Miti e riti del pensiero economico: tra antico e moderno (di Salvatore Lanza)
Miti e riti del pensiero economico: tra antico e moderno
(di Salvatore Lanza)
In tempi in cui si dedica molta attenzione al debito che la Grecia ha contratto nei confronti di alcuni Paesi europei, vale la pena ricordare parte di quel debito che l’Occidente continua ad avere nei confronti della Grecia: attraverso la koiné del mondo moderno, la lingua inglese, si diffondono ovunque nel mondo parole greche dal suono barbaro, senza che nessuno versi i diritti di signoraggio. Prendiamo ad esempio un binomio di grande attualità: economia ed ecologia. La radice comune è oikos, che indica la casa ma anche l’insieme dei beni di cui si dispone e, in maniera ancora più estesa, l’ambiente in cui si vive. A seconda se si combini oikos con nomos (la regola) o con logos (dei suoi molteplici significati qui ci interessa quello di “pensiero”) si ottengono due composti dalle proprietà affatto diverse, distanti tra loro come gli acidi e le basi.
Basterebbe il prestito di queste sole tre parole, capitalizzato per oltre 25 secoli al più vile dei tassi di interesse fissati dalla BCE, per determinare un valore di rimborso al di là della portata di qualsivoglia potentato economico.
La riflessione che segue è un umile tentativo di mostrare come, servendosi di queste tre parole, sia possibile viaggiare tra l’antico e il moderno, attraverso l’osservazione di alcuni miti e riti che, pur appartenendo ad epoche differenti, presentano una soprendente continuità simbolica. Per mito, in questo contesto, intendiamo una rappresentazione ideale della realtà, e quindi espressione del logos; per rito, invece, una procedura di codificazione dei comportamenti umani, e dunque espressione del nomos. Per dirla in una battuta: il rito sta al mito come l’azione all’immaginazione.
L’intento di queste righe è tracciare una mappa del tutto preliminare del percorso suggerito, con l’intento di far seguire a questo altri interventi, stimolati dall’approccio dialogico di questa rivista, intorno alla quale si raccolgono persone che – mi pare di poter dire – guardano alle idee come ad un mezzo e alla relazione umana come ad un fine. Per entrare pienamente nel merito della questione, occorrerebbe dedicare all’antinomia economia-ecologia non meno di un saggio. Tuttavia, qui si vuole semplicemente suggerire un punto d’osservazione.
La nostra prospettiva, inevitabilmente parziale, propone di guardare all’ecologia come allo studio della relazione degli organismi viventi, tra cui l’uomo, con l’ambiente e all’economia come alla codificazione dei comportamenti che consentono di raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo. Nella prima dovrebbe prevalere la componente narrativa ovvero, stando al linguaggio qui proposto, la componente del mito, nella seconda, viceversa, dovrebbe essere preponderante la componente normativa e cioè la componente del rito.
A dispetto della comune radice, ecologia ed economia offrono, ai giorni nostri, due punti di vista opposti sul medesimo oggetto. Ma sarà poi vero che l’oggetto è lo stesso? In altre parole, l’oikos dell’economia è lo stesso oikos dell’ecologia? La domanda può suonare retorica, ma la risposta, sempre che ve ne sia una, è meno evidente di quanto appaia in prima battuta.
Senza pretesa di svelare verità velate, ci sembra interessante incamminarci per questo sentiero, con la promessa di incontri inaspettati.
L’oikos di cui l’economia si occupa è, con chiara evidenza, il patrimonio, ovvero la ricchezza prodotta dall’uomo grazie alla sua arte (technè) di trasformare la natura: in una parola, per dirla con Edward Goldsmith (il Tao dell’ecologia), l’oikos è tecnosfera. Diversamente l’oikos dell’ecologia è proprio l’oggetto su cui agiscono le doti trasformative umane, è cioè l’insieme di tutte le manifestazioni della vita (bios): anche qui, in una parola, l’oikos è biosfera.Se si condivide questa distinzione, l’oikos economico dovrebbe essere inteso come un “di cui” dell’oikos ecologico, proprio come la capanna di fango e paglia non è che fango e paglia in una forma diversa da quella in cui si presenta in natura. Se così fosse, l’ecologia, in quanto mito, spiegherebbe all’uomo il suo rapporto di dipendenza con la paglia e con il fango e l’economia, in quanto rito, gli insegnerebbe a usare paglia e fango per soddisfare il suo bisogno di protezione rispettando, e quindi risparmiando, tanto le sue forze quanto quelle della natura. Ernst Haeckel, parlando di ecologia come di “economia della natura”, suggerisce la relazione in cui idealmente dovrebbero stare le due discipline, così come Konrad Lorenz, definendo l’economia come “un’ecologia miope”, ad un tempo sottolinea la continuità tra le due discipline ed identifica la causa della loro mancata convergenza.
Le organizzazioni sociali primitive hanno lasciato in eredità un’impronta decisamente più leggera di quella che la nostra civiltà si accinge a lasciare ai posteri. Si può discutere sulle cause e dissentire sugli effetti, ma resta un’evidenza fattuale che le esigenze del moderno sono più conflittuali, rispetto all’ambiente, di quelle dell’antico. Non mancano spiegazioni di tale cambiamento, tutte o gran parte, figlie della stessa modernità su cui indagano. Qui si è alla ricerca, invece, di una immagine che consenta di tenere assieme figure tra loro molto distanti e quindi, all’apparenza, poco o per niente attinenti, che potrebbero tuttavia fornire indizi preziosi per ricostruire il senso di ciò che si osserva.
Innanzitutto non stupisce che l’uomo si sia interrogato sul suo rapporto con l’ambiente anche prima che sorgesse l’ecologia, né tantomeno dovrebbe stupire che la gestione efficiente delle risorse sia stata una preoccupazione umana ancor prima che l’economia guadagnasse il rango di scienza. Ma cosa accade con il passaggio alla modernità?
Non paga del nomos, l’economia si è dotata anche di un suo logos: il pensiero economico, ed è assurta a mito cosmogonico, spiegandoci le origini del nostro mondo e dimostrandoci che è il migliore tra quelli possibili per il semplice fatto che, tra questi, è l’unico reale. Parafrasando Serge Latouche, l’economia ha inventato se stessa e ha dato autonomo fondamento ai sui riti.
In realtà il pensiero economico si è spinto ben al di là della sfera tecnica: ha forgiato uno schema comportamentale, il modo di pensare economico, provvisto di potenza intrusiva ineguagliata nella storia. Il pensare economico permea, infatti, la vita dell’uomo contemporaneo; monopolizza, insospettato, i suoi interessi scientifici e culturali; intermedia i suoi rapporti sociali; occupa, manu militari, la sua agenda politica; razionalizza le sue credenze morali; ricodifica le sue pratiche religiose; orienta e disorienta la sua ricerca spirituale. Il tutto-economico o economicismo è al tempo stesso mito polivalente, perché fornisce un’interpretazione in chiave economica di qualsiasi fenomeno, e rito multiforme, perché suggerisce al decisore il comportamento corretto in ogni circostanza.
Ma il mito economico è davvero causa sui, come vorrebbe farci credere? O ci sono altri miti che si celano dietro la sua maschera e usano nuovi significanti per riferirsi a significati antichi?
Lionel Robbins, nel suo Essay on the Nature and Significance of Economic Science, definisce l’economia come la scienza che studia il comportamento umano come relazione tra risorse limitate, che hanno usi alternativi, e bisogni illimitati. Il concetto di scarsità su cui si fonda l’economia nasce, quindi, dall’incontro tra la limitatezza di ciò di cui si dispone, i mezzi, e la mancanza di limite di ciò che si vuole, i fini. L’immagine che evoca Robbins richiama alla mente il mito platonico della nascita di Eros, figlio di Penia (la povertà) e Poros (l’ingegno). Nella mitologia moderna i rapporti parentali sembrano, però, invertirsi: è la scienza economica, espressione dell’ingegno umano (e quindi Poros), ad essere generata dall’incontro tra la penuria di risorse (Penia) ed il desiderio illimitato (Eros). È di quest’ultimo che in realtà si tratta, piuttosto che di bisogno, a dispetto di quanto sostenuto da Robbins. Il bisogno, infatti, è radicato nel corpo e come tale conosce il limite; il desiderio, invece, è una proiezione della mente che, per sua natura, elude ogni limite con l’immaginazione.
L’eros economico si fa carne nel principio di non sazietà del consumatore: per ogni paniere di consumo, esiste almeno un altro paniere che il consumatore considera preferibile, recita la liturgia del verbo economico. La definizione è piuttosto eloquente sul fatto che il consumatore è condannato ad essere insoddisfatto in eterno. Come Achille all’inseguimento della dispettosa tartaruga, il consumatore rincorre curve di indifferenza poste sempre più in alto, cercando di divincolarsi dalle morse del vincolo di bilancio. Anche il nostro Laocoonte non si fida dei doni e di chi li porta, e per questo cerca di allentare la stretta accrescendo indefinitamente il suo reddito. Ma non appena raggiunge un tenore di vita desiderato, subito si materializza dinnanzi ai suoi occhi uno migliore. Neanche Tantalo è stato punito così crudelmente!
Il mito buddista della creazione dell’Universo contenuto nell’Agganna sutra riconduce all’insaziabile desiderio, tanha, la nascita dell’ordine sociale basato sulle caste, la divisione delle terre comuni e l’insorgenza dell’ordinamento statale repressivo. È proprio tanha, secondo il racconto di Sakyamuni, la causa di dukkha, la penosa condizione di insoddisfazione in cui giace l’umanità sofferente. In tempi più recenti Mike Jagger e compagni, moderni cantori di miti e mito essi stessi, hanno composto un inno, I can’t get no satisfaction, che sembra dedicato al protagonista indiscusso della letteratura economica, la cui sovranità non può che avere discendenza divina. Il consumatore è sovrano perché una qualche divinità gli deve aver conferito il diritto di consumare, e quindi letteralmente distruggere, tutto quello che gli capita a tiro senza potersi mai fermare.
Certo, la teoria economica non è un monolite e, come ogni ortodossia, anch’essa ammette ed ingloba espressioni varie di eterodossia. Che il movente del comportamento umano sia esclusivamente il perseguimento dell’interesse personale è un dogma non esente da contestazioni da parte della stessa letteratura economica. Tuttavia anche Amartya Sen, che più di altri ha esplorato le motivazioni etiche dell’agire economico, riconosce che tale dogma è “l’ipotesi corrente in economia […] nonché la base di gran parte di ciò che si insegna agli studenti di economia” (Etica ed Economia, 2002). Proprio grazie alla sua funzione pedagogica, l’economicismo è normativo anche quando appare descrittivo: concorre, cioè, a formare i modelli di comportamento che dichiara di voler prevedere.
Né mancano critiche al modello di razionalità che sottende la teoria delle decisioni (si vedano Herbert Simon e Daniel Kaneman, solo per citarne alcuni). L’ingegno umano deve fare i conti con la sua stessa scarsità: non sempre ci si puossono procurare tutte le informazioni di cui si ha bisogno, né si riesce a analizzare tutte le informazioni di cui si dispone, ma soprattutto non sempre il processo più economico per prendere una decisione consiste nel calcolare tutto il calcolabile.
L’homo oeconomicus è, quindi, solo un pallido riflesso del dio Poros e rimane lontano anche dall’aner polytropos, l’uomo dal multiforme ingegno protagonista del mito omerico, da cui eredita tuttavia l’attitudine a dissimulare la verità, come la teoria economia dell’informazione ci insegna. Russell Roberts, nel confessare la sua simpatia per l’homo religiosus, ci fa notare che la ricerca e l’insegnamento dell’economia, quasi incorressero in una sineddoche involontaria, propongono l’uomo come calculating machine. La facoltà della mente umana di prendere decisioni basate sul calcolo, sia esso logico o numerico, viene così confusa con colui che di quella facoltà si serve. Proprio come una macchina, l’homo oeconomicus è un’entità isolata, priva di reale connessione con i suoi simili e con l’ambiente: ha fatalmente perso il legame con l’oikos proprio quando ha iniziato a credere, o finto di credere, che la tecnosfera possa gradualmente sostituirsi alla biosfera ed eventualmente fagocitarla. Mentre nel mito antico i genitori mangiano i figli nel timore che questi, una volta adulti, li spodestino, nel moderno le generazioni presenti, divenute più smaliziate, divorano le risorse che spetterebbero a quelle future, applicando l’incontestabile principio che eliminando il nutrimento si elimina anche il nutrito.
Il pensiero economico ha prodotto il concetto di esternalità per esprimere il suo disagio difronte all’impossibilità di ricondurre la biosfera all’interno della tecnosfera. Tutto ciò che non appartiene alla tecnosfera è considerato esterno e di conseguenza o lo si ignora follemente o si tenta, ancora più follemente, di farlo entrare in essa con i riti di internalizzazione: le politiche pubbliche con cui si impongono quote, tasse, sussidi, o si assegnano diritti di proprietà su beni comuni. È un po’come se fango e paglia non potessero esistere se non sotto forma di materiali da costruzione. Tutto ciò che rifiuta di avere un prezzo va ricondotto, con le buone o con le cattive, a dichiarare il suo valore di scambio e, se questo valore non è sufficientemente elevato, rischia l’estinzione. La calcultating machine, insomma, tiene conto degli effetti delle sue azioni solo se questi incidono sul suo benessere. Per poter stabilire cosa sia il suo benessere, la macchina da calcolo deve, però, avere coscienza di sé, sapere cos’è realmente e quali sono i suoi confini. Ed è proprio qui che l’aver confuso l’uomo con una sua facoltà mentale si rivela errore fatale. Interrogata sulla sua identità, la macchina da calcolo risponde, come Cartesio, “io sono colei che pensa”.
Eravamo partiti dicendo che l’economia si è dotata di un suo logos, per poi scoprire che è in effetti il logos che si è servito dell’economia per rivendicare la sua funzione identitaria. L’egemonia dell’economia sulla società moderna è il riflesso dell’egemonia della mente sull’uomo. Lo strumento si è affrancato dal suo padrone con il più sottile dei raggiri: lo ha indotto ad identificarsi con lui. Proprio come l’Ulisse di Kafka, che inganna le Sirene fingendo di non sentire il loro silenzio, la mente inganna l’uomo fingendo di non sentire il suo proprio silenzio: il vuoto mentale, per dirla con lo Zen.
Le tradizioni spirituali, attraverso i racconti metaforici (i miti) e le pratiche (i riti), hanno indicato le vie per ricondurre la mente al suo ruolo servile, ripristinando l’equilibrio perduto. A quanto pare, però, la mente si è difesa, operando una delle sue manovre preferite: l’inversione mezzi-fini. Facendo del mito e del rito l’obiettivo, e non più lo strumento, ha manomesso la “segnalatica” dei percorsi spirituali ed ha, così, inventato la religione.
L’economia stessa, come osserva tra gli altri Cornelius Castoriadis (The imaginary Institution of society, 1975), è una religione e con le religioni propriamente dette condivide molti aspetti. D’altro canto la religione è una particolare forma di economia applicata alla spiritualità.
Lo stato di realizzazione spirituale, indicato a seconda delle differenti tradizioni come beatitudine, regno dei cieli, samadhi, nirvana, satori etc., presenta caratteristiche che il paradigma economico ricondurrebbe al bene pubblico: chiunque consegua la beatitudine non riduce la possibilità altrui di conseguirla (non rivalità), né tantomeno qualcuno può impedire a qualcun’altro di conseguire la beatitudine (non escludibilità).
Ma, qualsiasi cosa significhi, la beatitudine è, tuttavia, un bene che non soggiace ad alcuna legge economica: non può essere prodotta, non può essere consumata, non può essere scambiata; è disponibile illimitatamente e per chiunque, pertanto non può essere redistribuita né avrebbe senso farlo, non può essere tassata, espropriata, colletivizzata e così via. In definitiva, la beatitudine non è un bene economico proprio perché si sottrae alla scarsità. Non solo. La beatitudine si sottrae anche alle lusinghe di qualsiasi progetto politico: non ha bisogno di un regime democratico, non pretende di rovesciare l’ordine costituito, non è lo stadio finale di alcun processo evolutivo o rivoluzionario. Questo perché non è collocata nel futuro, non trascende il presente, non brilla come un sole al di là da venire.
Alcune tradizioni sostengono, in effetti, che la beatitudine faccia parte della nostra dotazione iniziale di risorse: è sempre a disposizione: “chiedete e vi sarà dato”; non ci sono barriere all’ingresso: “bussate e vi sarà aperto”; rifugge da complicati processi di scelta intertemporale: “non siate mai ansiosi del domani, poiché il domani avrà le proprie ansietà”. Tuttavia parlarne è allontanarsi da essa: “il nome che può essere nominato non è l’eterno nome”, perché la parola rientra nel dominio della mente.
La beatitudine, allora, è anti-economica per eccellenza: è pura abbondanza. Non solo al di qua del bene e del male, ma anche della competizione e della cooperazione, della libertà e della schiavitù, del pubblico e del privato e di qualsiasi altra dicotomia che induca a trascendere il presente. Le religioni hanno, in vario modo, tentato di ricondurre la beatitudine all’interno dell’economico, trasformandola in un bene fornito in regime di monopolio. Precetti, comandamenti, dottrine, sono gli strumenti con cui si è preteso di rendere escludibile e rivale un bene che per sua natura non lo è. Collocando la beatitudine in un qualsiasi altrove-purché-non-qui, che per comodità di discorso potremmo chiamare paradiso, la religione ha espropriato dall’immaginario degli individui la possibilità di accedere direttamente al regno dei cieli, qui ed ora. Il bene non economico per eccellenza è stato assoggettato ad un processo di produzione - scambio - consumo, affidato alla gestione di imprese verticalmente integrate, dotate di potere di mercato locale ma con ambizioni universalistiche. Periodicamente gli oligo-monopoli entrando in conflitto tra loro, trascinano gli individui nella più cupa infelicità e vengono palesemente meno alla promessa di consegnare il bene che hanno venduto a termine. In definitiva, prima che il pensiero economico si costituisse come religione a sé stante, le religioni rivelate hanno applicato surrettiziamente le leggi dell’economia al mondo dello spirito.
L’economicismo ha, invece, gettato la maschera e collocato la macchina da calcolo apertamente al centro dell’Universo. La beatitudine scompare per lasciare il posto al benessere che, come taluni osservano, si sostanzia principalmente in un ben-avere. Come si sa, i beni privati possono essere prodotti, scambiati, consumati, accumulati, ma sempre in quantità limitata: sono scarsi per definizione. Gli individui inconsapevolmente continuano a cercare la beatitudine, ma la cercano nel benessere: la soddisfazione di un desiderio crea una moratoria rispetto a tutti gli altri desideri insoddisfatti ed il senso di appagamento che ne deriva è considerato un’approssimazione della beatitudine. La credenza a priori su cui si regge l’intero sistema economico è che, ciascun individuo, soddisfatti tutti i suoi desideri, sarà finalmente felice. Questa convinzione accomuna gli attori sociali indipendentemente dal loro ruolo: imprenditori, consumatori, risparmiatori, accumulatori, lavoratori, disoccupati si riuniscono tutti nel credo della soddisfazione del desiderio. L’escatologia dell’economicismo, come di ogni altra religione che si rispetti, predica dunque il raggiungimento della felicità una volta arrivati alla fine del cammino, come premio per coloro che hanno osservato fideisticamente le sue leggi.
Sottrarsi al dominio di questa religione universalistica, sempre che lo si voglia, appare un imperdonabile atto di hybris, dal momento che, a differenza delle altre religioni, essa è tutt’uno con la scienza e la tecnica e, per questo motivo, neppure è percepita come religione.Tuttavia, il bene che è stato espropriato dal nostro immaginario, continua a far parte della nostra reale dotazione di risorse e costituisce una sfida latente all’economicismo. Si può pertanto avanzare una terza e più ardita interpretazione del significato di oikos, che ricomprende le precedenti e sposta il discorso su un piano più sottile, ma non per questo sprovvisto di valenza pratica. Ebbene, l’oikos è la casa che custodiamo all’interno di noi stessi, l’infinito spazio in cui accadono i fenomeni psichici. Allo stesso tempo l’oikos è la casa che ci custodisce, anch’essa infinito spazio in cui tutti i fenomeni accadono: la casa comune di cui l’Enciclica “Laudato sì” incita a prendersi cura. In entrambe le accezioni l’oikos è spazio, nell’un caso interno, nell’altro esterno. Il confine tra queste due porzioni di spazio è una sottile membrana: il nostro io. Le teorie fondate sull’io, e le moderne teorie economiche lo sono, pongono l’attenzione sulla frontiera tra i due insiemi: sono teorie del partizionamento. Ponendo l’accento sulla soluzione di continuità, l’economia trascura la continuità, separa porzioni di spazio e pretende di poterne indagare le leggi facendo astrazione dal resto. Sottrarsi a questo approccio, preferendovi la ricerca di visioni olistiche della realtà, non significa necessariamente pretendere di elaborare una teoria del tutto, ma prendere coscienza che ogni ragionamento, quanto più si occupa del particolare, tanto più deve fare i conti con l’universale in cui si colloca. In conclusione, la riunificazione dell’oikos, abbattendo la fittizia barriera tra interno ed esterno, può essere una via di riconciliazione tra economia ed ecologia.
A questo proposito è utile tenere presente che, poiché non si può né vender né comprare, la beatitudine produce effetti che il sistema economico non riesce ad intercettare. Gli strumenti classici di internalizzazione suonerebbero quanto mai ridicoli: tassare o sussidiare chi ha accesso ad uno stato di beatitudine farebbe arrossire anche il più fervente sostenitore della teoria della finanza pubblica, così come attribuire diritti di proprietà su di essa non verrebbe in mente neanche al più impavido ragazzo della scuola di Chicago. Lo stato di beatitudine ha effetti contagiosi ed imprevedibili, grazie ai quali offre una via d’uscita dall’imperio dell’economicismo.
Per secoli si è assistito al tentativo di economicizzare la spiritualità, gettando gli individui in uno stato di crisi complessiva, per uscire dal quale non resta che spiritualizzare l’economia, ovvero privarla del suo potere religioso. Si badi bene, non si sta qui parlando di moralizzare l’economia, perché l’economia è già figlia del moralismo. Così facendo lasceremmo una religione per convertirci ad un’altra. Spiritualizzare l’economia significa piuttosto ristabilire il corretto rapporto tra l’uomo e la sua mente. La macchina da calcolo ha sottoposto alle leggi economiche tutto fuorché se stessa. L’homo oeconomicus non fa economia di pensiero, né sottopone l’incessante produzione di pensieri ad una benché semplice analisi costi/benefici. Se così facesse, si renderebbe conto dell’immane inefficienza dei suoi processi e si vedrebbe costretto a ridurne di molto la produzione. Ma, a quel punto, limitandosi ai soli pensieri che presentano un rapporto benefici/costi superiore all’unità, la macchina da calcolo entrerebbe frequentemente in stand by. Inevitabilmente, si allungherebbero le pause tra un pensiero e l’altro. Sfruttare le pause per uscire dall’immaginario e ritornare al reale: questo è l’invito che proviene dalla maggior parte delle tradizioni spirituali, anche quando assumono le vesti di racconto cinematografico in cui l’eroe è chiamato a scegliere tra pillola azzurra e pillola rossa. E chissà che non ci si possa riuscire proprio malgrado e grazie all’economia.
(27 gennaio 2016)