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ISSN 2532-8913

La propagazione delle regole nell’Unione Europea (Salvatore Lanza)

In molti settori economici, la liberalizzazione degli scambi internazionali coincide con la rimozione di barriere doganali, siano esse basate su strumenti di prezzo (i dazi) o su strumenti di quantità (le quote). In altri settori, tuttavia, per consentire la creazione di aree sovranazionali di scambio, non è sufficiente rimuovere obblighi e divieti, ma occorre definire standard comuni, attraverso sistemi di regole condivise.

Ad esempio, per i beni il cui trasporto avviene attraverso reti, la libertà di scambio transfrontaliero richiede l’adozione, da parte dei Paesi interessati, di veri e propri codici atti a disciplinare l’accesso alle infrastrutture di trasporto, al fine di garantirne l’utilizzo in condizioni di sicurezza e di efficienza.   

Questo, in estrema sintesi, è il motivo che ha spinto l’Unione Europea a dotarsi di numerosi Regolamenti, chiamati appunto “codici di rete”, con cui definire le regole del mercato interno dell’energia elettrica e del mercato interno del gas.

La creazione di un mercato unico, in questi casi, si presenta pertanto come attività di regolamentazione piuttosto che come attività di deregolamentazione.  Le norme contenute nei codici di rete sono ben più penetranti di quelle previste negli accordi di libero scambio e richiedono complesse procedure di approvazione ed emendamento, coinvolgendo molteplici livelli gerarchici.  A tal riguardo, i Regolamenti recentemente adottati dal legislatore europeo attraverso la procedura di comitologia[1]  prevedono l’approvazione di ulteriori norme di dettaglio in maniera congiunta da parte delle Autorità di Regolazione Nazionali.  

La condivisione da parte degli Stati membri di regole comuni (indicate, a seconda dei casi, come “termini e condizioni” o come “metodologie”) che presentino un livello di dettaglio così spinto come quello previsto dai codici di rete è resa possibile proprio dall’appartenenza all’Unione Europea.

A questo punto, ci si può chiedere se sia possibile estendere l’ambito geografico del mercato unico nel settore elettrico a Paesi fuori dall’Unione Europea. E quali accordi commerciali sono necessari per replicare lo stesso grado di coesione normativa che vige tra gli Stati membri.  

Non si tratta di quesiti puramente accademici, dal momento che l’Unione Europea ha effettivamente stabilito accordi con alcuni Paesi confinanti per ampliare il mercato unico dell’energia elettrica. Tali accordi prevedono l’adozione, da parte dei Paesi terzi, degli stessi Regolamenti vigenti all’interno dell’Unione, salvo adattamenti necessari a tenere conto delle specificità degli Stati extra UE.

Siamo di fronte ad una casistica relativamente ampia, la cui analisi consente di ricostruire la strategia seguita dall’Unione per estendere i suoi confini limitatamente ad alcuni settori economici particolarmente rilevanti.  

Si pensi innanzitutto al caso della Norvegia, che aderisce allo Spazio Economico Europea[2] e che ha accettato di applicare la stessa normativa vigente nell’Unione.  A questa si aggiungono le Parti Contraenti del Trattato istitutivo della Comunità dell’Energia del Sud Est Europa, anch’esse impegnate a trasporre l’acquis comunitario in materia energetica e ambientale. Inoltre, l’Unione è impegnata in negoziati con la Svizzera [3]dal cui esito dipende, tra le altre cose, l’inclusione della Confederazione elvetica nel mercato unico dell’energia elettrica. Infine, non va dimenticato che la Gran Bretagna, già integrata nel mercato unico dell’energia elettrica, sta lasciando l’Unione, senza per questo dover necessariamente disaccoppiare il suo mercato elettrico da quello degli Stati membri.

Le strategie negoziali nonché le tipologie di accordo che l’Unione prende in considerazione per estendere l’ambito di applicazione dell’acquis comunitario sembrano differire a seconda del contesto geopolitico preso in considerazione. Tuttavia, il meccanismo con cui l’Unione tende a propagare le sue regole appare sempre lo stesso. L’Unione è paragonabile ad un club che offre una vasta gamma di servizi ai soci, ma allo stesso tempo richiede, oltre al pagamento della quota associativa, anche il rispetto del codice di condotta stabilito dai soci fondatori. Alcuni servizi del club sono rivolti anche ai non soci, a cui è riconosciuto lo status di utenti, previo pagamento di un abbonamento e a condizione che rispettino le regole di utilizzo del servizio. Mentre i soci sono comproprietari delle common facilities (i cosiddetti beni club) gli utenti pagano una sorta di corrispettivo per l’utilizzo.

I Paesi terzi che partecipano al mercato unico dell’energia elettrica sono assimilabili agli utenti del club: devono farsi carico di una quota dei costi sostenuti per creare la common facility e devono adottare le regole formulate dall’Unione. In cambio ottengono la facoltà di scambiare a parità di condizioni con tutti gli altri partecipanti.

Ma, come convivono nel club soci e utenti?

La prima distinzione tra soci ed utenti è rintracciabile nel diverso ruolo che essi giocano nei processi decisionali. I soci (gli Stati membri dell’Unione) votano secondo le regole concordate, che possono cambiare a seconda delle istituzioni coinvolte. Gli utenti (i Paesi terzi) solitamente non prendono parte a pieno titolo ai processi decisionali. Dall’analisi fattuale emerge che gli utenti possono essere classificati in categorie differenziate in base al grado di coinvolgimento nel processo decisionale.

Alcuni Regolamenti europei in ambito energetico prevedono che si utilizzino le regole di voto del Trattato di Lisbona quando a votare siano i gestori di rete ed i gestori di mercato, mentre per le decisioni comuni alle autorità di regolazione si prevede che ci sia consenso unanime.

Nel caso della Norvegia, mentre sia il gestore di rete norvegese che i gestori di mercato designati nel Paese sono ammessi alle procedure decisionali a pieno titolo ed alle stesse condizioni dei loro omologhi negli Stati membri, l’autorità di regolazione norvegese non partecipa alle decisioni comuni insieme agli altri regolatori. In effetti il regolatore norvegese non siede nel Consiglio dei Regolatori dell’Agenzia per la Cooperazione tra Regolatori Energetici (ACER) né partecipa ai lavori del Forum dei Regolatori Energetici (ERF).

Per quanto riguarda le Parti Contraenti firmatarie del Trattato istitutivo la Comunità dell’Energia del Sud Est Europa, sebbene esistano regole dettagliate per disciplinare l’adozione dei Regolamenti europei all’interno dei loro ordinamenti giuridici[4], non esistono ad oggi regole chiare che ne assicurino la partecipazione ai processi decisionali previsti per le istituzioni degli Stati membri. Le autorità di regolazione energetica si coordinano attraverso un apposito Consiglio dei Regolatori (Energy Community Regulatory Board -ECRB), diverso da quello a cui appartengono i regolatori degli Stati membri. Le due istituzioni, ACER e ECRB, hanno natura giuridica, funzioni e poteri differenti. Il Regolamento che istituisce l’Agenzia[5]  prevede l’accesso al Comitato dei Regolatori anche dei regolatori di Paesi terzi, qualora sussistano appositi accordi tra tali Paesi e l’Unione. I Regolamenti europei che disciplinano il funzionamento del mercato unico dell’energia elettrica prevedono il diretto coinvolgimento delle autorità nazionali di regolazione nelle fasi di implementazione e piena operatività. Come garantire, allora, la reciprocità tra Stati membri e Parti Contraenti? 

I negoziati tra Unione Europea e Confederazione Elvetica potrebbero finalmente giungere ad esito positivo e consentire, tra le altre cose, la stipula di un accordo energetico. Ci si chiede se anche in questo caso, sarà la Svizzera ad adottare il diritto comunitario in materia di energia.

Infine, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione impone che negli accordi con l’Unione sia disciplinata anche la modalità di partecipazione al mercato unico dell’energia elettrica. Mentre sembra piuttosto chiaro che la Gran Bretagna perderà lo status di socio, non è altrettanto chiaro a che categoria di utente apparterrà.

E, ancora, come ripartire i costi delle common facilities?

L’approccio seguito dall’Unione Europea nella costruzione del mercato interno dell’energia e nel suo allargamento ai Paesi terzi si basa sul modello del pioniere: un gruppo ristretto di attori dà vita ad un progetto pilota, ne testa il funzionamento e poi elabora una versione compatibile con una scala più ampia, versione che è poi cristallizzata in un atto giuridico (solitamente un Regolamento).

Le principali caratteristiche del progetto pilota finiscono inevitabilmente per definire anche la struttura portante del modello che verrà implementato su larga scala. Le parti che aderiscono al progetto successivamente si trovano, da un lato, ad usufruire dei benefici generati dal progetto pilota, dall’altro, sono esposti alla richiesta di contribuire a sostenerne i costi.  

Se sembra corretto che anche i nuovi venuti contribuiscano alla copertura dei costi storici, dal momento che anch’essi godranno dei benefici, tuttavia va anche tenuto conto che i nuovi venuti non hanno concorso a prendere le decisioni che hanno generato tali costi. Nella misura in cui l’adesione al progetto è su base volontaria, sarà cura del singolo partecipante valutare se il contributo richiesto per la copertura dei costi storici è più che compensato dai benefici derivanti dall’uso della common facility. Se invece l’iscrizione al club è resa obbligatoria, allora il contributo si trasforma in una sorta di imposta. Una volta approvati i Regolamenti che disciplinano il funzionamento del mercato interno, l’appartenenza all’Unione Europea impone automaticamente lo status di “soci” a tutti gli Stati membri. Il contributo ai costi non è quindi volontario, ma è piuttosto assimilabile ad un’imposta.

Per i Paesi terzi, invece, si applica lo status di “utenti”, che volontariamente scelgono se accedere ai servizi del club oppure no. Questa differente condizione dovrebbe, in linea di principio, garantire maggior potere negoziali ai Paesi terzi rispetto ai singoli Stati membri che non hanno fatto parte del gruppo dei pionieri. 

mappa lanza

 

 (17 luglio 2018)

 

[1] Si tratta del Regolamento della Commissione (UE) 2015/122, del Regolamento della Commissione (UE) 2016/1719, del Regolamento della Commissione (UE) 2017/2195.

[2] Lo Spazio Economico Europeo (SEE) è formata da tre Paesi che non fanno parte dell’Unione Europea (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) ma che hanno accettato di attuare leggi simili a quelle approvate nell’UE in materia di politica sociale, protezione dei consumatori, ambiente, diritto societario e statistica. Questi Paesi non sono rappresentati nelle istituzioni della UE, quali il Parlamento Europeo o la Commissione Europea. Si parla di democrazia del “fax”, dal momento che la legislazione di questi Paesi è invia tramite fax dalla Commissione. I Paesi aderenti allo SEE riconoscono le stesse quattro libertà fondamentali su cui si basa il mercato unico europeo (libertà di movimento di persone, beni, servizi e capitali). Pertanto, la UE e lo SEE costituiscono un’unica area di libero scambio.   

[3] La Svizzera non ha aderito allo SSE, ma ha sottoscritto accordi bilaterali con la UE nel 1999. Tuttavia, a seguito dell’accettazione dell’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa nel 2014, non sono stati più sottoscritti trattati tra UE e Svizzera.

[4] In breve, la Commissione Europea propone l’adozione di un Regolamento europeo al Gruppo Permanente di Alto Livello (PHLG) della Comunità dell’Energia che, sentito il parere del Consiglio dei Regolatori (ECRB), decide a maggioranza.

[5] Regolamento (CE) n.713/2009 del Parlamento Europeo e del Consiglio. L’art. 31 del Regolamento prevede che: “L’Agenzia è aperta alla partecipazione di paesi terzi che hanno concluso accordi con la Comunità, in virtù dei quali hanno adottato e applicano il diritto comunitario nel settore dell’energia e, se pertinente, nei settori dell’ambiente e della concorrenza”.

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