Fulvio Cortese*
Il giorno del referendum costituzionale si sta approssimando sempre di più e, dunque, tutti i nodi verranno presto al pettine. A questo punto, il voto - nella simultaneità, nell’istantaneità e (se si vuole) nella durezza della sua espressione - sembra l’unico colpo capace di sciogliere i molti interrogativi che sono sorti nel (povero e stereotipato) dibattito pubblico finora svolto. I dubbi si sono via via consolidati con le sembianze dei più classici intrighi gordiani, come tali insuscettibili, almeno apparentemente, di una risoluzione meditata. D’altra parte, il disorientamento crescente di chi voglia tentare di capirci qualcosa è più che comprensibile.
Sul fronte del SI, infatti, apprendiamo che la riforma potrebbe sortire soltanto effetti positivi: comportando un taglio sensibile ai costi della politica, rafforzando la stabilità e l’efficacia della funzione di governo, facilitando un complessivo riordino delle relazioni, e dei conflitti, tra lo Stato e le autonomie territoriali, e contribuendo ad accrescere la fiducia dell’Unione europea, e degli investitori internazionali, nei confronti del nostro Paese.
Sul fronte del NO, viceversa, scopriamo che sarebbe tutto sbagliato, anzi, che sarebbe tutto da rifare o, meglio ancora, da non fare: perché a monte sarebbe di per sé inammissibile che un Governo prenda l’iniziativa di proporre una modifica costituzionale; perché la riforma coinvolgerebbe parti troppo eterogenee del testo costituzionale, impedendo agli elettori un pronunciamento davvero consapevole; perché le prospettate modifiche consegnerebbero un potere eccessivo (per alcuni, anti-democratico) alla formazione politica che risultasse vincitrice in base alla nuova disciplina elettorale; perché il guadagno di generale efficienza dell’azione del Parlamento e del Governo sarebbe del tutto indimostrato; perché la composizione del nuovo Senato non risponderebbe ad alcuna logica, alterandone il potenziale buon funzionamento; e perché le autonomie territoriali verrebbero inesorabilmente sacrificate.
Si tratta di assunti pressoché inconciliabili, che presuppongono, nei cittadini, il compimento di un atto di fiducia nei confronti della capacità di persuasione degli alfieri dell’uno o dell’altro schieramento. E ciò accade, verosimilmente, non solo per gli evidenti processi di personalizzazione cui è incorso il discorso pubblico, ma anche perché, a ben vedere, i traguardi declamati dai fautori del SI sono astrattamente condivisibili, al pari di quanto lo sono, in astratto, i timori dei fautori del NO. Non è strano che ci si appelli all’autorevolezza di uno o più interpreti.
***
C’è da dire che è una situazione quanto mai curiosa e disperante: curiosa, perché non è dato capire, in definitiva, in base a quale criterio razionale di massima gli elettori dovrebbero pronunciarsi; disperante, perché è assai grave che questa complessiva irrazionalità coinvolga uno dei momenti istituzionali più alti della partecipazione repubblicana. Certo, la passione, e in particolare quella politica, è il motore di molte opzioni, ed è normale, o anche nobile, che esso sia particolarmente “rumoroso” quando le scelte da compiere sono assai elevate. Ma questa passione, in un sistema democratico, non può essere confusa con l’emotività o con la suggestione che domina la contingenza. Non è possibile, cioè, immaginare di essere abbandonati, in un caso come questo, alla necessità di esprimere un voto puramente rischioso, un gesto che, fino all’atto del suo effettivo e definitivo compimento, ci costringa a chiederci costantemente se “forse che SI” o “forse che NO”. Dobbiamo proprio arrenderci all’idea che sulla nostra Costituzione si debba scommettere? E dobbiamo, così, arrenderci anche all’idea che, per puntare su questa scommessa, sia corretto fidarci delle opinioni che ci vengono proposte?
La risposta non può che essere negativa; e ciò dipende dal fatto che, per un verso, il SI ha ragioni, molteplici, che i suoi portavoce non hanno ancora compiutamente espresso, e che, per altro verso, il NO si nutre, per lo più, di argomentazioni che non sono realmente invincibili.
***
Procediamo con ordine, muovendo dalle obiezioni di carattere, per così dire, strutturale.
Dal punto di vista metodologico, l’appunto relativo al fatto che si tratta di riforma votata da una sola maggioranza (tra l’altro “raccogliticcia”) e sulla base di un ddl costituzionale di iniziativa esclusivamente governativa non pare del tutto convincente: la Costituzione non esclude né l’una né l’altra eventualità. Ma si può aggiungere che la Costituzione non si scandalizza dinanzi a queste opzioni non solo dal punto di vista formale, ma anche perché è la ratio del congegno garantistico di cui alla possibile proposizione del referendum sospensivo a spiegare, o a dare per implicita, la praticabilità delle due opzioni ora ricordate. Che senso avrebbe ascoltare gli elettori se la riforma fosse frutto di una larga condivisione parlamentare? Va da sé, poi, che quella governativa è, come per ogni disegno di legge, una sola iniziativa: è il Parlamento a votare, e lo ha fatto anche in questo caso; tanto che molte delle parti (tra l’altro quelle peggio formulate…) del testo su cui si voterà sono da imputare proprio alle dinamiche delle approvazioni assembleari.
Quest’ultimo dettaglio è importante, dal momento che molti giuristi, seguiti con ciò da altrettanti intellettuali, hanno rilevato la cattiva redazione di molte disposizioni, specialmente se comparata con quella degli articoli risalenti al 1948. Il rilievo è corretto, ma, una volta constatata simile situazione, occorre chiedersi: è un rilievo prevalentemente estetico o si traduce in uno stallo interpretativo e applicativo?
a) Se delle due risposte si sceglie la prima, allora è opportuno, se non doveroso, fare un passo indietro: è l’organo costituzionale democraticamente legittimato a essersi espresso. Non si può pensare, del resto, che le riforme possano acquisire la dignità che deve loro riconoscersi soltanto laddove siano il prodotto di redattori impeccabili e tecnici illuminati. A quest’ultimi, semmai, toccherà il compito (senz’altro arduo, certo) di dare razionalità alle espressioni utilizzate. Non è stato, proprio questo, il ruolo che sempre i giuristi hanno assunto all’interno della tradizione occidentale? E non sarebbe, questo, il momento buono per riattivare questo ruolo dopo anni di atteggiamento spesso passivo e descrittivo dinanzi a ciò che i legislatori statali e regionali, e la Corte costituzionale, mettevano in opera di fronte alla tanto celebrata e poi naufragata riforma del 2001? Qualcuno, peraltro, potrebbe tentare di mettere fuori gioco tali osservazioni ricordando che l’attuale Parlamento non sarebbe democraticamente legittimato poiché eletto in base ad una disciplina (il cd. “Porcellum”) dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale: ma è stata la stessa Corte, in quel caso, a ricordarci che la legittimazione sussiste e che, a ben vedere, esiste un bel divario tra questioni di opportunità lato sensu politica e questioni stricto sensu di legittimità.
b) Se la risposta, viceversa, è la seconda, e si temono dunque “pasticci” in sede attuativa, allora sarebbe doveroso analizzare, con dettaglio, le immediate ragioni di disfunzionalità dell’assetto risultante dalla riforma. Sul punto, però, il dibattito si fa immediatamente fumoso, poiché – e ciò dovrebbe ammettersi da tutti, vuoi da chi sostiene il NO, vuoi da chi sostiene il SI – il funzionamento concreto di un assetto tanto nuovo, come sempre del resto, dipenderà in larghissima parte dalla prassi istituzionale e dal modo con cui le forze politiche reagiranno alla necessità di doversi adattare. Ad esempio: se il procedimento legislativo sarà più o meno complesso, non lo possiamo derivare dalla rilevazione, qui e ora, di un’articolazione potenzialmente eterogenea, differenziata e conflittuale del rapporto tra le due camere; un’impressione simile la potremmo avere, formalmente, anche di fronte alla disciplina che reca la Costituzione della Repubblica Federale tedesca (che per l’appunto non è meno complessa). La prova del nove, piuttosto, si avrà con l’approvazione della legge con cui si stabilisce come verrà composto concretamente il nuovo Senato e con la definizione dei nuovi regolamenti parlamentari: e in proposito il contributo – già evocato – dei giuristi può essere particolarmente importante.
***
Dal punto di vista sostanziale, ciò che conta comprendere, allo stato dell’arte, è se sia o meno legittimo che una riforma costituzionale come quella approvata dal Parlamento possa o meno entrare in vigore senza arrecare sconquassi irrimediabili. In altre parole: le soluzioni normative introdotte dalla riforma appartengono al novero delle alternative democraticamente disponibili?
Orbene, salvo poche voci minoritarie (e di per sé coerenti con assunti tuttavia non realmente consolidati e condivisi nel dibattito costituzionalistico), l’aspetto in parola è chiarito dal manifesto che molti esponenti del NO hanno redatto qualche mese fa: “Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo”. La precisazione è corretta e, a suo modo, risolutiva. Solo sostenendo il contrario si potrebbe pensare che esista, ad oggi, una vera ragione tecnica per sostenere che il SI sarebbe costituzionalmente incompatibile.
Dopodiché - come è noto - sono tanti gli osservatori, e anche i giuristi, che segnalano come l’effetto di distorsione complessiva degli equilibri costituzionali si avrebbe inevitabilmente quale risultante del funzionamento pratico dell’altrettanto nuova disciplina elettorale, il tanto contestato “Italicum”.
A questo riguardo si devono svolgere alcune puntualizzazioni: 1) la modifica costituzionale nulla ha a che fare con l’Italicum: sicché si può essere (anche ragionevolmente) critici nei confronti di quest’ultimo senza essere critici nei confronti della riforma, che di per sé non soffre di alcun ipotetico vizio della disciplina elettorale: anzi, al di là della circostanza che l’Italicum è già “sotto processo” (costituzionale), è la stessa riforma a consentire, anche in prima applicazione, la possibilità che le leggi elettorali siano sottoposte ad uno scrutinio di legittimità (costituzionale), e ciò proprio da parte delle minoranze parlamentari; 2) è vero che, nell’assetto costituzionale italiano, la disciplina elettorale è materia costituzionale, eppure è altrettanto vero che (sempre per la maggioranza delle opinioni espresse dai costituzionalisti nei primi sessant’anni della Repubblica…) la riforma, come la stessa Costituzione vigente, non impone opzioni vincolanti sulla direzione che quella disciplina può prendere, né impone che la forma di governo parlamentare possa oscillare - come di fatto è già accaduto - tra una sua declinazione in senso più assembleare e una sua declinazione che vede maggiormente protagonista il Governo.
Molti fautori del NO, tuttavia, potrebbero replicare che un problema sussisterebbe comunque; e si tratta, in effetti, di un profilo delicato. Esso concerne il mancato adeguamento, ai mutamenti indotti dalla riforma, delle “soglie” delle maggioranze necessarie per il compimento di atti parlamentari contrassegnati da una intrinseca funzione di garanzia (quali l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione dei membri “laici” del CSM, l’elezione dei giudici costituzionali etc.).
Il tema è interessante, giacché è indiscutibile che il numero dei senatori conteggiabili a questo fine è, con la riforma, sensibilmente ridotto, con la conseguenza che (con la sola eccezione dell’elezione dei giudici costituzionali, per i quali la riforma, anzi, riserva una quota in capo al nuovo Senato) è la Camera, per così dire, a fare la parte del leone. Nonostante ciò, si tratta di domandarsi: - non è forse vero che i “pericoli”, sul punto, scaturiscono più dalla legge elettorale che dalla riforma? Se è così, valgono le osservazioni di cui sopra; - più in generale: siamo sicuri che, anche se la Camera avesse in taluni casi un ruolo più forte, la situazione sarebbe dannosa per l’attuale equilibrio costituzionale? Si potrebbe, cioè, notare che la riforma, lungi dal mutare assetti finora garantiti, darebbe trasparenza e responsabilità a processi che, mercé i regolamenti parlamentari vigenti, sono già diventati parte sostanziale della prassi istituzionale all’indomani del debutto della cd. “Seconda Repubblica”, e proprio (ancora una volta) per gli influssi della legislazione elettorale (la quale, come si è ricordato, ha percorsi tanto essenziali quanto suoi propri e consegnati, come tali, a dinamiche che non coincidono con quelle della modifica della Costituzione).
***
Al di là di questi argomenti, tuttavia, è necessario ricordare che i punti chiave della riforma coincidono con i punti chiave che sempre sono stati indicati nel contesto italiano come meritevoli di suscitare cambiamenti di prospettiva e conseguenti modifiche costituzionali: è vero o non è vero che è da moltissimi anni che si auspica in modo pressoché trasversale una mutazione del ruolo del Senato e la sua trasformazione in un organo rappresentativo degli interessi territoriali? E’ vero o non è vero che è da altrettanto tempo che si auspica un legame più stretto tra Camera e Governo, non tanto allo scopo di rendere la prima “serva” del secondo, quanto allo scopo di conferire maggiore chiarezza alle sorti del rapporto di fiducia? E’ vero o non è vero che si è sempre e unanimemente evidenziato - anche da molti sostenitori del NO - che la partecipazione al “centro” dei “territori” avrebbe dovuto riequilibrarsi con un logico processo di ri-accentramento di talune competenze legislative?
Con quest’ultima domanda viene in gioco uno dei luoghi più forti dello scontro politico e dottrinale attuale: il rapporto tra la riforma costituzionale e l’autonomia territoriale. Ed è luogo nel quale - bisogna ammetterlo - le ragioni del SI tendono a ritrarsi rispetto alle ragioni del NO: di certo non si può sostenere che il ri-accentramento sia pretesamente doveroso in quanto unica misura razionalmente e politicamente sostenibile a fronte di una “cattiva prova” del regionalismo post 2001. Se quest’ultimo ha funzionato poco o male, ciò è conseguenza di comportamenti imputabili al carattere sempre diffusamente nazionale della classe politica (che, tende, così a concepire i territori come sedi di prosecuzione, se non di inasprimento, della competizione “centrale”), all’attitudine sempre centripeta della più rilevante legislazione statale (avallata, in molti casi, dalla Corte costituzionale, e diventata improvvisamente comprensibile e ragionevole ai più con l’avvento delle urgenze della “crisi economica”) e alle false aspettative sul fatto che la forza della partecipazione locale e l’emersione effettiva dei relativi interessi debbano sempre e inevitabilmente poggiare sul piedistallo di una presupposta “piccola patria” da difendere o da costruire con la forza dello strumento normativo (o, meglio, legislativo).
L’autonomia, di suo, non ha responsabilità: un po’ perché, nel nostro Paese, non la si è mai messa realmente alla prova, se non in alcune realtà speciali; un po’ perché il principio fondamentale che la vuole come uno dei pilastri della vita repubblicana resta invariato e indiscusso. Il vero dibattito, semmai, dev’essere su quale autonomia o, meglio, sul modo con cui essa deve emergere nel complessivo contesto repubblicano. Qui una riflessione più pacata e critica può davvero compiersi, al punto che anche la riforma, così apertamente centralizzante, può essere, paradossalmente, una chance concreta di rinnovato entusiasmo autonomista. Purché, naturalmente, questo entusiasmo riscopra gli spazi che lo avevano realisticamente visto crescere dagli anni Sessanta agli anni Novanta del Secolo scorso: e che, precisamente, immaginavano la scelta autonomista, e pluralista, come metodo condiviso e trasversale dell’unità repubblicana anziché come via per la disarticolazione del Paese e delle sue politiche; e postulavano, così, un ruolo significativo del legislatore statale, sia pur per mezzo del ricorso, nella legislazione, alla tecnica della “cornice” e del “programma”.
In questa prospettiva, possiamo davvero escludere sin d’ora che l’azione del nuovo Senato non sarà in grado di riproporre una tecnica simile laddove la Camera intenda azionare le competenze esclusive statali? Forse è proprio questo l’ambito in cui occorre lavorare sin d’ora, ricordandosi della circostanza che il regionalismo, in Italia, è nato e cresciuto in un contesto in cui, con l’eccezione delle autonomie speciali, le Regioni ordinarie potevano solo concorrere alla definizione di alcune politiche nazionali. E che la Corte costituzionale ha sempre voluto bilanciare gli assetti costituzionali, talvolta facendo da freno, talvolta operando da contrappeso alle possibile derive dell’affermazione di un modello Stato-centrico ovvero di un modello quasi federale. Forse che la Corte, di fronte ad un nuovo assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, non manterrà ferma questa bussola?
Non si può, peraltro, sottovalutare l’importanza che sul tema ha la consapevolezza di ciò che è accaduto con riferimento all’interpretazione corrente dell’art. 5 Cost. e del principio autonomista che vi è enunciato. Se c’è un dato di fronte al quale si può essere tutti d’accordo, ormai, esso consiste nell’acquisizione dello scarso valore precettivo, dal punto di vista materiale, di quella disposizione: al punto che anche la Corte costituzionale ha da tempo riservato al legislatore statale una notevole discrezionalità di sviluppo del principio, dequotando in più occasioni anche le indicazioni provenienti dalla Carta europea dell’autonomia locale (approvata negli anni Ottanta in seno al Consiglio d’Europa). D’altra parte, l’interpretazione in questione, per quanto discutibile, assume un significato proprio in ragione del fatto che la variabile autonomista, nella cornice repubblicana, è in funzione del disegno complessivo di cui agli artt. 2 e 3 Cost., non viceversa.
***
Su questi profili ci si potrebbe soffermare ancora a lungo. Ma è bene ricordare che essi non esauriscono il dibattito, perché la riforma è punteggiata di altre rilevanti innovazioni, molte delle quali sono salutate con favore da una larghissima maggioranza (e anche da molti fautori del NO): l’abolizione del CNEL e delle Province; la revisione della disciplina del referendum abrogativo; la precisazione dei limiti della decretazione d’urgenza e la creazione di una corsia preferenziale per i disegni di legge governativi, etc.
Possiamo, dunque, dire, in fin dei conti, “forse che SI, forse che NO”? Siamo proprio certi che questa riforma vada o non vada approvata per le ragioni che di volta in volta i diversi schieramenti tanto sostengono? O non ci sono validi motivi per assumere, almeno una volta, una decisione maggiormente esplicita e responsabile?
Da ultimo si contesta che vi siano i presupposti effettivi per una decisione di questo tipo, affacciandosi dubbi sulle modalità con cui la scelta referendaria verrà presentata agli elettori nell’apposita scheda (e dimenticandosi, però, che, come accade sempre nel referendum, quelle modalità sono in larga parte predeterminate non da operazioni dell’ultimo minuto, ma dal tenore della rubrica della legge…).
Il tema della formulazione (o troppo complessa o, per altri, troppo semplificata o tendenziosa) del quesito e della sua palese eterogeneità merita comunque un cenno: sono elementi che, a detta di molti, sarebbero fuorvianti; renderebbero in radice poco verosimile l’espressione di un voto referendario (come si dice, usualmente, con riguardo ai quesiti del referendum abrogativo); e costringerebbero gli elettori, diversamente da quanto avvenuto con riferimento a quasi tutte le riforme costituzionali precedenti, a destreggiarsi tra argomenti e istituti diversi, con rischio di generale fraintendimento.
Questo aspetto si lega, se si vuole, al profilo metodologico discusso in precedenza, del quale rappresenta un’ulteriore articolazione: non è forse vero (si afferma) che la procedura di cui all’art. 138 Cost. è stata concepita solo per modifiche puntuali e non per cambiamenti così ampi del testo costituzionale? La domanda può avere, in effetti, risposte diverse. Ma v’è un’altra domanda cui rispondere, in via preliminare: siamo sicuri che, proprio in considerazione della ratio di garanzia del referendum costituzionale, vi si possano applicare le osservazioni che di solito si fanno con riguardo al referendum abrogativo? Siamo sicuri, poi, che, anche in caso di mutazioni circoscritte, la consultazione avvenga sempre e solo sulle sole parti modificate e non sul tessuto costituzionale nel suo complesso, così come risultante dalla modifica (o dalla non modifica)? E siamo sicuri, infine, che sarebbe stato davvero possibile (e corretto) procedere a modifiche costituzionali separate? Sostenere questa possibilità, da un lato, costituisce un’ingenuità quasi disarmante (quelle modifiche sono state possibili, nella negoziazione parlamentare, proprio perché operate simultaneamente), dall’altro, prefigura un modus procedendi assai discutibile (perché capace di dare vita, come è stato evidenziato, ad una sorta di Costituzione à la carte, risultante potenzialmente imprevedibile di decisioni singolarmente prese e non facilmente armonizzabili, neanche sul piano interpretativo).
E’ vero che simili questioni possono introdurre precisazioni del dibattito tecnico, poco comprensibili al comune elettore; ma la loro stessa plausibilità induce a riflettere sulla circostanza che, ancora una volta, su questa consultazione referendaria, non c’è un reale punto fermo e indiscutibile, e che ai cittadini si deve chiedere con fiducia uno sforzo di focalizzazione e di consapevolezza di cui in una società democratica la comunità dev’essere capace.
* Ordinario di diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento.
Email
Istituzioni
La partita del referendum costituzionale
di Ferdinando Pinto*
Il referendum costituzionale a cui saremo, nei prossimi mesi, chiamati per esprimere il nostro voto, sembra la cosa più vicina ad una partita di calcio che si possa immaginare. Si sa, alle partite di calcio vanno i tifosi, solo pochi, o forse nessuno, va a vedere il gioco perché ama divertirsi e apprezzare la bella tecnica di questo o quel giocatore.
Non solo alle partite vanno i tifosi, ma sempre più spesso vanno i tifosi violenti, che il terreno di gioco neppure lo vedono e sono allo stadio solo per scaricare rabbie e frustrazioni. Provate a domandare ai sostenitori del NO il perché del loro voto e ti sentirai rispondere “Perché é una schifezza!”. Provagli a domandare in cosa starebbe la schifezza e, se ti va bene, ti sentirai rispondere con un gesto della mano che vorrebbe comprendere tutto e, in realtà, non significa niente. Provate a fare la stessa domanda ai sostenitori del SI. La risposta sarà: “perché altrimenti non si riuscirà più a fare nessuna riforma!”. Ma cosa c’entra? In realtà quasi nessuno – ci sono evidentemente le lodevoli eccezioni – sa di cosa si parla e, forse, neppure ha letto quello di cui si parla. Si sa il tifoso –e non ditelo a me– è così: ama mica comprende. Cercare di far chiarezza diviene, allora, un compito immane, perché si dovrebbe parlare alla testa di chi ragiona con il cuore.
Eppure bisogna provarci. Cosa fa –in estrema sintesi– la riforma costituzionale? In primo luogo costruisce un rapporto diverso tra Camera e Senato. Non è vero che abolisce il Senato e non è vero che lo estranea da talune materie che verrebbero approvate solo dalla Camera. Il Senato potrà intervenire – con compiti più o meno ridotti – su tutte le leggi dello Stato. E’ vero che gli viene sottratto il rapporto di fiducia con il Governo, ma fondamentale è il suo ruolo nel rapporto con i sistemi della rappresentanza locale e con le organizzazioni europee. Il Senato non è più frutto di una elezione diretta, ma è scelto dai consigli regionali, con un meccanismo già esistente per la Città Metropolitana e ritenuto dalla Corte Costituzionale non in contrasto con il principio della rappresentanza democratica. I Senatori, ancora, sono cento e non ricevono “stipendi”. Viene poi modificato il meccanismo del referendum, che viene esaltato con l’abolizione del quorum, qualora la richiesta sia promossa da 800.000 elettori. Il referendum è, inoltre, introdotto anche nella sua forma propositiva e l’iniziativa popolare – per cui occorrono ora 150.000 elettori – dovrà essere esaminata dal Parlamento e non più buttata in qualche cassetto. Ancora, sono ridimensionati i decreti leggi e il governo, se vorrà far passare una riforma, che ritiene essenziale al proprio programma di governo, dovrà utilizzare una apposita procedura e non usare una arma pensata per le emergenze vere quale appunto il decreto legge. Viene, ancora, introdotta come regola costituzionale dell’azione amministrativa la trasparenza. Vengono infine abolite le Province e il CNEL.
Si poteva fare meglio? Sicuramente si. Il dibattito parlamentare – che da qualcuno è visto sempre come un momento salvifico mentre non lo è quasi mai – è stato, però, un dibattito tra tifosi e come direbbe il principe della risata ‘ho detto tutto!’. Peraltro, l’ottimo è stato sempre il nemico del bene e la domanda fondamentale a me pare un’altra, rispetto a quella se si poteva fare di meglio. Il sistema precedente – quello cioè attuale – è migliore o peggiore di quello che dovrebbe venire. Se mi piacciano di più 315 senatori con lauti stipendi, un bicameralismo tanto paritario da essere unico in Europa, il CNEL, le Province, l’abuso dei decreti legge e un referendum che, non facendo mai il quorum, si traduce solo in uno spreco di denaro pubblico, è meglio chiuderla qui. Le comparazioni sono sempre relative e mai con l’assoluto. Se così non fosse, con molta probabilità, saremo (quasi) tutti single.
Vengo all’ultima questione. Si dice che la riforma non avrebbe potuto essere approvata da un parlamento delegittimato e che meno che mai avrebbe dovuto essere di iniziativa governativa. E’ la prima, preliminare
eccezione che fa il Comitato del NO. Mi sembra la più incomprensibile. Alla fine non decideremo forse noi e non sarà dunque la volontà popolare a decidere se si tratta di una riforma ben fatta? La riforma del titolo V passò con soli tre voti di maggioranza, con un governo in piena crisi, e che subì, immediatamente dopo, una tremenda batosta elettorale. Dopo pochi mesi si votò e la riforma, nonostante la maggioranza che la sosteneva si fosse dissolta, passò comunque e con una maggioranza assai ampia. Nel 2006 poi il referendum costituzionale –che fece peraltro il quorum seppur non richiesto– ebbe un risultato ben più ampio di quanto avesse avuto la maggioranza di governo, contraria alla riforma appena eletta.
Insomma il corpo elettorale è o non è il padrone della sua costituzione e dei sistemi della sua rappresentanza? Si sa gli arbitri sono bravi solo quando fischiano il rigore a tuo favore ma diventano pessimi quando te lo fischiano contro.
* Professore ordinario di Diritto Amministrativo Università Federico II di Napoli
Email
Istituzioni
La riforma costituzionale recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione” è stata approvata il 12 aprile 2016 dai due rami del Parlamento e si appresta ora ad essere sottoposta a referendum popolare.
Riceviamo, e pubblichiamo oggi, un primo contributo sulla riforma della Costituzione, auspicando che, dalle pagine de “Il Merito. Pratica per lo sviluppo”, possa svilupparsi un dibattito, vivace ed aperto a tutte le posizioni in campo, su un tema così centrale per la nostra vita istituzionale.
Riforma costituzionale e questione sociale nell’era della “crisi organica”
di Gaetano Bucci*
Nel breve spazio a disposizione non posso soffermarmi sui vari aspetti problematici del progetto di riforma costituzionale e mi limiterò pertanto a considerare una questione fondamentale, che ha ricevuto, tuttavia, scarsa considerazione nel dibattito in corso.
Vorrei soffermarmi, in particolare, sulle ragioni di carattere economico (Forges Davanzati) che hanno spinto il Governo a proporre (recte: imporre) un disegno di revisione, il quale miraa precludere ogni residua possibilità di realizzare il programma di emancipazione sociale recepito dalla Costituzione (art. 3, 2° co., C.) (Preterossi).
La proposta Renzi-Boschi costituisce, infatti, una nuova tappa di quel processo restaurativo saldamente inscritto negli indirizzi politico-economici dell’UE, che ha già portato al sostanziale annullamento dello Statuto dei lavoratori e all’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Costituzione (Paggi).
La critica alla riforma per essere esaustiva e quindi convincente, non può essere pertanto circoscritta al solo ambito giuridico-istituzionale, ma deve saper individuare gli interessi reali che spingono a connettere le politiche di “governabilità” incentrate sul rafforzamento degli esecutivi con quelle di “stabilità economica” volte a ridurre i diritti e le prestazioni sociali (Paggi).
Le motivazioni effettive del disegno di legge costituzionale, possono essere individuate in un report della banca d’affari JP Morgan (28 maggio 2013), che esortava gli Stati a disfarsi delle Costituzioni del secondo dopoguerra, perché fondate su concezioni «socialiste […] inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea».
I limiti di queste Costituzioni sono stati individuati, in specie, nella prefigurazione di «governi deboli nei confronti dei parlamenti» e nella previsione di «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» che ostacolano l’attuazione delle “misure d’austerità” considerate essenziali per il ripianamento dei “debiti sovrani”.
Il Presidente della BCE, M. Draghi (12 agosto 2013) ha sollecitato del resto l’attivazione di «un processo riformatore definito in sede europea» da imporre «senza mediazioni [...] agli Stati più arretrati», che dovrebbe mirare a trasformarli in «strutture amministrative subordinate» alle istituzioni tecnocratiche sovranazionali (BCE; FMI).
Le riforme proposte dal Governo si collocano inequivocabilmente in questo solco e costituiscono, anzi, il punto d’approdo di un processo controriformatore che - sin dagli anni Ottanta del secolo scorso - ha mirato a «costituzionalizzare» un assetto istituzionale funzionale «alla gestione oligarchica delle dinamiche economico-sociali» (Azzariti), ossia a predisporre un «quadro di comando verticale» svincolato dalle istanze del pluralismo, reputate incompatibili con le esigenze dei mercati finanziari (D. Chirico).
Nella Relazione al disegno di revisione costituzionale si legge infatti che la «stabilità dell’azione di governo» e l’«efficienza dei processi decisionali», costituiscono «le premesse indispensabili» per affrontare le «sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie» e, quindi, «per agire, con successo, nel contesto della competizione globale».
Per queste ragioni il disegno Renzi-Boschi in connessione con la legge elettorale ipermaggioritaria (Italicum), mira a trasformare il modello costituzionale fondato sulla sovranità popolare e sulla centralità del Parlamento, in un modello imperniato sul primato del Governo e in particolare sul “premierato assoluto” (Pace).
Le élites economico-finanziarie e i loro rappresentanti politici mediante l’aumento abnorme dei poteri dell’esecutivo e l’adozione di un sistema elettorale “escludente” che - come il Porcellum - privilegia la “governabilità” sulla “rappresentatività”, puntano insomma ad espellere dallo spazio politico, concezioni, progetti e rivendicazioni sociali alternativi al modello neo-liberista (Algostino).
Nell’era della globalizzazione economica - anzi della sua crisi - si assiste dunque al riemergere di soluzioni regressive incentrate sulla svalutazione della rappresentanza, che paiono riportarci in una situazione simile a quella dell’Ottocento, caratterizzata dalla presenza di uno Stato autoritario impermeabile alle domande scaturenti dal conflitto sociale e orientato pertanto a sostenere gli interessi delle classi dominanti, anche a costo di provocare una crescita abnorme delle diseguaglianze e delle povertà (Piketty; Sassen).
Ad onta della retorica sul “postmoderno”, ci troviamo quindi dinanzi a quella che autorevoli costituzionalisti hanno considerato come una “svolta autoritaria”, com’è comprovato, in specie, dalla disposizione contenuta nell’art. 12, 6° co., del disegno di revisione costituzionale, che ampliando il potere di iniziativa legislativa del Governo e restringendo lo spazio per l’iniziativa legislativa del Parlamento (Pace), distorce non solo la forma di governo parlamentare, ma la stessa forma di stato democratico-sociale.
La norma dispone che il Governo possa «chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione».
La procedura non potrà essere, invero, utilizzata per le leggi bicamerali; le leggi in materia elettorale; le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali; le leggi di concessione dell’amnistia e dell’indulto e le leggi di bilancio.
L’istituzione di una corsia preferenziale per i disegni di legge considerati essenziali per l’attuazione del programma di governo, sposta, comunque, di fatto l’esercizio del potere legislativo in capo al Governo, rendendolo sempre più padrone dei lavori parlamentari. Questa norma rivela, più di ogni altra, come il progetto di riforma punti a trasformare il Governo da «comitato esecutivo del Parlamento» in suo «organo direttivo», contravvenendo così ai fondamenti stessi della democrazia, quali la sovranità popolare e il bilanciamento dei poteri (Algostino).
Con questa previsione il processo di disgregazione del modello democratico-sociale giunge a compimento, perché la sanzione del primato del governo sul parlamento nell’elaborazione degli indirizzi politici, aggiungendosi ai poteri pervasivi in materia di bilancio attribuitigli dagli strumenti normativi della governance economica europea (v. Fiscal Compact), determina la piena integrazione fra “governabilità” e “stabilità economica”, ripristinando il nesso di compenetrazione organica fra lo stato-apparato e gli interessi economico-finanziari, su cui era incardinato sia lo stato liberale, sia lo stato fascista.
Il meccanismo del “voto a data fissa” sui disegni di legge d’iniziativa governativa (art. 12 ddlc.), evoca infatti la cultura istituzionale sottesa alla disposizione dell’art. 6 della Legge 24 dicembre 1925 n. 2263 («Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo») che condizionava fortemente l’autonomia del Parlamento, attribuendo al Capo del Governo il potere di determinare la formazione dell’ordine del giorno delle Camere.
La norma stabiliva, infatti, che: «Nessun oggetto può essere messo all’ordine del giorno di una delle due Camere, senza l’adesione del Capo del Governo».
Non si può non rilevare, pertanto, come la Costituzione esprima una concezione opposta a quella del primato del potere esecutivo concentrato nelle mani del “capo del governo” (Gentile), perché mira a garantire «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, 2° co., C.) e, quindi, alla determinazione della politica nazionale (art. 49 C).
Lo svuotamento delle funzioni del Parlamento e la sterilizzazione dei corpi intermedi paiono, invece, funzionali alla configurazione neoliberista dell’UE, che prescrive continue cessioni di “sovranità popolare” (Irti) per consentire agli esecutivi di attuare speditamente gli indirizzi imposti dalle istituzioni tecnocratiche dell’UE e dai centri di potere finanziario (Zagrebelsky; Preterossi; Catone).
Il modello di Costituzione che s’intende introdurre col disegno di revisione sembra, infatti, rispondere a parametri di efficienza economica finalizzati a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri (Forges Davanzati). Ciò che conta, in questo contesto, è garantire la rapidità dei processi di decisione politica per renderli sincronici con i tempi veloci delle decisioni finanziarie.
I movimenti e le forze politiche che si oppongono alla desertificazione sociale provocata dalle politiche liberiste devono essere quindi consapevoli che la battaglia per la difesa e l’attuazione della Costituzione risulta ancora fondamentale, perché essa costituisce lo spazio politico entro cui diviene possibile rilanciare una dialettica forte sul terreno dei rapporti economico sociali (v. Tit. III C.) e in cui può, quindi, esprimersi la voce dei lavoratori contro quello che Luciano Gallino ha definito “il colpo di stato delle banche e dei governi”.
La “riforma” Renzi-Boschi rischia, invece, di portare a compimento il processo di smantellamento della Costituzione socialmente più avanzata d’Europa.
In una situazione caratterizzata dalla riduzione dei salari, dalla disoccupazione e dalla diseguaglianza, il referendum costituzionale rischia di assumere, tuttavia, la valenza di un pronunciamento popolare sulla deriva oligarchica e antisociale in atto (Preterossi).
Per queste ragioni le forze politiche promotrici della riforma costituzionale hanno deciso di trasformare il referendum nella madre di tutte le battaglie (De Fiores) e dunque, per le stesse ragioni, i cittadini-lavoratori (art. 1 C.) dovrebbero – soprattutto nell’attuale fase di “crisi organica” (Gramsci) –impegnarsi non solo a difendere la Costituzione, ma anche a rivendicare la sua attuazione e, in specie, l’attivazione dei poteri di controllo politico e sociale sull’«attività economica pubblica e privata», da essa previsti (artt. 41, 43 e 47 C).
(27 luglio 2016)
* Professore aggregato di Diritto pubblico, Università degli Studi di Bari
Email