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ISSN 2532-8913

La partita del referendum costituzionale (di Ferdinando Pinto)

 

La partita del referendum costituzionale

di Ferdinando Pinto*

Il referendum costituzionale a cui saremo, nei prossimi mesi, chiamati per esprimere il nostro voto, sembra la cosa più vicina ad una partita di calcio che si possa immaginare. Si sa, alle partite di calcio vanno i tifosi, solo pochi, o forse nessuno, va a vedere il gioco perché ama divertirsi e apprezzare la bella tecnica di questo o quel giocatore.

Non solo alle partite vanno i tifosi, ma sempre più spesso vanno i tifosi violenti, che il terreno di gioco neppure lo vedono e sono allo stadio solo per scaricare rabbie e frustrazioni. Provate a domandare ai sostenitori del NO il perché del loro voto e ti sentirai rispondere “Perché é una schifezza!”. Provagli a domandare in cosa starebbe la schifezza e, se ti va bene, ti sentirai rispondere con un gesto della mano che vorrebbe comprendere tutto e, in realtà, non significa niente. Provate a fare la stessa domanda ai sostenitori del SI. La risposta sarà: “perché altrimenti non si riuscirà più a fare nessuna riforma!”. Ma cosa c’entra? In realtà quasi nessuno – ci sono evidentemente le lodevoli eccezioni – sa di cosa si parla e, forse, neppure ha letto quello di cui si parla. Si sa il tifoso –e non ditelo a me– è così: ama mica comprende. Cercare di far chiarezza diviene, allora, un compito immane, perché si dovrebbe parlare alla testa di chi ragiona con il cuore.

Eppure bisogna provarci. Cosa fa –in estrema sintesi– la riforma costituzionale? In primo luogo costruisce un rapporto diverso tra Camera e Senato. Non è vero che abolisce il Senato e non è vero che lo estranea da talune materie che verrebbero approvate solo dalla Camera. Il Senato potrà intervenire – con compiti più o meno ridotti – su tutte le leggi dello Stato. E’ vero che gli viene sottratto il rapporto di fiducia con il Governo, ma fondamentale è il suo ruolo nel rapporto con i sistemi della rappresentanza locale e con le organizzazioni europee. Il Senato non è più frutto di una elezione diretta, ma è scelto dai consigli regionali, con un meccanismo già esistente per la Città Metropolitana e ritenuto dalla Corte Costituzionale non in contrasto con il principio della rappresentanza democratica. I Senatori, ancora, sono cento e non ricevono “stipendi”. Viene poi modificato il meccanismo del referendum, che viene esaltato con l’abolizione del quorum, qualora la richiesta sia promossa da 800.000 elettori. Il referendum è, inoltre, introdotto anche nella sua forma propositiva e l’iniziativa popolare – per cui occorrono ora 150.000 elettori – dovrà essere esaminata dal Parlamento e non più buttata in qualche cassetto. Ancora, sono ridimensionati i decreti leggi e il governo, se vorrà far passare una riforma, che ritiene essenziale al proprio programma di governo, dovrà utilizzare una apposita procedura e non usare una arma pensata per le emergenze vere quale appunto il decreto legge. Viene, ancora, introdotta come regola costituzionale dell’azione amministrativa la trasparenza. Vengono infine abolite le Province e il CNEL.

Si poteva fare meglio? Sicuramente si. Il dibattito parlamentare – che da qualcuno è visto sempre come un momento salvifico mentre non lo è quasi mai – è stato, però, un dibattito tra tifosi e come direbbe il principe della risata ‘ho detto tutto!’. Peraltro, l’ottimo è stato sempre il nemico del bene e la domanda fondamentale a me pare un’altra, rispetto a quella se si poteva fare di meglio. Il sistema precedente – quello cioè attuale – è migliore o peggiore di quello che dovrebbe venire. Se mi piacciano di più 315 senatori con lauti stipendi, un bicameralismo tanto paritario da essere unico in Europa, il CNEL, le Province, l’abuso dei decreti legge e un referendum che, non facendo mai il quorum, si traduce solo in uno spreco di denaro pubblico, è meglio chiuderla qui. Le comparazioni sono sempre relative e mai con l’assoluto. Se così non fosse, con molta probabilità, saremo (quasi) tutti single.

Vengo all’ultima questione. Si dice che la riforma non avrebbe potuto essere approvata da un parlamento delegittimato e che meno che mai avrebbe dovuto essere di iniziativa governativa. E’ la prima, preliminare

eccezione che fa il Comitato del NO. Mi sembra la più incomprensibile. Alla fine non decideremo forse noi e non sarà dunque la volontà popolare a decidere se si tratta di una riforma ben fatta? La riforma del titolo V passò con soli tre voti di maggioranza, con un governo in piena crisi, e che subì, immediatamente dopo, una tremenda batosta elettorale. Dopo pochi mesi si votò e la riforma, nonostante la maggioranza che la sosteneva si fosse dissolta, passò comunque e con una maggioranza assai ampia. Nel 2006 poi il referendum costituzionale –che fece peraltro il quorum seppur non richiesto– ebbe un risultato ben più ampio di quanto avesse avuto la maggioranza di governo, contraria alla riforma appena eletta.

Insomma il corpo elettorale è o non è il padrone della sua costituzione e dei sistemi della sua rappresentanza? Si sa gli arbitri sono bravi solo quando fischiano il rigore a tuo favore ma diventano pessimi quando te lo fischiano contro.

 

* Professore ordinario di Diritto Amministrativo Università Federico II di Napoli



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