Il ruolo delle utility nello sviluppo delle megacity elettriche (di Angelo Facchini)
Nel 2015, durante la Conferenza sui cambiamenti climatici di Parigi, è stato riconosciuto alle città un ruolo fondamentale nel contenimento delle emissioni serra e nella lotta ai cambiamenti climatici.
A oggi il sistema urbano mondiale contribuisce a oltre il 70% delle emissioni di gas a effetto serra, e la crescente urbanizzazione, in particolare nei paesi emergenti e in via di sviluppo, pone il problema della crescita urbana sostenibile nei prossimi anni.
Una delle dimensioni più importanti della città è sicuramente quella energetica, e il ricorso a energie rinnovabili e reti intelligenti è considerato una valida strategia per ridurre l’impronta ambientale dei flussi di energia che alimentano il sistema urbano mondiale. Un possibile scenario è quello della città elettrica, cioè una città alimentata totalmente da elettricità da fonte rinnovabile, dove l’elettrificazione a bassa emissione serra (low carbon electrification) comporta, tra altri cambiamenti, la sostituzione dei dispositivi alimentati a combustibili fossili con dispositivi elettrici, quali auto e pompe di calore alimentate da risorse rinnovabili. Inoltre, le città elettriche a bassa emissione serra possono promuovere la crescita verde (Green Growth). Esistono, infatti, forti legami tra la crescita economica urbana e l’aumento dell’utilizzo pro capite di energia elettricità (Liddle & Lung, Kennedy et al., 2015)[1].
Quali distributori di energia elettrica nelle città, le utility elettriche giocano un ruolo centrale nella transizione verso la città elettrica, poiché la decarbonizzazione delle infrastrutture comporta profondi cambiamenti tecnologici tali da permettere l’immissione in rete di notevoli quantità di energia da generazione distribuita e da fonti intermittenti (e.g eolico e solare), la gestione di un gran numero di utenti al tempo stesso produttori e consumatori (prosumers), e lo sviluppo di nuovi modelli di business per la generazione, la distribuzione e la gestione dei sistemi elettrici urbani (Facchini, 2017).
Nel caso delle megacity (i.e. agglomerati urbani con più di 10 milioni di abitanti) l’obbiettivo della città elettrica è ben sintetizzato dalla figura 1, dove la direzione della sostenibilità è indicata dalla freccia diretta verso l’area del grafico in cui si registra un’elevata percentuale di utilizzo dell’energia associata alla bassa emissione di anidride carbonica. La posizione ideale (e in un certo senso utopica) si trova nell’angolo in basso a destra. Si tratta di una posizione ideale; nella realtà non è strettamente necessario arrivare al 100% di energia elettrica, e l’eventuale utilizzo di fonti non fossili (es. biomassa per riscaldamento) possono effettivamente migliorare la resilienza della città, come si vedrà di qui a poco.
Dalla figura 1 emerge, altresì, che un gruppo di tre megacity, Parigi, Rio de Janeiro e San Paolo si distinguono dalle altre per essere le più vicine alla posizione ideale nell’angolo in basso a destra. Queste tre megacity utilizzano fonti a basso tenore di CO2 per il loro fabbisogno energetico: Parigi è principalmente fornita da energia nucleare, mentre Rio e San Paolo sono prevalentemente alimentate da energia idroelettrica (Facchini et al. 2017). Buenos Aires ha un livello simile carbon intensity, ma utilizza una percentuale minore di energia elettrica per l’approvvigionamento energetico. Il maggior uso di altre fonti energetiche rispetto a Rio e Sao Paulo può essere spiegato in parte col clima più freddo, dato che Buenos Aires utilizza relativamente più energia per il proprio riscaldamento (vedi figura S4 in Kennedy et al., 2015).
Figura 1: Posizione delle megacity rispetto al percorso ideale di trasformazione elettrica (Kennedy et al., 2017).
Le megacity indiane Calcutta e Mumbai evidenziano, invece, la maggiore percentuale di energia elettrica usata. L’elevato uso dell’elettricità è dovuto principalmente al clima caldo, all’elevata densità della popolazione (oltre 25000 abitanti per km quadrato) e ai bassi livelli di utilizzo di combustibili industriali. Entrambe le megacity, però, hanno una carbon footprint dell’energia elettrica dominata dagli impianti a carbone, che soddisfano oltre il 90% del fabbisogno della generazione elettrica. Queste città, e in misura minore Delhi e Jakarta, devono dunque intervenire sulle loro infrastrutture per ridurre le emissioni serra.
Tra le megacity più ricche, Osaka (39%) e Tokyo (34%) mostrano i livelli più alti livelli di uso dell’energia elettrica. Le megacity giapponesi sono quindi più vicine al modello delle città elettriche rispetto ad altre megacity come Londra, New York, Los Angeles, Mosca e Seoul. Tutte queste megacity, collocate nella parte più ricca del pianeta, hanno (con l’eccezione di Parigi) forniture di energia elettrica a media carbon intensity (dell'ordine 500 tCO2 / GWh), e la maggior parte di esse necessitano in futuro di raggiungere più elevati tassi di elettrificazione e decarbonizzazione.
Le megacity più lontane dalla situazione ideale sono Shanghai, Guangzhou, Teheran, Città del Messico e Dhaka. Le prime due utilizzano elettricità per soddisfare soltanto il 20% del loro fabbisogno e sono servite con elettricità ad alta intensità di CO2 (prevalentemente generata da impianti a carbone). Teheran, Città del Messico e Dhaka hanno una carbon intensity sotto il valore soglia di 600 tCO2/GWh, valore sotto il quale l’elettrificazione rappresenta una strategia vantaggiosa per ridurre le emissioni di CO2 (Kennedy 2015, Kennedy et al., 2014b). La percentuale di utilizzo dell’elettricità in queste tre città è tuttavia particolarmente bassa (meno del 12%).
Per raggiungere l’obiettivo ideale descritto in Figura 1 si prevede che le utility avranno un ruolo centrale e che dovranno adattare i loro modelli di business e crearne di nuovi. Pur non essendo la definizione di tali modelli obiettivo del nostro studio, si ritiene comunque utile cercare di individuarne le caratteristiche principali, in termini di gestione della rete di distribuzione e di gestione degli impianti di generazione. In tal senso, la tabella 1 rappresenta un ambizioso tentativo di descrivere tre tipi estremi di modelli di business che potrebbero emergere in alcune città; molto dipende dagli sviluppi tecnologici e sociopolitici in corso, nonché dalla posizione geografica.
Le possibili opzioni sono sviluppate considerando modelli centralizzati e distribuiti, sia per la gestione della rete, sia per la produzione di energia. Per quanto riguarda la generazione, se abbiamo considerato l’ipotesi in cui la generazione e lo stoccaggio dell’energia elettrica sono localmente dispersi e l’ipotesi in cui l’elettricità sia, invece, per lo più importata da impianti rinnovabili posizionati fuori della città. Per quanto riguarda la modalità di gestione della rete (e la sua proprietà) all’interno della città (inclusa le possibilità di presenza di più operatori e più reti) vengono presi in considerazione le ipotesi in cui la rete sia altamente centralizzata (indipendentemente se pubblica o privata) o, piuttosto, altamente dispersa. Risultano quindi tre modelli di business estremi (da II a IV), insieme ad un modello esistente, qui definito “dominante” (#I) già oggi esistente in alcune megacity.
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Controllo della rete |
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Centralizzato |
Distribuita |
Produzione di energia & Accumulo |
Centralizzata |
I Dominante |
II Concorrente |
Distribuita |
III Enabler |
IV Technology provider |
Tabella 1. Potenziali modelli di Business in termini di controllo della rete e di proprietà di generazione di energia e di accumulo
Il modello di business “dominante” si riferisce al caso in cui la città non sia in grado di generare tutta l’elettricità necessaria da fonti locali e una singola società importi quindi l’elettricità a basso impatto di CO2 e la distribuisca sulla rete. La società potrebbe essere pubblica o privata, essere integrata verticalmente e possedere centrali elettriche rinnovabili che generano beni al di fuori della città. Caratteristica fondamentale è, però, che la società in questione possieda e/o controlli la rete elettrica, e operi in un regime regolato. Inoltre, una piccola percentuale di elettricità potrebbe essere generata da fonti distribuite nella città, e forse provenire anche in parte dallo stoccaggio; in ogni caso tali eventualità, generalmente, non alterano il qui delineato modello di business. In conclusione, può dirsi che il modello dell’utility dominante è molto efficiente nel caso di economie di scala.
Anche il modello di business “concorrente” (#II) prevede che l’elettricità sia generata principalmente da fonti esterne alla città, ma, a differenza del modello dominante, tale energia viene distribuita da utility in concorrenza tra loro all’interno della città. Esistono già esempi di megacity con più distributori che forniscono servizi elettrici all’interno delle medesime città, anche se tali distributori potrebbero di fatto essere dei quasi-monopolisti che offrono servizi in diverse aree geograficamente definite all’interno dell’area metropolitana. Una versione più estrema del modello II potrebbe piuttosto prevedere l’esistenza di due o più fornitori di servizi che operano nella stessa posizione geografica. Come avviene per le società di telefonia e via cavo che forniscono servizi in competizione su internet nelle nostre città. Nel settore energetico, tale concorrenza potrebbe realizzarsi attraverso la coesistenza di micro-reti DC e reti regionali AC: una riedizione, in chiave moderna, dell’antica rivalità tra Thomas Edison e Nikola Tesla.
Il modello III, “Enabler”, è un modello che potrebbe svilupparsi nelle città del domani, in cui una grande percentuale di energia elettrica potrebbe essere generata localmente da fotovoltaico, dalla cogenerazione di biomasse o da altre tecnologie distribuite all’interno delle città. Un simile modello può apparire tecnologicamente irrealizzabile in molte città di oggi, in particolare quelle a elevata densità di popolazione. Purtuttavia, con il continuo declino del costo delle celle fotovoltaiche e delle batterie elettriche - e con un adeguato sistema di incentivi -, questo modello potrebbe diventare preponderante in alcune regioni a bassa densità di popolazione. Per esempio, lo sviluppo di immobili a bilancio nullo (zero energy buildings) (Athienitis & O'Brien 2015) potrebbe portare alla creazione di interi quartieri residenziali ed edifici commerciali che immettono energia in rete durante i periodi in cui vige l’ora legale. Anche gli edifici residenziali e commerciali esistenti possono comunque contribuire, fin d’ora, a fornire notevoli quantità di energia. In questo modello, com’è intuibile, i sistemi di accumulo assumono un ruolo molto importante, sia in forma stazionaria che sotto forma di veicoli elettrici (vehicle to grid). Gestito in maniera adeguata, l’accumulo elettrico può infatti assorbire parte delle fluttuazioni dovute all’intermittenza tipica della generazione da fonti rinnovabili.
In questo contesto, il ruolo dell’utility diventa, sempre più, quello di potenziatore di scambio con la rete, pur continuando a svolgere un ruolo, secondario, come importatore di potenza generata esternamente, sia questa generata dalla stessa utility o da un altro soggetto. L’utility quindi fornisce il servizio costruendo, manutenendo e gestendo la rete elettrica della città nel modo più efficiente.
Nonostante il progresso verso il modello III sia stato favorito dagli incentivi, questi devono comunque trasformarsi per permettere la piena implementazione di tale modello. Infatti, nelle megacity in cui sono presenti degli incentivi, questi sono stati orientati verso lo sviluppo di piccoli impianti di generazione distribuita, senza tenere conto dei costi di mantenimento della rete. In questo caso, il modello III rischia però di divenire finanziariamente impraticabile, dato che la maggior parte della generazione di energia sarebbe fornita da generatori distribuiti su piccola scala, che tendono a preferire la vendita di energia all’autoconsumo, per via dei maggiori guadagni che ne ottengono. Al contrario, il modello funziona bene quando tutti i piccoli impianti di generazione devono contribuire al mantenimento e all’operatività della rete, pur ricevendo una ricompensa sufficiente quando immettono energia in rete.
Il modello IV, “Technology Provider”, prevede che sia la generazione che il controllo della rete siano altamente distribuiti[2]; nella sua forma più semplice questo modello di business prevede che non esista neppure una rete centralizzata. La combinazione di celle fotovoltaiche e batterie di stoccaggio che lo caratterizza rende il modello in esame tecnicamente fattibile nelle grandi aree a bassa densità e in alcuni climi specifici (e.g con variazioni climatiche minime), mentre non appare praticabile in aree urbane ad alta densità.
Khalilpour & Vassallo (2015) hanno valutato le dimensioni ottimali di un sistema PV con storage che permetterebbero a un generico utente domestico di abbandonare la rete principale (off-grid puro); la conclusione cui sono pervenuti i due Autori è che per un abbandono totale, ci vorrebbero impianti di taglia talmente grande da essere, al momento, economicamente svantaggiosi.
Un interessante caso studio sui clienti statunitensi è oggetto dello studio di Bronski e et al. (2014); questi Autori hanno individuato l’anno in cui i sistemi off-grid potrebbero divenire competitivi rispetto alla soluzione on-grid: alle Hawaii la soluzione sarebbe già oggi competitiva, mentre a New York dovrebbe diventarlo entro il 2025, in California entro il 2031 e in Texas e Kentucky entro il 2047.
Il modello IV, può destare forti preoccupazioni nelle utilities che operano con gli attuali modelli di business. La sfida per le utility è notevole: se un numero crescente di clienti dovesse lasciare la rete, i costi di gestione e di manutenzione del sistema verrebbero infatti condivisi su un numero minore di clienti, portando ad un aumento del prezzo dell’elettricità della rete, rendendo quindi più vantaggiosa la soluzione off-grid. L’innescarsi di questo circolo vizioso pregiudicherebbe dunque seriamente i modelli di business attuali; anche se alcune delle competenze tecniche in possesso delle attuali utility potrebbero ancora essere impiegate nel modello IV, delineando per le utility un ruolo di supporto per gli utenti nella costruzione e manutenzione dei loro sistemi off-grid. Inoltre, le utility potrebbero sempre utilizzare la loro combinazione di conoscenze tecniche e capacità finanziarie per partecipare all’attività di finanziamento dei sistemi off-grid. In entrambi i casi, comunque, le compagnie che agissero in base al modello IV sarebbero in concorrenza con gli installatori di sistemi distribuiti esistenti e con le banche e le istituzioni finanziarie. In definitiva, se sopravvissero al cambiamento, le utility sarebbero irriconoscibili rispetto a quelle che conosciamo oggi.
Un modello simile al IV, anche se basato su combustibili fossili, è stato osservato a Lagos, dove solo una minoranza di persone utilizza la rete elettrica, mentre la maggioranza degli utenti si affida invece a generatori a gasolio per coprire il fabbisogno energetico. In questo caso la soluzione off-grid è preferita per via della scarsa fiducia nell’affidabilità della rete (Butera et al, 2017).
Illustrati alcuni modelli di business per le utenze elettriche, bisogna tuttavia osservare che, in pratica, la realizzazione di tali modelli - o varianti, o ibridi - non è facile. L’esperienza dell'innovazione del modello di business nel settore elettrico tedesco è istruttiva. In Germania si è registrata una sostanziale crescita della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, ma con una debole partecipazione delle utenze (Richter, 2013). Uno studio pluriennale di Knab e Rohrbeck (2014) ha registrato progressi relativamente lenti nell’implementazione di nuovi modelli di business. Knab e Rohrbeck hanno lavorato con otto aziende del settore energia e ICT per individuare 21 potenziali nuovi modelli di business nel settore energetico tedesco. Per un periodo di oltre 3 anni (novembre 2010-febbraio 2014) hanno quindi seguito il mercato energetico tedesco per lo sviluppo di modelli di business intelligenti. In quel periodo, a fronte dell’avvio di molti progetti pilota spesso cofinanziati dal governo, solo cinque nuovi modelli di business sono stati poi pienamente attuati: (1) centrali elettriche virtuali (VPP, Virtual Power Plants); (2) Demand Side Management; (3) Impianti domestici basati su PV e storage; (4) Case intelligenti, e (5) fornitura di servizi intelligenti. Inoltre, solo una delle predette iniziative era stata condotta da una nota impresa da tempo operante nel settore, mentre le altre erano tutte portate avanti da nuove compagnie. Le ragioni di questo modesto “spirito innovativo” sono state rinvenute, dai due Studiosi tedeschi, nei costi di investimento elevati per le infrastrutture ICT e nella necessità di costruire nuove competenze.
Al di là dei comunque significativi problemi di organizzazione aziendale, la transizione verso la megacity elettrica richiede alle utility lo sviluppo o il miglioramento della propria capacità tecnica. In particolare, le competenze nell’uso delle tecniche ICT per progettare reti più resilienti appare fondamentale. Lo sviluppo delle città elettriche vedrebbe difatti un aumento della domanda di energia elettrica in città, con il conseguente abbandono di altre fonti di energia; per questa via aumenterebbe la responsabilità delle utility nel garantire livelli più elevati di resilienza dell’infrastruttura di rete di fronte ai cambiamenti climatici e agli altri shock che potrebbe subire il sistema di distribuzione.
La resilienza del sistema elettrico diventa quindi un fattore strategico di sviluppo che è inscindibile dal concetto di città elettrica, specialmente nelle città che si trovano in aree geografiche esposte a inondazioni, innalzamento dei mari e ondate di calore. Tale esigenza sembra vieppiù urgente per le megacity, per via delle loro dimensioni e della loro complessità socioeconomica (e.g. livelli estremi di povertà, vulnerabilità, e frammentazione socio-spaziale), come evidenziato da WEF 2014 e Kraas, 2007. Ma valutare o quantificare - e quindi migliorare - la resilienza di una città non è cosa semplice, trattandosi di un sistema complesso. Le strategie di massima sperimentabili per aumentare la resilienza comprendono approcci generali (ridondanza aggiunta, diversificazione, capacità di adattamento, modifiche strutturali etc.), così come approcci specifici, che cercano di evitare, tamponare, o ridurre l’impatto di particolari tipi di shock (Uda e Kennedy, 2015). Inoltre, nella città elettrica la diversità delle fonti di energia è ridotta, il che potrebbe minare alla base ogni sforzo compiuto nella direzione della resilienza. Pertanto, i progettisti delle città elettriche hanno bisogno di reti intelligenti, sistemi di accumulo e altri mezzi di immagazzinamento dell’energia per mantenere le città in funzione in caso di interruzioni di alimentazione.
Un modo per rendere le città più resilienti agli shock viene dallo sviluppo di microreti in grado di operare in modalità isolata nel caso in cui altre parti della rete elettrica non funzionino (Lopes et al 2006; Parhizi et al 2015; Venkatraman & Khaitan, 2015; Kumar & Azad, 2015), sviluppando algoritmi specifici basati sulla teoria delle reti complesse (Halu et al, 2016). Le microreti forniscono maggiori vantaggi rispetto alla soluzione dei generatori di backup. Il vantaggio principale è la capacità islanding, che attraverso un interruttore intelligente consente il disaccoppiamento fra microrete e rete principale in caso d’incidente. Altri vantaggi comprendono la migliore qualità dell’energia erogata, la riduzione dei costi di trasmissione e distribuzione, nonchè il vantaggio economico di vendere sulla rete l’energia in surplus (Parhizi et al., 2015). In tale prospettiva, negli Stati Uniti è stata prevista, sul lungo termine, la possibile generazione di idrogeno o gas naturale sintetico dal surplus di generazione dell’energia rinnovabile, e.g. nei momenti di vento forte (Williams et al. 2014).
Nel complesso, la necessità di aumentare la resilienza delle città elettriche richiede alle utility di migliorare le loro già notevoli capacità tecniche e di gestione. Nel fornire servizi affidabili alle città, le utility (spesso lavorando insieme alle autorità di regolazione o con operatori indipendenti) già svolgono una serie di funzioni significative: la pianificazione e il dispacciamento dell’energia, la messa a disposizione di un’adeguata capacità di generazione di riserva, il bilanciamento della rete in tempo reale. L’esecuzione di tali operazioni in un sistema con una maggiore quantità di energie rinnovabili, unito a una generazione intermittente, richiede però un grado ancora più elevato di coordinamento centrale. La sfida è dare energia ad un sistema industriale adesso alimentato per lo più attraverso combustibili fossili, in un mondo soggetto ai cambiamenti climatici, e raggiungendo ancora più elevati standard di affidabilità e resilienza.
(27 luglio 2017)
Riferimenti Bibliografici
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Angelo Facchini è Assistant Professor, IMT Alti Studi Lucca.
** Il presente contributo è un adattamento degli articoli: Kennedy, C., Stewart, I. D., Facchini, A., & Mele, R. (2017). The role of utilities in developing low carbon, electric megacities. Energy Policy, 106 (November 2016), 122–128. https://doi.org/10.1016/j.enpol.2017.02.047; Facchini, A. (2017). Distributed energy resources: Planning for the future. Nature Energy, 2, 17129. Retrieved from http://dx.doi.org/10.1038/nenergy.2017.129.
[1] Nel caso della generazione solare distribuita, questo scenario è incoraggiato dai prezzi in calo e dall'aumento dell’efficienza delle celle fotovoltaiche: studi recenti hanno quantificato il potenziale fotovoltaico per intere città, stimando la percentuale del fabbisogno energetico che potrebbe essere soddisfatto dal fotovoltaico. Per esempio: New Yorkc23%, San Francisco 7,5%, Hong Kong 14%, Torino 8%, Seoul 30% (Bryne et al., 2015; vedi anche Kammen e Sunter, 2016).
[2] Al momento questo scenario è altamente improbabile e non risultano indicazioni di uno sviluppo in tal senso nelle megacity analizzate da Kennedy et al, 2017.