Le crisi bancarie tra Stato e mercato (di Michele Cossa)
Le crisi bancarie tra Stato e mercato (di Michele Cossa)
Le crisi bancarie tra Stato e mercato (di Michele Cossa)
A dieci giorni da Brexit: in attesa di una tempesta perfetta?
di Stefano Borghi
1.E Brexit fu
Chi lo avrebbe mai detto, che avremmo assistito anche all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
Oltre al caos che questo storico evento ha immediatamente generato sui mercati e nelle cancellerie europee, anche la stessa composizione del voto ha evidenziato una profonda spaccatura generazionale e geopolitica.
Dal punto di vista generazionale: gli under 25 si sono espressi con un chiaro 73% per rimanere nell’Unione, mentre, dal punto di vista geografico,sia la Scozia chel’Irlanda del Nord si sono espresse nettamente per il “remain”.
Anche la reazione del mercato non si è fatta attendere e la giornata di venerdì 24 giugnoverrà ricordata come una delle più nere della storia. Niente di cui meravigliarsi: quello che si apre è uno degli scenari più “confusi” che l’economia continentale si potesse aspettare. Fare previsioni su quello che può accadere costituisce un vero azzardo viste le variabili ipotizzabili, peraltro spesso interdipendenti l’una dall’altra.
Dal punto di vista strettamente finanziario quello che è avvenuto, nell’immediato e nei giorni successivi a Brexit, è stato un crollo drammatico dell’aggregato bancario che ha condizionato fortemente il nostro mercato domestico, con titoli che in questo momento sono quotati a livelli veramente bassi, e che ancora non sembrano aver toccato il punto di ripartenza.
Nonostante questi livelli di mercato, la possibilità che ci sia un aggravamento della crisi nel prossimo futuro è forte ed è legata alle decisioni che gli attori coinvolti assumeranno per stabilizzare il quadro geopolitico.
Il Regno Unito dovrebbe pagare il conto più salato in quanto la Banca d’Inghilterra si troverà a dover stabilizzare le turbolenze del proprio mercato interno e gestire una sterlina che perderà, inevitabilmente, di valore, aggravando il costo delle importazioni che si ripercuoterà sugli utili aziendali e i relativi livelli occupazionali.Questi potenziali effettisono allo studio delle società di rating, che hanno prontamente rivisto a ribasso l’Outlook sul debito del Regno Unito; passaggio, questo, che anticipa l’abbassamento del rating stesso del Paese.
Come dicevamo anche la situazione politica è tutt’altro che chiara; quello che si apre ora è una lunga e complessa fase di negoziato fra UK e UE e, al momento, non è chiaro chi, come e in che tempi lo gestirà, da entrambe le parti. Il risultato del negoziato e i susseguenti accordi commerciali che verranno siglati, saranno poi fondamentali per capire come nel medio periodo potrà evolversi la situazione e i costi che si dovranno sostenere per la situazione che si è venuta a creare.
Peraltro, l’Unione europea ha tutto l’interesse a evidenziare l’errore commesso dal Regno Unito e, quindi, vorrà fornire all’opinione pubblica, anche dell’Unione, elementi tangibili tesi a dimostrare quanto questa scelta abbia negativamente inciso sulle tasche dei cittadini UK.
Altro capitolo fondamentale per gli equilibri finanziari continentali è l’inevitabile spostamento del baricentro finanziario europeo, fino ad oggi saldamente fissato a Londra. La scelta della sua nuova ubicazione non sarà ovviamente soltanto logistica, mapotrà fornire importanti indicazioni sul futuro della stessa Unione europea e sul suo nuovo baricentro.
2. E l’Italia …
Quasi inutile sottolineare la delicatezza del momento anche in Italia. Già il risultato delle elezioni amministrative tenutesi nelle principali città, sommato ad una situazione bancaria “un po’ ingarbugliata” (eufemismo), non aiutano certo a tranquillizzare chi prova a fare business nel nostro Paese.
Proprio in questi giorni, del resto, sulla scia della Brexit, il nostro governo sta spingendo per una modifica della disciplina bancaria europea al fine di disporre di maggior margine di manovra nel consolidare il capitale di banche che, a causa di sciagurate gestioni manageriali unite ad un contesto di recessione generalizzato, rischiano – parliamoci chiaro – il default, con i connessi costi per i cittadini e questo alimenterebbe ulteriormente il fuoco della protesta contro l’Unione europea che però, a dirla tutta, in tema di banche non è forse la prima a dover salire sul banco degli imputati.
Comunque sia, il nostro governo ha proposto di rivedere le regole sull “Bail-in” e la possibilità di un intervento diretto, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, nel capitale delle banche in difficoltà: sotto certi punti di vista una riedizione dei Monti Bond. Ma Bruxelles e la stessa Germania sembra essere freddi sull’argomento. L’estate e l’autunno si annunciano, invece, davvero caldi: il periodo estivo, da sempre, porta ad un incremento degli sbarchi dai Paesi nordafricani; poi, a ottobre, il referendum costituzionale potrebbe ulteriormente indebolire la stabilità politica del nostro Paese, con effetti economici non trascurabili, come evidenziato da Confindustria in un recente studio che sta facendo molto discutere a livello politico.
In questo quadro complessivo, si inseriscono i rapporti commerciali Italia/Regno Unito. Nel2015 il valore delle esportazioni italiane ammontava a 22,5 miliardi di euro (valore salito del 7,6% rispetto all’anno precedente e costantemente in crescita negli ultimi anni); l’avanzo commerciale nei confronti del Regno Unito si è invece attestato a quasi 12 miliardi di euro (quasi il doppio di quello registrato nel 2011). In dettaglio, i prodotti più esportati nel 2015 sono stati macchinari industriali, autoveicoli, abbigliamento, calzature, mobili e preparati farmaceutici: le esportazioni, in questi settori, hanno segnato forti trend di crescita negli ultimi anni e, anche nella prima parte del 2016, si sono confermati assai forti. In generale, il Regno Unito impatta per circa il 5.5% sul valore del nostro export; considerate anche le difficoltà che stiamo incontrando su altri mercati importanti, primo fra tutti quellorusso è fuori di dubbio che la situazione debba essere attentamente monitorata e gestita.
Provando a trarre alcune (davvero provvisorie) conclusioni, cosa ci riserva il futuro?
Sicuramente tutta questa instabilità si ripercuoterà sui mercati, che subiranno una forte volatilità. I risparmiatori non potranno, insomma, dormire sonni tranquilli; pensando a cosa è, a quanto è interconnessa, la globalizzazione finanziaria pare infatti difficile immaginare che non vi siano ulteriori conseguenze di Brexit.
Speriamo che a pagare il conto non siano, ancora una volta, le nuove generazioni; quelle che al sogno europeo (anche nel Regno Unito) continuano a credere.
(5 luglio 2016)
Keep calm and carry on? (a proposito di Brexit)
di Franco Mancini
C’è una parola in Inglese che non trova un corrispettivo esatto nel vocabolario italiano: “hangover” traducibile più o meno come “postumi da sbornia”.
In 20 anni di lavoro nella City di Londra, dove è rito uscire il giovedì sera a bere birra con i colleghi, di hangovers ne ho gestiti tanti ma mai come quello con cui mi sono svegliato Venerdì 24 Giugno. E pensare che non sono uscito la sera prima, attaccato alla televisione a seguire gli exit polls del referendum. Credo che Venerdì 24 molti Britannici, e non, si siano svegliati con l’hangover. 1,2 milioni di voti hanno dato la vittoria ai “Leave” . I numeri parlano chiaro: i giovani (18-24 anni) hanno votato “Remain” , gli “over 65” hanno votato “Leave” . Se il diritto di voto fosse stato esteso ai 16/17 enni (1,42 milioni) il “Remain” sarebbe arrivato all'82%: circa 1.2 milioni di voti, per l'appunto, che avrebbero probabilmente cambiato le sorti del referendum.
Un altro aspetto aspetto statistico interessante, evidenziato nella tabella qui sotto, sta nel fatto che i giovani (età media 21 anni) con un'aspettativa di vita di 90 anni, si troveranno a gestire le conseguenze di questa decisione per i prossimi 70 anni, mentre gli “over 65” che hanno votato per uscire, solamente 16 anni.
Non so se questa volta il popolo britannico riuscirà a “Keep calm and carry on” . Almeno non sembra cosi. La Scozia parla già di un referendum per rimanere in Europa e staccarsi dal Regno Unito, così come l'Irlanda del Nord per non parlare della petizione; per annullare il referendum che in 24 ore ha già raccolto quasi 3 milioni di firme. C'è insomma non poco fermento. Il 48% che ha votato “Remain” non sembra accettare la sconfitta forte anche del fatto che molti “Brexiters” sembrano già oggi pentiti del proprio voto. Ma non solo: il motore di ricerca Google ha registrato un picco di ricerche di frasi come “Cosa è la Comunità Europea” e “Cosa significa lasciare la Comunità Europea” subito dopo la chiusura dei seggi. Inoltre, uno dei cavalli di battaglia della campagna dei “Leave” era la promessa di nuovi fondi, pari a 350 milioni di sterline alla settimana, per il National Health Service, pubblicamente smentita in diretta televisiva Il giorno successivo alle elezioni.
C’è anche un grosso dubbio sulla capacità di gestire gli effetti di una Brexit, anche perché un piano di azione a quanto pare non esiste, o almeno non è stato discusso pubblicamente. La mole di lavoro legislativo per rinegoziare i contratti commerciali con i 27 paesi dell'Unione non è trascurabile. Il governo non dispone di più di una ventina di esperti in materia di negoziazione. E si parla già di una prima possibile soluzione che vedrebbe le attuali leggi comunitarie trasformate, esattamente come sono, in leggi locali per poi, solo successivamente, iniziare l'opera di negoziazione che, a detta di molti, potrebbe durare anni.
A Londra, da dove scrivo, il malcontento è tangibile. Le dimissioni di Cameron erano a parere sia dell'opposizione che del governo in carica dovute: è - si dice da più parti - da irresponsabili scommettere sul futuro del paese per proprie ambizioni politiche. Troppo grossa la posta in gioco per metterla in mano ad un referendum. E, infine, non si cerca di convincere il popolo a votare per rimanere in Europa con lo spauracchio di una possibile recessione e crollo delle borse. Infatti, nella maggioranza dei cittadini inglesi, un certo malcontento economico persiste da tempo, e soprattutto non sono in molti ad avere risparmi investiti in borsa; per di più non scordiamoci che il modo della finanza non gode certo di molta simpatia al di fuori della City.
Ma più del malcontento, che è la normale reazione dei perdenti, il sentimento che si va diffondendo in queste ore è di vergogna. Vergogna per un voto vinto con una campagna fatta di propaganda, pregiudizi e xenofobia, tutti “valori” che il popolo Britannico è stato sempre fiero di non possedere. In altri termini, hanno vinto il populismo, il nazionalismo, la disinformazione, l'intolleranza.
“Riprendiamoci la NOSTRA nazione”, è stato lo slogan dei “Leave”. In molti oggi pensano che quella “vostra” nazione possa diventare adesso un posto inospitale per immigrati, minoranze etniche, gay e tutte quelle persone non incluse nella dichiarazione di Nigel Farage “victory for ordinary, decent people”. Ma speriamo si tratti, almeno per quest’ultimo scenario, solo di un brutto sogno, in una notte di sbronza collettiva.
(27 giugno 2016)
Un Natale sotto zero
Tassi a zero: implicazioni e ripercussioni sul mondo del risparmio
Siamo stati preparati a tutto dal punto di vista meteorologico, la temperatura può averse escursioni di oltre 10 gradi nel giro di una settimana, ma quest’anno il Natale non sarà ricordato come uno dei più rigidi dal punto di vista del clima. C’è un altro parametro non climatico che però è precipitato sottozero in Europa: il tasso di interesse.
Il Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea con la riunione del 5 giugno del 2014 ha portato i tassi sui depositi presso la banca centrale ad una “remunerazione negativa” pari a -0.10%. Da qui siamo partiti e nell’ultima riunione del 3 dicembre 2015 siamo giunti a -0.4%.
Traducendo in pratica quanto è stato fatto, le banche devono pagare per detenere denaro presso i conti della banca centrale. Questa politica ha portato durante la seconda parte del 2015 a vedere emissioni nominali di titoli di Stato a valori negativi. Abbiamo dunque un paradosso: prestiamo soldi pagando pure chi li riceve!
Segue un grafico dove si evidenzia per paese e per scadenza la situazione al 25 Novembre 2015.
Volendo contestualizzare quanto detto, prendiamo un BOT semestrale; nell’asta del 25 novembre 2011, in pieno caos economico, rendeva a scadenza 6.5% (prestavo 1000 euro allo Stato e a scadenza mi venivano restituiti 1065). Lo stesso tipo di BOT nell’ultima asta del 26 Novembre 2015 a scadenza dei soliti 1000 euro prestati ci verranno restituiti poco più che 998 euro; niente male in soli 4 anni! Questa situazione si è già vissuta negli anni passati quando il rendimento dei titoli o semplicemente la remunerazione di un c/c era inferiore al tasso di inflazione, quindi i rendimenti reali erano sostanzialmente negativi.
Secondo lo studio di una nota banca d’affari americana (J.P.Morgan) nell’eurozona ci sono circa 1.5 trilioni di euro di debito che hanno, per più di un anno, un tasso negativo. Dal grafico precedente “Money for nothing” possiamo notare che per avere rendimenti positivi da paesi definiti “più solidi” occorre investire in scadenze superiori a 5 anni (in Germania occorre anche più “duration” circa 7 anni).
Per farla semplice: quello che una volta era un investimento “sicuro” si è trasformato in una specie di prodotto derivato chiamato in gergo finanziario opzione call dove devi pagare un premio per assicurarti la realizzazione dell’evento desiderato e volendola dire tutta non sempre sai se la “scommessa” andrà a buon fine.
Ora la domanda sorge spontanea: ma che senso ha comprare questi titoli ? La domanda sembra più che corretta, ma invito a leggere i rendiconti post e vediamo che le aste fatte vanno sempre esaurite e spesso (anche se notiamo una certa diminuzione) con domande superiori all’offerta.
Nel caso specifico prendiamo ad esempio l’ultima emissione del 10 dicembre 2015 dove leggiamo che: “La Banca d’Italia ha comunicato che nell’asta di oggi dei BOT con scadenza 14 dicembre 2016 (annuali, Codice ISIN: IT0005154775) sono stati collocati tutti i titoli offerti dal ministero dell’Economia e delle Finanze (5,5 miliardi di euro l’ammontare complessivo). La domanda è stata buona, sulla base di 9,08 miliardi di euro di titoli richiesti. Di conseguenza, il rapporto di copertura (rapporto tra ammontare richiesto e quantitativo offerto) è stato di 1,65, in diminuzione rispetto all’1,87 dell’asta di metà novembre. Il rendimento lordo di aggiudicazione è stato negativo e pari al -0,003%, che equivale a un prezzo di aggiudicazione di 100,003”.
Ma chi compra ?
Banche e fondi di investimento (i così detti “clienti istituzionali”), i quali lo fanno sia per motivi tecnici, dovuti alle regole di diversificazione del portafoglio; sia per motivi di mandato, dovendo detenere obbligatoriamente esposizioni verso il mercato italiano. Come dimostravamo prima, la richiesta di questi titoli è dovuta anche a motivi pratici: non è facile trovare “rendimenti migliori” a pari scadenza (un titolo tedesco a dieci anni rende appena 0.15% lordo). Questo però porta a una conseguenza tutt’altro che trascurabile: tassi negativi per le banche significa tassi negativi per i clienti finali.
Consideriamo una serie di clienti istituzionali che per mandato operativo sono considerati “prudenti”: fondi pensione e compagnie assicurative; questo tipo di clienti per finanziare pensioni e premi assicurativi sono costretti ad aumentare il loro profilo di rischio cercando rendimenti il più possibile positivi, ma tutto ciò va contro la loro natura di clienti “avversi al rischio”.
Questa ricerca di rendimenti il più possibili positivi, ma anche necessariamente sempre più rischiosi, potrebbe farsi molto pericolosa nel medio/lungo periodo ed è facile immaginare il perché.
Vediamo questo contesto come può impattare sui risparmiatori (il così detto: “l’uomo della strada”).
Come abbiamo accennato precedentemente i tassi negativi dovrebbero incentivare gli operatori finanziari a tutti i livelli a far “girare la moneta” dovendo sostenere un costo aggiuntivo se questa è tenuta ferma, ma questa è solo teoria.
Le alternative che un risparmiatore potrebbero essere, fino a quando esistono margini, di cercare dei “conti deposito” che hanno un ritorno positivo, l’altra strada è quella di prelevare i contanti dal sistema bancario e detenerli in contanti evitando cosi di pagare i depositi, ma questa situazione aprirebbe le porte a scenari non molto “simpatici”: corsa agli sportelli, drenaggio di liquidità da istituti finanziari che offrano rendimenti poco redditizi (ma in teoria più sicuri), verso quelli che offrono rendimenti maggiori.
Per evitare quindi una possibile crisi di liquidità degli istituti finanziari interessati, il governo dovrebbe introdurre un controllo molto stringente sul quantitativo di contante detenibile dai privati. Sappiamo già l’impopolarità di tali norme.
Altra alternativa che un cliente privato può avere è quella di convertire il contante in metalli e pietre preziose di facile scambio; operazione tecnicamente più che corretta, ma è come ritornare al regime monetario metallico: un bel salto in dietro anche se sarebbe materia di un più accurato approfondimento per i pro e i contro che comporta.
Ultima alternativa potrebbe essere quella di convertire il contante in valute di paesi i cui tassi sono sempre positivi provocando un continuo flusso destabilizzante nel mercato dei cambi con tutto quello che comporta a livello di instabilità.
Sicuramente stiamo vivendo un periodo non semplicissimo dal punto di vista socioeconomico e questo implica prendere delle decisioni non usuali per cercare di rimettere in carreggiata il treno dell’economia europea, ma facciamo attenzione a non rovinare un diritto fondamentale della persona che è quello di assicurarsi una vecchiaia dignitosa grazie al lavoro di una vita.
La gestione dei propri risparmi non è un gioco d’azzardo!
(29 gennaio 2016)
Le banche e i crediti inesigibili. Tanto rumore per nulla?
(di Franco Mancini)
Ho notato un insolito scalpore sull’avvenuto accordo, a fine gennaio, tra il Ministro del Tesoro Padoan e la commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager per la risoluzione del problema dei crediti in sofferenza. Gli articoli di giornali si sono sprecati, titoli quasi sensazionalistici, anche se ben poco si sapeva delle tecnicalità e, quindi, dei reali benefici di tale operazione.
Riassumendo brevemente, l’accordo prevede che le banche potranno creare un veicolo di cartolarizzazione (ex legge n. 130/1999, disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti) dove far confluire i crediti inesigibili. Il veicolo, nato per acquistare tali crediti, vende i crediti inesigibili (rectius trasferisce il rischio tramite emission di note), emettendo due tipologie di obbligazioni, con profile di rischio diverso: una junior (dove verranno assorbite le prime perdite in caso di cattiva performance nel recupero del credito sottostante) e una senior che dovrà invece avere un rating minimo di BBB, al fine di poter ottenere una garanzia statale nel caso in cui le perdite dovessero superare un certo limite.
La mia impressione – lo dico subito – è che l’accordo sia stato fatto frettolosamente in un momento di grossa debolezza dei mercati azionari, in particolar modo i titoli bancari italiani . Un accordo fatto, dunque, per tamponare la situazione, piuttosto che trovare una soluzione duratura ed efficace . Un modus operandi tipico di chi ha accesso alla stanza dei bottoni della finanza, già visto all’opera recentemente: ogni volta che i mercati vanno sotto pressione le banche centrali intervengono con parole rassicuranti e/o iniezioni di liquidita’ “drogando” a tutti gli effetti il mercato e le sue leggi.
Forse pochi sanno che la contrattazione tra l’Italia e la commissione europea è andata avanti per oltre un anno: originariamente si parlava della creazione di una bad bank in cui convogliare tutti i crediti deteriorati; la bad bank doveva essere però in parte finanziata dallo stato. Di fatto, sarebbe stato un aiuto di stato, contrario alle logiche della concorrenza. Per questo non se ne fece nulla.
Sull’argomento mi pare di aver letto ben poco nei mesi passati: i mercati erano realtivamente forti, stime del PIL in (moderato) rialzo, tassi ancora ai minimi, e la percezione che l’unica banca con problemi seri in Italia fosse la pecora nera Monte Paschi. Poi, nel momento in cui il sentiment di mercato è cambiato, i problemi di Pop.Vicenza, Etruria, Marche, etc. sono venuti alla luce, la pressione sul sistema bancario italiano è tornata a salire e si è quindi intervenuti urgentemente “forzando”, almeno a mio avviso, un accordo ben lontano, in termini di effettività, rispetto alla proposta iniziale della bad bank.
Ma forse vale la pena fare un passo indietro per spiegare più in dettaglio cosa sono i crediti inesigibili, la loro entità e cosa è stato fatto per facilitarne la cessione (ed invogliarne l’acquisto sul mercato). Ma soprattutto mi pare utile provare a capire se l’accordo di fine gennaio (quello tra il Ministro del Tesoro Padoan e la commissaria europea alla concorrenza) può essere visto come l’ultimo atto a coerente completamento di una serie di novità normative o, piuttosto, come una “pezza” messa là per evitare rischi sistemici.
Per comprendere l’entità, e i rischi, della situazione, basta leggere l’ultimo bollettino di Banca d’Italia che parla di crediti deteriorati - meglio conosciuti con l’acronimo Inglese NPL (Non Performing Loans)[2]. Se si pensa che nel 2008 tali crediti rappresentavano poco più dell’1%, ci si rende subito conto del deterioramento creditizio cresciuto in modo esponenziale (oltre il 15% annuo). L’effetto negativo di ciò sui ratios patrimoniali ha, del resto, costretto le stesse banche a “stringere i rubinetti del credito”, aggravando ulteriormente lo stallo economico.
La gestione e recupero dei crediti, ad eccezione di alcuni grossi gruppi bancari, viene affidata a servicers esterni, che possiedono una propria specializzazione territoriale e/o per tipologia di credito, da quello immobiliare al prestito al consume, giusto per fare un paio di esempi. Infatti, l’entità dei portafogli, la mole di lavoro e le relative risorse, e, di conseguenza, i costi del recupero crediti, hanno costretto le banche a “delegare” all’esterno tale attività. Ad esempio, i grossi fondi esteri che hanno sviluppato un’expertise nel settore hanno, sia sotto forma di joint-venture o pura acquisizione, operato tramite un servicer domestico; una scelta non solo guidata dalla normativa (legge n. 130/1999) ma anche dalla necessità di acquisire subito local knowledge al fine di far fronte alle complessità del sistema giuridico italiano, che impattano notevolmente sulle tempistiche di recupero e, quindi, sui costi.
L’entità degli NPL e la complessitò del recupero di tali crediti rischiano di bloccare quell’accenno di ripresa economica fotografata da un PIL tornato positivo nel 2014, dopo due anni di recessione, e stimolata dall’impegno del governo verso riforme strutturali pro-crescita, che hanno ri-acceso un qualche interesse della comunità finanziaria nei confronti dell’Italia.
Di qui l’impellente necessità di facilitare e sveltire il processo di dismissione, da un lato, e recupero del credito, dall’altro. Ad inizio agosto è così entrato in vigore il decreto legge n. 83/2015, che ha introdotto sostanziali novità. La vendita dei beni pignorati può adesso essere effettuata per via extra- giudiziale; inoltre è prevista la possibilità per la banca di portare a deduzione le perdite di un solo esercizio rispetto ai cinque del regime precedente. Il creditore potrà invece avvantaggiarsi della riduzione dei tempi di deposito della documentazione catastale, da 60 a 120 giorni, e della determinazione del valore dell’immobile al valore di mercato piuttosto che dalla rendita catastale. In aggiunta, viene creato un portale per le vendite pubbliche a livello nazionale, dove i beni pignorati devono obbligotoriamente essere registrati. Se non bastasse, il creditore potrà accedere liberamente all’anagrafe tributaria, all’INPS e al PRA, per la ricerca dei beni da sottoporre a esecuzione. Recentissimamente si è poi previsto quello che, a mio avviso, è forse il primo vero incentivo concreto, ossia l’abolizione dell’imposta di registro del 9% per gli acquisti in asta, sostituito da una tassa di 200 euro.
Indubbiamente, il decreto 83/2015 va nella giusta direzione e sulla carta ci sono i presupposti per migliorare una situazione a dir poco critica; ma, nella pratica, l‘esperienza mi insegna che nei mercati distressed (letteralmente, sconvolti … da debiti non pagati) il prezzo lo fa il compratore. E il compratore, in simili condizioni, o fà l’affare o non investe. E, visto che l’accordo di fine gennaio fatto dal nostro Ministro del Tesoro prevede una vendita al “mercato”, senza un vero e proprio acquisto (neanche parziale) da parte dello stato, rimango dubbioso sulla sua efficacia, almeno in tempi brevi. Nulla da dire, le regole europee sulla concorrenza sono rispettate, ma forse l’obiettivo di far dismettere alle banche più crediti deteriorate possibili è lontano. In altre parole, senza l’intervento dello “stato-salvatore”, che garantisca crediti che dovranno, per forza di cose, essere acquistati a prezzi artificialmente più elevati rispetto a quelli spuntabili su un mercato speculativo, ho l’impressione che i compratori “non accorreranno”, per usare un eufemismo, e che sarà dunque difficile restituire solidità al sistema bancario. Si pecca quindi, a mio aviso, di eccessivo ottimismo, anche perchè da una prima analisi il “premio assicurativo” per la garanzia statale potrebbe risultare particolarmente oneroso : dipenderà molto dalla qualità del portafoglio oggetto di vendita: peggiore la qualità, maggiore il premio. Non dimentichiamoci poi dei costi, non trascurabili, per ottenere il rating e per la costituzione e mantenimento del veicolo che le banche dovranno creare.
Per concludere, non credo che la garanzia statale così strutturata costituisca la panacea di tutti i mali. Più realisticamente, ogni banca farà bene i propri conti e valuterà, caso per caso, la convenienza della garanzia. Sono comunque personalmente convinto che la dismissione dei crediti deteriorati continuerà, prevalentemente, tramite contrattazioni bilaterali tra le banche e il mercato. Tanto rumore per nulla (o poco)?
[2]Metodo di misurazione della capacità di assorbire perdite da NPL: Accantonamenti/ Totale prestiti.Le banche e i crediti inesigibili. Tanto rumore per nulla?