Élite politiche e amministrative tra crisi della democrazia e riforme dell’amministrazione (di Filippo Patroni Griffi)
L’impostazione stessa della riflessione odierna pone in correlazione i due termini di élite e classe dirigente. In primo luogo, cosa intendiamo per élites? anzi cosa decidiamo di intendere per élites, visto che mi sono accorto che in sociologia e scienza della politica le definizioni sono più importanti e, al tempo stesso, ambigue perfino che nel diritto?
Intenderei le élites come “ambiti di eccellenza” nei vari settori della società (questo mi sembra il senso della impostazione paretiana), fondati su tre elementi: merito, conoscenza, capacità di guidare e al tempo stesso di porsi al servizio della società nel proprio ambito di appartenenza[1]. L’élite –ipocrisie del politically correct a parte- presuppone un’identità che si risolve nell’appartenenza; ma non nell’appartenenza quasi dominicale o familiare a un gruppo, quanto piuttosto nell’appartenenza a un “gruppo” che, in quanto tale, assume una precisa responsabilità nell’ambito della società. Se viene meno uno dei tre elementi, se l’appartenenza si risolve in logiche familiste, se l’élite si chiude, essa cessa di essere élite per divenire casta.
Il rapporto tra casta ed élite è centrale nella riflessione sulle élites politiche e amministrative. Una letteratura diffusa quanto approssimativa, per non dir altro, identifica ogni “élite”, quanto meno nel campo istituzionale, in merce da banco frutta[2], o in una “Nomenklatura”[3], con il risultato di “scoraggiare” ogni ambito di potenziale eccellenza e di impostare il tema delle classi dirigenti non con riguardo al merito delle questioni bensì all’appartenenza delle persone. E così i rapporti istituzionali, a livello nazionale o internazionale, diventano un’ambigua rete di conoscenze, se non di malaffare; il cursus honorum diventa una sorta di estratto del casellario giudiziale; i riconoscimenti istituzionali sono sistematicamente frutto di intrighi, complicità, o quanto meno di comunanza di interessi. Una impostazione siffatta mina alla radice l’esistenza stessa di una “classe dirigente”, per sfociare in una impostazione populista estranea alle concezioni tradizionali di democrazia, della quale tali ragionamenti, fondati essenzialmente sull’istigazione all’invidia sociale, costituiscono la forma degenerativa della demagogia.
Un Paese serio, per contro, deve porsi il tema della formazione di una classe dirigente che “peschi” nelle élites del Paese. E quindi il tema stesso delle élites e del loro ruolo di una democrazia moderna.
Per contro, è vero che le élites, per porsi come classe dirigente, devono conservare i tre elementi identitari che abbiamo prima ricordato –conoscenza, merito, logica di servizio- senza i quali l’élite si chiude in una autoreferenzialità “insulare” e realmente si trasforma in casta, incapace di servire il Paese ma destinata anche inevitabilmente, prima o poi, a dissolversi.
Come devono essere oggi le élites? Cosa si richiede loro per essere riconosciute come tali sul piano della cultura e della formazione? Esse sono e devono essere rapportate alle esigenze della società: devono essere europee, e non solo; dotate di cultura giuridica ed economica, identitarie ma non autoreferenziali. Devono soprattutto essere “al servizio” della società e non crogiolarsi nella convinzione, che spesso è pura credenza e quindi illusione, di essere indispensabili; il che non vuol dire ammantarsi di “finta modestia” salvo poi a pensare di essere unici depositari di “scienza e potere”, ma piuttosto essere consapevoli che dall’approccio “umile”, cioè “aperto” alle cose e alla società in cui si opera, deriva la propria autorevolezza e, quel che più conta, la propria legittimazione, che viene sempre dagli altri, mentre dall’approccio autoreferenziale e di eccessiva consapevolezza del proprio ruolo deriva al più un senso di “autorità” che il più delle volte finisce con il trovare riconoscimento solo all’interno del gruppo.
Ciò vale non solo per la élite politica e per quella amministrativa in senso stretto; ma anche per i grandi Corpi (magistratura, diplomazia, prefetti, cui oggi potremmo aggiungere le autorità indipendenti) –i cui componenti sono particolarmente esposti all’autoreferenzialità- e per le élites culturali. Ciò che consente a una élite, o sedicente tale, di essere classe dirigente sono due elementi: progettualità e assenza di autoreferenzialità. Il primo dovrebbe essere soprattutto della politica: e progettualità vuol dire avere il respiro della storia, non l’affanno della cronaca; altrimenti la politica diviene “priva di passato, di memoria, e quindi, schiacciata com’è sul presente, non offre futuro”[4] L’autoreferenzialità è un virus che colpisce inconsapevolmente élites politica e amministrativa, ma anche tutte le altre élites che ho menzionato prima: pensare che la propria cerchia, quale che sia, possa vivere a prescindere da ciò che accade al di fuori è ottuso; e suicida.
Intese come “ambiti di eccellenza della società”, le élites –come si è accennato- sono varie: abbiamo le élites politiche e amministrative, di cui ci occupiamo ora e che sembrano porsi in diretta correlazione problematica con la ruling class, per la loro attinenza al mondo istituzionale; ma quello delle élites è tema riferibile anche al settore economico-finanziario, al mondo imprenditoriale, a quello della istruzione e della cultura in genere. Anzi, difficilmente è pensabile che la “direzione” di una società possa essere relegata alle occupazioni, e alle preoccupazioni, di un solo ambito, agli appartenenti a un solo settore della società, ponendosi tale “direzione” come un compito proprio di tutti coloro che vivono nella comunità.
Il tema di fondo –si è detto- è quello delle classi dirigenti, più in generale quello delle élites. Il rapporto tra i due termini è stato a mio avviso ben chiarito da chi[5] evidenzia che una élite può costituire o meno una classe dirigente; ma al contempo –aggiungerei- non necessariamente la classe in concreto dirigente costituisce una élite. Anzi “la classe dirigente è essa stessa un’élite, ma [solo se][6] è <traente>: è una élite con capacità di guida in quanto a competenze, senso della legalità e responsabilità pubblica. Insomma, è anche leadership”.
Da un certo punto di vista, la democrazia –intesa nell’accezione minima di governo del popolo- sembra rifiutare in radice l’idea che a governare siano in pochi, cioè una élite, in quanto ciò caratterizza una oligarchia, intesa come governo di pochi.
Le cose sono meno semplici.
Antonio Malaschini, in un recente saggio sulle classi dirigenti[7], cita Jefferson: compito delle buone istituzioni è portare alle massime cariche “i realmente buoni e saggi”.
In questo c’è l’estrema sintesi della democrazia moderna: il suo carattere “rappresentativo”, che ne denota la struttura; l’esigenza di buon governo, che presuppone buoni governanti. E così, la democrazia si connota, oltre che come governo “a legittimazione popolare” –formula che circoscrive quella più ampia, ma generica, di governo del popolo-, per essere in definitiva il governo per il popolo.
La tematica generale si incentra, a mio avviso, su due aspetti chiave, che servono a contestualizzare il tema:
a) La crisi della democrazia: che ci consente di considerare le cause di questa crisi e ci suggerisce qualche spunto di riflessione su quelle che sono definite “nuove forme di democrazia”;
b) L’esigenza di una classe dirigente “onesta e preparata” che sappia produrre benessere e uguaglianza, perché queste mi sembrano le finalità minime della democrazia, ma in genere del buon governo: e questo ci consente di riflettere sulle élites politiche e amministrative, ma soprattutto su queste ultime. In quest’ottica, le “riforme amministrative” diventano il terreno su cui si cimentano quelle élites amministrative che aspirino a costituire classe dirigente.
Crisi della democrazia. Non è il caso di passare in rassegna le varie concezioni della democrazia che si sono succedute nel tempo, in stretto raccordo con le forme storiche di democrazia. Un dato però vorrei evidenziarlo: l’attuale “crisi della democrazia” sembra costituire lo sviluppo in senso patologico di elementi strutturali della democrazia medesima, proviene dalla stessa “pancia” della democrazia; a tali elementi si associano, in tempi di crisi economica e quindi sociale, fattori esterni e congiunturali “scatenanti” (esempio di attualità è il fenomeno migratorio, ma non può essere dimenticato l’ampliamento delle famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà e il corrispondente assottigliarsi del “ceto medio” il cui potere di acquisto e quindi il cui stato di benessere si è fortemente ridotto nell’ultimo decennio).
I problemi intrinseci sono stati messi in luce sin dall’antichità e nel corso della storia: tirannia della maggioranza, che tende a calpestare i diritti delle minoranze (questo rischio, per esempio, è stato posto in luce dagli studiosi dei diritti umani); la constatazione per cui la democrazia, nel rendere uguali tutti e nel far pesare tutti ugualmente (si pensi al suffragio universale), favorisce i demagoghi, privi di cultura politica o che sfruttano l’incultura delle masse; la difficoltà di incanalare in idonee forme di rappresentatività la “volontà popolare”, sul presupposto che le forme di democrazia “diretta” sono anch’esse inidonee, perché limitate, ad assicurare l’efficacia dei processi decisionali pubblici.
In realtà le critiche, a ben guardare, sono fondate. Prendiamo a esempio proprio il settore dei diritti umani, che pure costituisce tradizionalmente il settore ideale privilegiato per le buone forme di democrazia, anzi l’ambito sul quale si misura la qualità di una democrazia, quanto meno nella tradizione giuridica europea dal secondo Dopoguerra a oggi[8]. Proprio in questo ambito la tirannia della maggioranza e la tendenza dei governanti a seguire gli umori del popolo si fanno sentire forte, specie in tempo di crisi, in cui l’universalismo dei diritti umani e i valori della civiltà occidentale di tolleranza e solidarietà rischiano di soccombere di fronte alle paure e alle insicurezze che inducono i governanti, anzi che a governare i processi e a ristabilire una rete di solidarietà sopranazionale, ad assecondare le paure e le chiusure nazionalistiche che si diffondono nella maggioranza della popolazione. Da qui una (delle forme di) tirannia della maggioranza.
Più in generale, la crisi –come fotografa Malaschini[9] - determina “anticrazia” e il riemergere di “identità difensive legate alla propria storia”; il meccanismo dei checks and balances fa posto ai poteri di veto che inceppano i meccanismi decisionali; il venir meno dei partiti tradizionali e l’emergere di fenomeni leaderistici, cui non sempre corrisponde l’identificazione di un vero leader, fa venir meno ogni intermediazione tra governanti e governati e ne accentua il distacco reciproco. Aggiungerei altri due fattori evidenziati in letteratura: la frammentazione del tessuto sociale in cui degenera la società pluriclasse che non riesce più a tradursi in una matura democrazia pluralista; un’atomizzazione sociale[10], frutto del prevalere nelle organizzazioni della strategia dell’exit su quella della voice[11], in forza della quale (strategia) il dissenziente abbandona l’organizzazione per un’altra, anzi che confrontarsi all’interno di essa. Tutto ciò ha portato in Italia, da una stagione di ideologia e fedi cui si accompagnava un forte impegno nella politica anche da parte delle generazioni giovanili, a una fase di “impegno spaesato”[12], fino a una sostanziale depoliticizzazione della società, in cui si nega alla politica la sua stessa ragion d’essere, cioè di spazio istituzionale di governo della società.
La crisi della democrazia si traduce essenzialmente in una crisi della partecipazione. Le risposte oscillano tra la tendenza a far prevalere la stabilità dei governanti sul consenso, in modo da assicurare quell’output legitimacy (democrazia dei risultati) che consentirebbe di far riguadagnare la fiducia, a quegli orientamenti che cercano il leader e forme di democrazia diretta o su rete, per passare, attraverso il recupero del valore della partecipazione, alla pratica di nuove forme di democrazia nell’ambito della democrazia rappresentativa: mi riferisco alle varie teorie (e pratiche) di democrazia “deliberativa” e dintorni in cui si ricerca una democrazia più e diversamente partecipata come nuova e moderna declinazione di democrazia rappresentativa; e una diversa partecipazione, come nuova e moderna declinazione di rappresentanza[13].
Ma è anche un dato di fatto che gli ultimi anni siano stati caratterizzati dall’affermarsi di movimenti più o meno marcatamente populisti, che, come ammonisce Natalino Irti[14], non possono essere ignorati o “messi da parte” perché essi spesso interpretano ed esprimono “le correnti del <sottosuolo>. Chiamo così ciò che freme e si agita nel profondo sentire di una società”[15]. L’interpretazione dei bisogni della società è alla base della politica. E lo “Stato”, per essere tale, deve saper dare risposte e deve essere in grado di abbattere ogni steccato che inevitabilmente e ciclicamente si forma tra governanti e governati.
Di un articolo di Aldo Cazzullo[16] che analizza il fenomeno Macron, mi ha colpito la lapidaria affermazione: la ricerca del Macron italiano è destinata a fallire perché “la Francia ha un establishment, un sistema, un’élìte; l’Italia no”….”in Francia esiste un forte sentimento antisistema…però il sistema esiste”.
Ed ecco che nasce il problema della classe dirigente, proprio per un recupero della democrazia. La classe dirigente è fatta in primo luogo di politici e amministratori. E poi di burocrati. La classe dirigente è fatta anche di imprenditori, intellettuali e uomini di cultura, professionisti. E soprattutto una società deve assicurare forme di ascensore sociale che consenta a chiunque di divenire classe dirigente.
Il tema della selezione e della formazione della burocrazia è centrale in una ricerca sul buon governo, o meglio sulla buona democrazia, perché alle classi dirigenti è affidata l’elaborazione e l’attuazione delle politiche; e le buone politiche –come ammoniva Andreatta- sono il “contenuto” della Politica. Ha ragione ancora Malaschini[17] quando afferma: il populismo e l’antipolitica nascono dalla poca politica, non dalla troppa. Dirò di più, dalla politica insipiente, tale perché incapace di svolgere il suo compito: avere un progetto, da proporre e condividere, e avere la capacità di realizzarlo. Il compito non è facile perché i cittadini, specie nelle democrazie e in Occidente, vogliono sempre più benessere, non si accontentano, e il mancato appagamento dei bisogni genera malessere e il malessere produce chiusure individualistiche e involuzioni autoritarie o autocratiche. Ma sarebbe sbagliato pensare di inseguire e appagare ogni bisogno degli individui. Al di là delle ipocrisie, una classe dirigente sceglie, dirige, governa, non è governata, non è diretta. Anche, e forse soprattutto, nelle democrazie. Se è vero che in democrazia i governanti devono saper aprire i processi decisionali ai cittadini, essi devono tuttavia essere in grado di “governare” i processi decisionali e di assumersi la responsabilità di scegliere in prima persona per conto del popolo.
Per fare ciò, la politica deve essere legittimata a farlo, non solo dal voto, che è il minimo sindacale in una democrazia. Da questo punto di vista il sistema elettorale e quello di scelta dei candidati assumono però un valore decisivo; e naturalmente distorsivo se la scelta è congegnata per premiare i fedeli anzi che i capaci.
La classe dirigente deve essere legittimata dalla fiducia (e la crisi delle democrazie oggi è in primo luogo una crisi di fiducia), che deriva dalla competenza e dall’onestà. Queste caratteristiche sono richieste alla politica e alla burocrazia.
Il sistema di istruzione e selezione delle élites amministrative diventa centrale. Anche dove esiste fisiologicamente un rapporto fiduciario (es. nei gabinetti ministeriali), la scelta avviene comunque tra personale qualificato (“un onesto incapace può produrre altrettanti danni di un abile delinquente”[18]; e De Gaulle, che fu sicuramente un leader, fondò l’ENA). Sicuramente noi scontiamo un ritardo in questo settore. Non può esserci riforma amministrativa se non vi è una riforma del sistema di formazione. Qualcosa al riguardo è stata fatta o avviata: mi riferisco alla progressiva unificazione del sistema delle Scuole, avviata dal Governo Monti con la ridenominazione della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA) nel benaugurante nome di Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) –e naturalmente con il coordinamento centrale affidatole rispetto alle altre Scuole- fino alla unificazione di queste sotto il Governo Renzi; alle riforme Madia in materia di dirigenza, e a qualche altro intervento non normativo. Ma i nodi restano: un accesso cadenzato e selettivo tendenzialmente unico attraverso la Sna; una effettiva formazione permanente che consenta ai dirigenti di fare rete e di scambiarsi competenze e conoscenze; una circolazione dei dirigenti che, lontana da meccanismi di spoils system, consenta di collocare la persona giusta al momento e nel luogo giusti. Più a monte, da noi è assente un canale di raccordo tra università e carriera burocratica, e questa carenza tende a distogliere la “meglio gioventù” dal trovare collocazione nell’amministrazione pubblica[19].
Se quello della formazione è problema centrale, di carattere anche fortemente organizzativo, vorrei evidenziare un altro problema di fondo: il rapporto tra democrazia e tecnici o tra politica e tecnici. Non mi riferisco tanto al tema dei governi cd. tecnici che spesso –come ammoniva Croce in un noto articolo sul Corriere dal titolo “Il ricorso ai competenti nelle crisi storiche”-- si materializzano nei momenti in cui la politica dovrebbe assumere decisioni difficili impopolari. Per quanto ciò costituisca la sconfitta di una classe dirigente politica, i governi tecnici sono, in quanto governi, politici.
Mi riferisco al tema del rapporto tra titolari di organi politici e titolari di incarichi tecnico-istituzionali. E nemmeno voglio indulgere alla frase ricorrente, più volte sentita, “il vero ministro là è il capo di gabinetto:” perché in questo caso ci troviamo di fronte a un capo di gabinetto che non svolge correttamente il proprio mestiere, ma anche, e peggio, a un ministro che non sa svolgere il suo.
Mi riferisco al tema della naturale, per certi versi, compenetrazione tra politica e amministrazione sia nella elaborazione sia nell’attuazione delle politiche pubbliche[20]. Il tema è declinato, storicamente, come problema dell’ingerenza della politica nell’amministrazione (Minghetti, Spaventa)[21]; ultimamente sembra prevalere, specie nella letteratura e nei commenti di stampo politico e giornalistico, l’approccio inverso, come sconfinamento della burocrazia nelle scelte politiche, attraverso essenzialmente l’esercizio di poteri di veto, prevalentemente in fatto, che bloccherebbero le politiche determinando uno “stallo decisionale”. E a questa vetocrazia vengono spesso accomunate altre istituzioni –quali la magistratura- che, se si riflettesse e, forse, si studiasse un po’ di più, con la burocrazia non c’entrano niente (semmai, mi riferisco a quella amministrativa, essa è nata come contraltare al potere burocratico; e, se si guarda invece agli ormai pochi magistrati negli uffici di supporto ai ministri, essi sono negli uffici di diretta collaborazione che, come è noto, servono a dare supporto tecnico al ministro nei confronti della burocrazia). Ciò non significa che non esiste un problema nei rapporti tra politici e burocrati, i primi forti di un potere legittimo di decisione non sempre sorretto dalla competenza, i secondi spesso (ma non sempre) sorretti dalla competenza, ma non sempre disposti a mettere questa competenza al servizio della politica.
La realtà fisiologica delle cose non consente approcci “insulari”: una classe dirigente è fatta di politici e burocrati. La politica non può fare a meno dell’amministrazione e del suo sapere tecnico, e anche della sua tendenziale stabilità, che prescinde dalla maggioranza politica; l’amministrazione non può fare a meno della politica, perché le scelte amministrative abbiano una legittimazione democratica e perché l’assunzione impropria di decisioni politiche minerebbe alla base l’imparzialità dell’amministrazione. Oggi si oscilla, nel nostro sistema, tra tentativi di sottomissione della burocrazia alla politica, con meccanismi di spoils system che, oltre a essere incostituzionali, corrono il rischio di premiare la fedeltà al politico di turno anzi che la lealtà del dirigente pubblico alla Politica; e “patti scellerati” (per usare la terminologia riferita all’alleanza tra borghesia settentrionale e agrari del Sud dopo l’unità) tra politica e burocrazia, in cui ciascuno cerca di trarre dalla connivenza con l’altro il proprio tornaconto o la propria tranquillità personale.
Se così stanno le cose, quella che è stata definita “l’implosione delle élite”[22] si è consumata.
In un recente e fortunato saggio, il filosofo canadese Alain Deneault[23] mette in guardia dal rischio della mediocrazia, definita come il conformismo delle istituzioni al potere, il conformismo proprio di queste istituzioni e il conformismo cui queste istituzioni inducono. Il suo in realtà è un saggio che sembra destinato contro le élites, o almeno contro le élites come esse appaiono nella realtà. L’idea “ribelle” che sembra sottesa al pensiero del filosofo canadese presenta molti aspetti discutibili, compresa la critica generalizzata all’idea dominante, quando un’idea dominante deve esistere perché una società sia governata. Ma una critica così estesa alla mediocrazia –intesa come dominanza del “medio”, che esclude l’incompetente ma anche il supercompetente perché non “allineato” agli standard del potere- costituisce un monito importante per le élites di ogni settore, in primis per quelle politico-istituzionali: le élites cessano di essere tali quando si chiudono nell’autoreferenzialità, nella conservazione di sé, nell’esaltazione di valori che, immodificati e immodificabili, diventano essi stessi standard “medi” che impediscono il progresso, accontentandosi della mediocrità. Quando una élite diventa mediocre cessa di essere tale, per trasformarsi in una oligarchia[24] parassitaria che, volendosi avvalere di una rendita di posizione, finirà col perdere quella posizione, ma, quel che più conta, dopo aver fatto naufragare, per proprie responsabilità, la comunità nella mediocrità. E’ quindi “mediocrazia” anche l’incapacità delle élites di innovarsi, di modificare le proprie regole o le regole da essa poste, la tendenza a “conservare” l’assetto esistente contro gli incompetenti ma anche contro i “ribelli”: non è facile distinguere tra ciarlatani e progressisti, tra idee nuove di sviluppo e bieca volontà antisistema; ma una élite, per essere tale, attraverso il dialogo e il confronto, deve saper distinguere e, soprattutto, deve avere la consapevolezza che a una élite se ne può sostituire un’altra, che altri possono succedere a essa, perché il compito storico di una élite può esaurirsi in favore di un’altra élite.
Al tempo stesso, va detto, la critica generalizzata all’élite in quanto tale –che, v’è da chiedersi, sembra generata da un micidiale mix di ignoranza e di invidia sociale, e da una sorta di atteggiamento di sentirsi in credito con l’universo- conduce a sostituire il conformismo delle élites tradizionali con il conformismo della massa, della rete, dell’antisistema, il conformismo dell’anticonformismo.
Occorrerebbe che tutti prendessimo coscienza di ciò, della centralità ma anche della complessità del fenomeno e delle questioni che esso pone. Altrimenti dovremo accontentarci di una classe dirigente che non sia espressione di una élite a tutto tondo; e quindi inesorabilmente accontentaci di una nostra mediocrità, assai poco aurea: di una mediocrazia fatta di mediocri.
(26 gennaio 2018)
* Relazione al Convegno “Emergenza classe dirigente” – Firenze 3 novembre 2017 – Fondazione CESIFIN Alberto Predieri.
** Filippo Patroni Griffi, Presidente aggiunto del Consiglio di Stato.
[1] Conoscenza e merito costituiscono due aspetti della “competenza”: per essere competenti bisogna conoscere ed essere “bravi”. Il terzo elemento può sintetizzarsi come “logica di servizio”, contrapposta a una logica di potere e “supponenza” che costituisce l’anticamera a che un’élite si trasformi in una “casta” per poi dissolversi nel nulla
[2] P.Bracalini, La Repubblica dei mandarini, Venezia 2014
[3] R.Mania e M.Panara, Nomenklatura, Bari 2014. Ma la letteratura sull’argomento è florida
[4] G.Van Straten, op.cit.
[5] C.Carboni, Una classe dirigente mediocre?, in Elite e classi dirigenti in Italia, Bari 2007
[6] La parentesi è nostra
[7] A.Malaschini, Classi dirigenti, Soveria Mannelli 2017
[8] In tal senso, da ultimo, S.Rodotà, Diritti e democrazia, in La filosofia e le sue storie (a cura di U.Rco e R.Fedriga), Bari 2017
[9] A.Malaschini, op.cit., 13
[10] L. Raffini, La democrazia deliberativa come risposta alla crisi della partecipazione?, in http://www.cires.unifi.it/CMpro-v-p-256.html .
[11] A.O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty: responses to decline in firms, organizations and states, 1970
[12] G. Van Straten, L’impegno spaesato, Roma 2002, 21
[13] Su questi temi si consenta il rinvio a F.Patroni Griffi, Autonomie locali e nuove forme di democrazia: ovvero, del recupero della partecipazione, in Diritto e Società, n. 2, 2017
[14] N.Irti, Non possiamo ignorare il sottosuolo della società, in Corriere della sera 28 giugno 2017
[15] Suggestiva l’evocazione dei Ricordi dal sottosuolo di F.Dostoevskij
[16] A.Cazzullo, Il Macron italiano che non c’è, in Corriere.it del 27 giugno 2017
[17] Op.cit., 27
[18] A.Malaschini, op.cit., 151
[19] Muovendo da un’analisi storico sociologica, G.Melis, Perché non esiste ancora una storia delle élites amministrative europee, in Le Carte e la Storia, 2005, n. 2 7ss., rileva come le élites ottocentesche europee potevano confidare su un plafond culturale comune, su consolidati rapporti di classe e anche familiari, su comuni letture, su una rete di scambi e di viaggi conoscitivi, in definitiva su una comune appartenenza di classe. Nel Novecento, si assiste a “imponenti processi di scomposizione e ricomposizione sociale che modificano ovunque la gerarchia ottocentesca delle élites” lungo tre direzioni: l’espansione numerica delle burocrazie che determina un “imborghesimento” delle rispettive élites amministrative; la specializzazione delle élites amministrative a svantaggio delle élites generaliste; la separazione tra politica e amministrazione, che genera talvolta un rafforzamento dei grandi Corpi, tal altra un indebolimento delle burocrazie a vantaggio del potere politico. Dello stesso Autore, v. La burocrazia, Bologna 2015
[20] Si rinvia, anche per riferimenti, a F.Patroni Griffi, Tecnici e politica nelle democrazie, in www.giustizia-amministrativa.it nonché in Ventunesimo secolo, Rivista di studi sulle transizioni, Milano, numero speciale 36 del 2015 su Tecnici e politica, ivi saggi di vari Autori
[21] Il fenomeno dell’ingerenza della politica nella giustizia e nell’amministrazione è denunciato dal Minghetti nel discorso all’Associazione di diritto costituzionale di Napoli dell’8 gennaio 1880, i cui contenuti sono poi ripresi e sviluppati nel noto volume, pubblicato l’anno successivo, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione. Il tema è sviluppato analiticamente da S Spaventa, La giustizia nell’Amministrazione (noto come Discorso di Bergamo 1880), che si trova pubblicato, tra i vari, nel volume, curato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici, S.Spaventa, La giustizia amministrativa (a cura di Ricci), Napoli 1993, p.41 ss
[22] C.Carboni, L’implosione delle élite, Soveria Mannelli 2015
[23] A,Deneault, La mediocrazia, 2015, trad.it. Vicenza 2017. “Mediocrità è un sostantivo che…suggerisce uno <stare nel mezzo>, una qualità modesta non del tutto scarsa ma certo non eccellente; indica insomma uno stato medio tendente al banale, all’incolore, e la mediocrazia è di conseguenza tale stato medio innalzato al rango di autorità” (p.36). La mediocrazia designa dunque un ordine mediocre innalzato a modello (p.40), tanto che (e l’Autore cita lo scrittore russo Aleksandr Zinov’ev di Cime abissali- “se uno stabilimento si mette a funzionare meglio degli altri, attira inevitabilmente l’attenzione”. Tra i cinque “caratteri concettuali” di mediocri, esiste il “mediocre zelante, una vera piaga…Essere incapace di qualunque riflessione è il suo punto di forza” (p.32)
[24] Sulle oligarchie v. l’agevole ma ricco saggio di G.Berta, Oligarchie, Bologna 2014