Il mito del giovanilismo. Osservazioni sulla crisi dell’uomo moderno (di Alfredo Franchi)
Il mito del giovanilismo. Osservazioni sulla crisi dell’uomo moderno
di Alfredo Franchi
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Aristotele in un’analisi mirabile ha delineato il paradigma della condizione giovanile indicando con precisione gli aspetti esaltanti di tale età senza nascondere la dimensione problematica che, in qualche modo, appare come inevitabile controparte delle caratteristiche creative ed affascinanti di questa fase fondamentale della vita. A suo parere i giovani difatti sono di buon carattere e quindi inclini a coglier gli aspetti positivi della vita dal momento che non ne hanno ancora sperimentato la negatività, e sono anche facili a convincersi dal momento che non hanno avuto esperienza degli inganni, ed hanno grandezza d’animo poiché non sono stati umiliati da insuccessi avvilenti, sono anche inesperti della scienza politica e la loro speranza si dilata nel futuro all’insegna di aspirazioni infinite che inevitabilmente riceveranno aspre smentite dalla vita[1]. Nel mito del giovanilismo, in maniera acritica, si mantengono gli aspetti positivi del paradigma ideale delineato da Aristotele separandoli dalla controparte problematica evidenziata dallo Stagirita. Tale paradigma di vita viene ad essere singolarmente insidioso per chi lo accetta poiché fonda in maniera accattivante ed illusoria l’esistenza e le scelte di chi in esso si adagia[2].
Tra Ottocento e Novecento il mito del giovanilismo consegue la sua formulazione esemplare rinvenendo nell’idea di progresso la sua matrice teorica più appropriata; peraltro il suo fascino e la sua suggestione non vengono meno anche se la filosofia della storia che ne aveva decretato il successo entra in crisi[3], ed ancora oggi possiamo constatarne l’ambigua presenza in tutte le pratiche tese ad annullare le trasformazioni fisiche degenerative indotte dal decorso temporale. Il mito del giovanilismo, dannoso per i giovani che per suo tramite s’avvalgono di una superiorità illusoria, è negativo anche per i vecchi, come acutamente aveva notato Platone. Costoro, assumendo l’atteggiamento giovanile, occultano la loro effettiva identità e, mentre fanno violenza a se stessi, impediscono l’autentica dialettica esistenziale in cui vecchi e giovani, mantenendo integra la specifica identità, realizzano l’incontro ed il confronto autentico e positivo[4]. Sarebbe tuttavia ingiusto ridurre il mito alle sue implicazioni negative dal momento che personalità di grande rilievo ne sono rimaste affascinate e, per suo tramite, hanno dato vita a progetti ed esperienze originali e creative. Può essere significativo verificarne la presenza in certi protagonisti delle vicende politiche e culturali tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento che del mito del giovanilismo hanno sperimentato l’incanto e la seduzione salvo poi riconoscerne i limiti e l’ambiguità nella fase ulteriore e più matura della vita, restia, nelle sue impietose smentite, a convalidarne in maniera univoca il valore ed il significato.
1. Il mito del giovanilismo e la difesa acritica della gioventù nell’analisi di Dostoevskij
Nell’opera di Dostoevskij a più riprese viene analizzato il mito del giovanilismo al fine di individuarne il significato ed i motivi di diffusione nella società dell’epoca. Lo scrittore evidenzia il fatto che da lungo tempo ormai è invalsa la moda di esaltare la gioventù in maniera adulatoria ed acritica: «Già dai tempi antichissimi del nostro pseudo liberalismo nei nostri giornali è invalsa la regola di “difendere la gioventù”: contro chi e contro che cosa, è ciò che a volte rimane nelle tenebre dell’ignoto, e assume un aspetto molto assurdo e perfino molto buffo, specialmente negli attacchi contro altri organi si stampa, quando si intende dire: “ecco, noi siamo più liberali, mentre voi attaccate la gioventù, sicché siete più retrogradi”»[5].
La gioventù viene lodata nella sua totalità quasi che tale condizione privilegiata sia motivo atto a giustificare ogni azione ed ogni scelta. Chiunque osi criticare i giovani viene rozzamente liquidato come retrogrado e così si generalizza un atteggiamento adulatorio assai dannoso per i giovani che, vittime di un narcisismo esasperato, non sono in grado di separare la menzogna dalla verità[6]. Si giunge al punto di negare i fatti che potrebbero incrinare il mito del giovanilismo, e così si imputa alla cattiva coscienza di chi li nota la loro esistenza in base al meccanismo ideologico che induce a negare tutto ciò che smentisce la concezione aberrante di cui si è prigionieri[7]. Dostoevskij osserva che la giovinezza in primo luogo è una condizione fisiologica e non psicologica, ed anche in quest’ultimo caso l’essere giovani nello spirito non è garanzia assoluta di autenticità e verità. A suo parere, per eliminare in anticipo le smentite impietose della vita, si è venuta imponendo una pedagogia incline a facilitare tutto nel campo della formazione e dell’apprendimento quasi che l’esistenza debba compiutamente risolversi nella dimensione ludica: «è un vero peccato che attualmente si cerchi di facilitar tutto ai fanciulli, non soltanto l’istruzione in ogni campo, qualsiasi apprendimento di nozioni, ma anche i giuochi e i divertimenti. Non appena il fanciullo comincia a balbettare le prime parole, subito ci si dà da fare per facilitargli lo sforzo. Tutta la pedagogia odierna non ha altra preoccupazione»[8].
Tale scelta è esiziale per lo sviluppo della personalità e finisce con l’avvalorare dinamiche di natura regressiva[9]. Lo scrittore è favorevole ad un progetto educativo che si apra all’umanità intera ed appunto per questo non lesina critiche alla sua epoca ed al mito del giovanilismo in cui si coagulano certe tensioni contraddittorie dell’epoca. Negativo gli appare l’eccesso di fiducia in se stessi che induce ad atteggiamento di vero e proprio ostracismo nei riguardi di ogni forma di ironia ed autoironia in ogni caso rivelatrici dei limiti della condizione umana propria ed altrui e così «sono nati dei balordi cupi, le fronti si sono corrugate e concentrate; e tutto segue la linea diritta, tutto tende a un punto fisso. Voi credete ch’io parli solo dei giovani e dei liberali? Vi assicuro che le mie parole si riferiscono anche ai vecchi e ai conservatori»[10]. I vecchi per non rimanere ai margini della società imitano in maniera maldestra i giovani senza venire a capo di quanto sta accadendo[11] e, senza rendersi conto che, nel loro tentativo fallace di omologazione, smarriscono del tutto la loro identità e vengono meno alla loro effettiva funzione. Per Dostoevskij il problema fondamentale non è quello di conseguire il consenso ed il successo, ma quello di mantenere una tensione ideale elevata poiché a suo avviso «senza un’idea superiore non può esistere né l’uomo né la nazione»[12].
Nell’andazzo educativo dell’epoca egli nota con rammarico un vero e proprio ostracismo nei riguardi dell’ideale eroico come proposta di vita per i giovani[13]. Siamo dinanzi ad un’evidente contraddizione poiché, mentre si esalta la condizione giovanile, si vietano quelle mete ideali nella cui ricerca l’umanità rinviene la sua autenticità più profonda[14]. Al fine di evitare in via preliminare delusioni e fallimenti si blocca nei giovani la ricerca di idealità ardue ritenendo illusoriamente che «la felicità è meglio dell’eroismo»[15]. Nel vuoto interiore generalizzato si coglie la malattia profonda dell’epoca[16], lo scrittore è del parere che «la nostra gioventù soffra e languisca da noi proprio per mancanza di fini elevati nella vita e quanto all’idea dell’immortalità non solo in generale non ci si pensa, ma abbastanza spesso la si considera ironicamente, in presenza dei ragazzi, fin dall’infanzia e forse addirittura a scopo educativo»[17]. In ogni caso la crisi epocale dell’umanità va affrontata con amore, senza atteggiamenti di alterigia e sufficienza[18], quali si riscontrano in coloro che hanno interiorizzato il mito del giovanilismo[19], poiché il male è più profondo di quanto non suppongano coloro che lo attribuiscono all’esistenza di strutture sociopolitiche aberranti[20]. In tal caso difatti facendo leva sulle energie umane sarebbe effettuabile un progetto rigenerativo completo[21], che la storia più recente, nelle sue tragiche vicende, ha radicalmente smentito. Nonostante tutte le critiche rivolte al mito del giovanilismo ed ai suoi fautori, è nei giovani consapevoli in maniera critica della loro condizione che Dostoevskij ripone tutte le sue speranze: «spero nella gioventù, che soffre anch’essa nella ricerca della verità e ne ha nostalgia ed essendo vicina al popolo comprenderà subito che anche il popolo cerca la verità»[22].
2. L’eclissi del padre nella generazione 1914
Wohl ritiene che, intorno al 1880, la parola generazione perse il significato che aveva avuto nel corso dei secoli[23] e venne ad indicare la “gioventù” con i suoi pregi e con le sue energie in contrapposizione ai vecchi di cui, per contrasto, si veniva a rimarcare l’inutilità e l’insignificanza «Se il futuro era destinato ad essere fondamentalmente diverso e migliore del passato, allora giovane diventava sinonimo di nuovo. I giovani erano i portabandiera del futuro nel tempo presente, mentre i loro padri, gli adulti, costituivano l’incarnazione del passato nel presente e quindi un ostacolo dannoso al progresso e ai cambiamenti. Lottare contro la vecchia generazione divenne così un dovere per tutti coloro che si identificavano con la causa del futuro»[24].
L’idea di una rivolta generazionale favorì l’insorgere di atteggiamenti e movenze culturali che si coagularono nel mito del giovanilismo. Le associazioni giovanili nel ventennio che precede la prima guerra mondiale erano sfuggite al controllo degli adulti ed in vario modo, in tutta Europa, sollecitavano ribellioni contro la vecchia generazione, in quanto si ritenevano depositarie della forma di vita più nobile ed autentica[25]. L’autorità paterna veniva contestata e dichiarata illegittima, non perché i padri fossero divenuti più severi o più permissivi di prima, ma perché non erano più in grado di inserire i figli nella società una volta che avessero abbandonato la casa. I modelli di vita che erano stati funzionali per i padri apparivano ormai obsoleti, e così la figura del padre come fonte di saggezza e sicuro riferimento esistenziale si era profondamente estenuata ed inoltre, come afferma Wohl «Il numero di persone giovani… era in aumento, il che dava ai più vecchi l’impressione di una vera e propria avanzata giovanile e ai giovani la sensazione spiacevole che la lotta per conquistare una serie di posti di lavoro che andava assottigliandosi sempre di più era destinata a rendere più difficile l’ascesa alla fama e al successo di quanto non fosse avvenuto per i loro predecessori»[26].
Il senso di coesione tra i giovani era rafforzato dalla «sensazione comune di essere vittime di qualche cosa»[27]. Ci si rammaricava di essere nati in una società povera di energie e forze morali. I giovani intellettuali non avevano sempre conoscenza profonda della situazione reale, ma l’anelito a rinnovare era forte, li spingeva ad agire: «nella fantasia della maggior parte dei giovani europei l’unica via d’uscita dal languore della compiacenza borghese era lo scoppio di un conflitto generale ed alcuni si precipitavano a concludere, in modo del tutto errato, che era sul campo di battaglia e nella tensione di una situazione di pericolo per il paese che si sarebbe sviluppata una coscienza nazionale e sarebbe emersa una figura di uomo nuovo, più etico e meno commerciale, che avrebbe preso il posto del borghese e del proletario, entrambi frutto della società detestabile ed egoista che faceva maledire ai giovani intellettuali il giorno in cui erano nati»[28].
Si comprende pertanto come lo scoppio della guerra nel 1914 sia stato salutato con grande entusiasmo, quasi fosse giunto il momento della redenzione, una sorta di rito purificatore che avrebbe salvato una civiltà in rovina[29]. Quando si verifica un evento storico di forte impatto emotivo la coesione sociale può aumentare al fine di fronteggiare più adeguatamente la situazione, ciò non si verificò nella grande guerra che addirittura peggiorò i rapporti tra i giovani e i vecchi e rese più forte l’antagonismo generazionale. Le conseguenze negative della guerra gravarono su tutti[30], ma diverso fu il modo in cui vennero rivissute a secondo della fascia d’età d’appartenenza[31]. Negli intellettuali la guerra era sentita «come qualche cosa di orribile, una catastrofe, un abbrutimento, un asservimento alla materia, paura, perdita dell’innocenza e della sensibilità e la tomba di tante illusioni amorevolmente custodite prima della guerra, è vero tuttavia che gli stessi individui la consideravano anche un’occasione, un privilegio, una rivelazione. Una certa ambivalenza nei confronti del conflitto costituisce la caratteristica principale dei migliori e più onesti scrittori di libri sulla guerra. Le stesse persone che condannavano a gran voce la disumanità della guerra spesso confessavano di averla amata con passione e si chiedevano se sarebbero mai riusciti a liberarsi dal magico incanto del fronte»[32].
La guerra provocò trasformazioni di vasta portata dal momento che favorì «un’eccezionale semplificazione della vita, un abbandono delle forme esteriori e una riduzione all’essenziale»[33]. Tale processo risaliva all’anteguerra principalmente nei gruppi dei giovani ostili alla cultura borghese. La guerra estese il rifiuto delle convenzioni tra tutti coloro che avevano sperimentato la vita di trincea. Certo non è possibile generalizzare in maniera univoca le conseguenze del conflitto: non esiste una maniera unica di reagire, difatti «l’esperienza fatta al fronte sembra aver indebolito gli uni e rinforzato gli altri, avere spinto gli uni a destra e gli altri a sinistra, avere suscitato in qualcuno il gusto della lotta e della violenza e persuaso altri a conservare la pace a qualsiasi costo, avere spronato alcuni ad identificarsi con i caduti e altri a godersi la vita, avere reso gli uni più compassionevoli e gli altri più crudeli…. Una cosa però è certa: il fronte impartì una indimenticabile lezione di generazionalismo a quanti ne fecero l’esperienza. Coloro che rischiavano la vita in prima linea erano infatti in massima parte giovani, mentre quelli che gestivano la guerra nelle retrovie e trovavano motivi per giustificare il massacro tendevano ad essere più vecchi»[34]. Di sicuro l’antagonismo vecchi-giovani ebbe un forte incremento ricevendo una nuova connotazione emotiva nell’idea diffusa delle vittime mandate a morire da spregiudicati guerrafondai ed affaristi disposti a tutto[35].
Finita la guerra le attese palingenetiche con cui si erano sostenuti e mobilitati i giovani al fronte andarono ampiamente deluse e non a caso una delle spiegazioni che venivano date per giustificare la “sconfitta” dei superstiti era che erano tornati “i vecchi”, i quali avevano sottratto ai giovani la vittoria[36]. Nel clima diffuso di incertezza e precarietà si diffuse la concezione di vita che equiparava i giovani a pellegrini erranti senza meta[37]. L’idea di muoversi, di allontanarsi era in quanto tale affascinante[38] per la convinzione generalizzata di essere condannati a vagare tra un mondo scomparso e un altro incapace di nascere[39] per cui l’unica possibilità che restava «in un’epoca tanto turbolenta e travagliata, consisteva nel cercare e nello sperimentare e nell’avere il coraggio di accettare ed affermare il proprio destino, per quanto scomodo potesse essere»[40].
In tale clima storico l’essere giovani da mera condizione fisiologica diventava una sorta di categoria dello spirito che si qualificava nella disponibilità totale verso il nuovo, mentre l’essere vecchio[41] implicava la cristallizzazione senza residui in vetusti modelli di comportamento[42] e così «l’equazione fra giovinezza e rinnovamento culturale si ispirava e faceva leva sulla sempre maggiore diffusione di sport spettacolari, la passione per i record in atletica, automobilismo e aviazione, il gusto di una moda giovane anche da parte dei meno giovani… La giovinezza era diventata uno stato d’animo, uno stile di vita e, proprio perché non limitata ad una età precisa, una forza politica potenziale, in grado di salvare l’Europa dallo sterile conflitto fra i partiti borghesi e i movimenti proletari»[43].
L’idea di una convergenza d’idealità e d’interessi tra i giovani[44] non rimase circoscritta al piano teorico dal momento che in variegati e contrapposti movimenti politici esercitò una funzione di filtro e di coagulo tutt’altro che marginale[45] al punto che «la storia d’Europa nell’intervallo fra le due guerre sarebbe in realtà incomprensibile senza il mito onnipresente di una generazione del 1914 politicamente unita»[46].
3. Le illusioni indotte dal mito del giovanilismo nell’analisi di Benedetto Croce
In una intervista pubblicata nell’aprile del 1914 Croce veniva invitato a replicare a certe critiche che gli venivano rivolte da gruppi giovanili[47]. Nella sua risposta, volutamente ironica, diceva di essere interessato solo alle critiche degne di tal nome in quanto sviluppate in maniera coerente e consapevole come invece non si era verificato in tale occasione[48]. Alla replica del suo interlocutore, articolando in maniera più diffusa la sua analisi, Croce affermava di non essersi affatto accorto della presenza di nuove idee, ma semmai della voglia, del desiderio di averle che, a parer suo, era qualcosa velleitario ed irrilevante finché rimaneva circoscritto in tale dimensione[49]. Insomma per Croce occorreva passare dal piano delle aspirazioni a quello più impervio delle realizzazioni effettive in cui si poteva dar prova compiuta del valore e della consistenza delle idee vagheggiate[50]. A questo punto della conversazione veniva alla luce in maniera più esplicita la controversia vecchi-giovani nella convinzione diffusa che «la nuova generazione ha bisogno di affermarsi»[51], per cui i vecchi dovevano mettersi da parte lasciando spazio alle nuove idee semplicemente perché funzionali all’emergere dei gruppi giovanili.
Da parte sua Croce, non senza malizia, notava come la giovinezza non fosse un possesso perenne ed anzi volasse via veloce per cui, basare la supremazia ideale su tale effimero presupposto, avrebbe significato andare incontro ad una rapida estenuazione[52]. Questo non era comunque, a parer suo, l’aspetto fondamentale della questione diventata di moda: «Che cosa è questo triste vocio di una antitesi tra giovani ed uomini maturi, tra giovani e vecchi, che si comincia a udire in Italia? Prima presso di noi, non s’udiva: lavoravano i vecchi, gli uomini maturi e i giovani, e questi ultimi non auguravano la morte degli anziani, dalla quale ad essi nessun bene veniva e molto male, invece, alla repubblica delle lettere»[53]. Tale andazzo era imputabile secondo lui al movimento dannunziano che aveva dislocato in Italia certi aspetti deplorevoli della cultura francese[54], ma «perché voler introdurre ora questo mal vezzo, dove manca perfino la motivazione economica della triste contesa? Ciò significa far il male per il male, fare il male per imitazione»[55]. Per il filosofo il mondo dell’arte e della letteratura non poteva avvalersi del paradigma anagrafico come criterio di valutazione e così si augurava che i giovani si definissero tali «in significato di modestia»[56] e riteneva che avrebbero fatto meglio a guardare alle cose e alle idee più che all’età delle persone come fattore decisivo. Si augurava che «quelli dei giovani che si attengono a tali nuovi principi, si vergognino di chiamar sé stessi giovani, per vanto, e chiamar vecchi, per vilipendio, coloro che hanno lavorato prima di loro e più di loro. Meglio farebbero a chiamarsi giovani in significato di modestia, e meglio ancora se badassero alle cose e alle idee più che alle persone e all’età di queste persone»[57]. In effetti i giovani sono sempre esistiti e «a essi è stata sempre affidata, o da essi è stata sperata, la prosecuzione e l’avanzamento della vita, ed essi sono stati sempre guardati con tenerezza e con sorriso benevolo d’incoraggiamento dai vecchi, e insieme ammoniti e rimbrottati, e sempre hanno loro ubbidito, e appreso un po’ più tardi il significato dei loro ammonimenti»[58]. Solo i giovani che non si sono incapsulati senza residui nella pretesa di una loro fisiologica superiorità hanno svolto nella storia una funzione progressiva e non invece «gli altri, rimasti puramente giovani, gli eterni giovani, i perpetui ribelli, gli inetti»[59].
Per Croce il mito del giovanilismo viene a trasformare una condizione di immaturità e debolezza inconsapevole in posizione di forza ed egemonia dando vita ad una «sorta di corporazione con diritti senza doveri e fornita di privilegi, come sarebbe quello di richiedere rispetto alla loro fresca giovinezza e mancar di rispetto agli altri, di aggredire e ingiuriare gli altri, negando agli altri, perché non più giovani, il diritto di rintuzzarli»[60]. In maniera facile ed illusoria si spiegano insuccessi e fallimenti[61] e così molti, per non rimanere ai margini della dinamica sociale, si atteggiano a rappresentanti dei giovani non senza incorrere poi in amare delusioni[62] o addirittura cadere nel ridicolo come « i <giovani resistenti>, prossimi ad essere nonni, ma sempre giovani, sempre ricchi di promesse, perché non avendone mai tenuta alcuna, la loro vita è un’inesauribile fioritura di promesse all’infinito»[63]. Il filosofo riconosceva in alcuni dei partecipanti a tali variopinte manifestazioni ingegno e doti apprezzabili[64] che non avrebbero però lasciato conseguenze positive ove costoro fossero rimasti bloccati nel paradigma iniziale «perché il vero giovane è colui che crede in buona fede, e in buona fede si sforza, di essere savio, ponderato e avveduto quanto il vecchio… e se alcuno lo chiama giovane, quasi se ne offende, perché vuole che si guardi alla serietà della sua opera e non al novero dei suoi anni; e a queste baldanze alterna profondi scoramenti, e, se a torto si vantava il giorno prima poeta, a torto si martoria il giorno dopo nel sospetto di essere imbecille… Che cosa volete fare di un giovane, che sa di esser giovane e fa il giovane di proposito, come esercitando una missione?»[65].
Nella penetrante analisi di Croce il giovane, risolvendosi nel mito del giovanilismo, si riduceva alla fine ad essere la caricatura di se stesso. Avere idee sembrerebbe essere la cosa più facile, infatti la realtà che ci circonda induce naturalmente a prenderne consapevolezza riflessa[66]. È possibile anche costruire idee artificialmente come certi poveri di spirito che si divertono a rovesciare le massime della morale corrente[67], ritenendo di trovare nel paradosso e nella eccentricità finalizzata a se stessa il marchio della genialità[68]. Ora a parere del filosofo difficile non è aver idee, ma avere l’idea giusta che dia fondamento logico a tutte le altre e sorregga con la sua forza la scienza e l’azione[69]. Gli spontanei produttori d’idee offrono un prodotto vuoto e deludente[70] poiché si sottraggono al duro tirocinio che appare indispensabile in tale attività dello spirito: «Un’idea è una vita intera di un uomo; e il tempo in cui essa faticosamente si conquista, si chiama la giovinezza; e l’altro, in cui si svolge ed attua, si chiama maturità; e quello in cui si viene compiendo ed esaurendo, si chiama la vecchiezza»[71]. In ogni caso nella giovinezza si assiste al primo affiorare dell’idea e non alla sua conclusiva maturazione. Sembra pertanto indispensabile lo svolgimento dell’idea che è ben diverso dal <saltellare> di uomini che «l’anno o il mese o il giorno dopo prendevano un atteggiamento mentale opposto a quello dell’anno, del mese o del giorno prima[72], utilizzando come argomento giustificativo il fatto che loro «non si fermano in nessuna filosofia»[73]. In tale atteggiamento giovanilistico l’unica coerenza constatabile era quella di chi rimaneva in un’atmosfera fatta di «leggerezza, di parole pronunziate prima che pensate, d’inconsapevolezza, di sconclusionatezza»[74].
In epoca d’arrivismo ed irrequietezza ben pochi rimanevano a lungo in un lavoro senza cedere alla tentazione di affrettarne i risultati e goderne anzitempo il frutto, questi pochi diventavano oggetto di sarcasmo e di scherno ricevendo l’epiteto di «superati»[75], in tal modo non ci si misurava più con i contenuti concreti realizzati al fine di darne una valutazione critica, ma ci si limitava a rilevare la condizione anagrafica di chi li aveva prodotti. Croce faceva notare ai suoi diffamatori che, dandogli del “superato”, non avevano letto o non avevano capito niente dei suoi libri[76], nella sua riflessione filosofica difatti riteneva di aver sostenuto e dimostrato che «il superamento accade in ogni istante, in me come in qualsiasi altro uomo che pensi e lavori»[77]. Dal suo punto di vista veniva completamente a cadere la vecchia idea di sistema teorico ed appunto per questo il filosofare si riduceva per lui all’« armonizzamento di un gruppo di problemi storicamente dati, e storicamente mutevoli a ogni passo della vita»[78], e così nella sua impostazione teorica il superamento di ogni conclusione speculativa acquisita diventava in proiezione futura la nota caratterizzante[79]. Sorretto da tale argomentazione il filosofo poteva retoricamente concludere rivolto ai suoi critici: «Non si sono accorti che io sono un pensatore insuperabile?»[80]. Affermazione certo priva di modestia pur se sostenuta da una dialettica che consentiva di trasformare un’accusa in argomentazione a favore, per cui, con tono trionfalistico, Croce poteva concludere «sempre ho usato vigilare, e con l’autocritica correggere, il già fatto da me… E sono stato anche molto lieto e grato tutte le volte che da altri ho ricevuto aiuti alla mia autocritica, e dolente alquanto che la maggior parte dei miei errori o delle mie lacune abbia dovuto scoprirmeli da me, con le mie fatiche, e rendere da solo a me stesso il servizio di “superarmi”. Come mai dunque, il mio sistema sarebbe stato, ora, a quanto suonano le voci funeree, “superato”? Come può essere superato ciò che non è mai stato? Il titolo di “sistema” non l’ho mai dato ai miei libri filosofici, come mi son guardato bene dal dare loro un battesimo, al modo che usavano i vecchi sistematici: la mia filosofia è sine titulo: è, o vuol essere, un frammento della perennis philosophia, che è perenne perché si rituffa sempre e si rinnova nelle onde della vita»[81]. Il filosofo concludeva la sua difesa del metodo di lavoro e del modo di fare filosofia[82] ravvisandone i tratti nell’operare assiduo e modesto, nel desiderio di giungere a comprendere meglio e di facilitare negli altri un esito consimile e questo era forse «il più profondo motivo degli ostacoli che essa trova; perché alla modestia pochi si rassegnano, ignari, ahimè che solo ai modesti tocca poi la fortuna di potere, talvolta, sumere superbiam»[83].
4. Giovanni Papini interprete esemplare del mito del giovanilismo
In un famoso capitolo della sua Storia d’Italia Croce delinea in maniera quanto mai efficace il clima storico e culturale in cui il mito del giovanilismo aveva rinvenuto nei primi anni del Novecento la sua trascrizione esemplare; in tale epoca caratterizzata da rinascita di fervore culturale s’annidava però qualcosa di meno positivo, difatti «la coscienza morale d’Europa era ammalata da quando, caduta da prima l’antica fede religiosa, caduta più tardi quella razionalistica e illuministica, non caduta ma combattuta e contrastata l’ultima e più matura religione, quella storica e liberale… (si era ) foggiato un torbido stato d’animo, tra avidità di godimenti, spirito di avventure e conquiste, frenetica smania di potenza, irrequietezza e insieme disaffezione e indifferenza, com’è proprio di chi vive fuori centro, fuori di quel centro che è per l’uomo la coscienza etica e religiosa. Anche nella semplice e sennata Italia, aliena da fanatismi di ogni sorta, coteste disposizioni d’animo si erano fatte strada»[84]. In Italia la reazione a tale andamento di cose non dette vita a forme di razionalismo più lucido e consapevole, ma scivolò verso forme variegate ed ingannevoli di irrazionalismo, un composito amalgama in cui «l’intuizionismo, il pragmatismo, il misticismo… il teosofismo, il magismo e via dicendo, compreso il futurismo, che era, anche quello, una concezione o interpretazione della vita, e perciò, a suo modo, una filosofia»[85] risultavano essere le componenti fondamentali. Nelle riviste dell’epoca, soprattutto in quelle giovanili in cui la moda più vistosamente si affermava[86], l’irrazionalismo in vario modo celebrava il suo trionfo non senza deprecabili conseguenze: «l’indebolito o fiaccato sentimento della distinzione: della distinzione tra verità e non verità nella cerchia teoretica, tra dovere e piacere, moralità e utilità nelle cose pratiche, tra contemplazione e passione, poesia e convulsione, gusto artistico e libito voluttuario nel campo estetico, tra spontaneità e indisciplina, originalità e stravaganza nella vita culturale»[87]. Eliminato ogni controllo della logica e dell’atteggiamento critico, il giuoco dei paradossi che hanno solo la parvenza di originalità e nascondono il vuoto mentale, l’innovazione fine a se stessa diventano espedienti quanto mai funzionali nell’opera di erosione della cultura tradizionale irrimediabilmente datata[88]. A parere del Croce «Si assisteva, in quelle riviste e in quei libri, a uno scoppiettio incessante di idee, ora felici ora avventate, ora acute ora sgangherate, nessuna arrestata nel rapido volo e considerata da vicino, analizzata, elaborata e fatta fruttare. Vi si sentiva più accaloramento che calore, più impeto iniziale che costanza, più mobilità che movimento, più curiosità e dilettantismo che interessamento e serietà: conseguenza morale dell’irrazionalismo, come la fiaccata distinzione tra valore e disvalore ne è la conseguenza logica»[89]. Tra i giovani presi di mira da Croce, inclini a «salti mortali e capriole e contorsioni»[90], e non ad un serio lavoro, Giovanni Papini appare figura quanto mai rappresentativa ed interprete caratteristico di quel mito del giovanilismo che tanto rilievo ebbe nei primi anni del Novecento[91]. Per ironia della storia colui che avrebbe dato voce alle istanze caratteristiche di tale paradigma esistenziale, per sua esplicita dichiarazione, non era mai stato bambino[92], non aveva avuto fanciullezza, al punto di meritare all’età di sei, sette anni il soprannome di «vecchio»[93]. È facile capire quanto difficili siano stati i rapporti di questo bambino con gli altri: «me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi… al chiasso sfrenato dei compagni dell’età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina, povera e buia»[94]. Insomma il suo rapporto con gli uomini fu sin dall’inizio apertamente conflittuale: «Fin da quel tempo incominciò la guerra fra me e gli uomini. Io li sfuggivo e loro mi trascuravano; non li amavo e mi odiavano. Fuori, nei giardini, chi mi scacciava e chi mi rideva dietro; a scuola mi tiravano i riccioli o mi accusavano ai maestri: in campagna, anche in villa del nonno, i ragazzi dei contadini mi tiravan la sassate, senza che avessi fatto nulla a nessuno, quasi sentissero ch’ero d’un’altra razza. I parenti m’invitavano o mi carezzavano quando proprio non potevan farne a meno, per non mostrare dinanzi agli altri una parzialità troppo indecente, ma io m’accorgevo benissimo della finzione e dello sforzo e mi nascondevo e tacevo e ad ogni loro parola rispondevo sgarbato ed acerbo»[95]. Se possibile, in scontrosa solitudine, evitava ogni rapporto con gli altri: «Mi sentivo straniero lì dentro, e lontanissimo da tutti. E appena mi riusciva passavo di nascosto la porta e a passi prudenti, rasente al muro umidiccio, mi inoltravo nell’andito lungo e tenebroso che portava fin all’uscio di casa. E lì sentivo il mio piccolo cuore di solitario che batteva con veemenza»[96]. Fin da allora la parte migliore della vita era quella che si svolgeva nella solitudine di una fantasia insaziabile e desiderosa: «Il meglio della mia vita era dentro di me. Fin da quel tempo, tagliato fuori dall’affetto e dalla gioia, mi rintanavo, mi nascondevo, mi distendevo in me stesso, nell’anima, nella fantasticheria bramosa, nella solitaria ruminazione dell’io e del mondo rifatto attraverso l’io.. Non c’era altro scampo, altra gioia per me. Non piacevo agli altri e l’odio mi rinchiuse nella solitudine. La solitudine mi fece più triste e più spiacente; la tristezza mi chiuse il cuore e mi aizzò il cervello. La diversità mi staccò anche dai prossimi e la separazione mi fece sempre più diverso»[97].
La tonalità emotiva che faceva da sfondo ad una vita interiore così configurata era quella di una infinita ed indefinita malinconia aliena da ogni facile sfogo e consolazione[98].
Ben presto in questo bambino scontroso e difficile nacque la passione della lettura[99]. Appena libero si ritirava nella stanzina nascosta in fondo alla casa in cui erano ammassati alla rinfusa i libri del babbo[100]. Non si limitava a leggere, infatti da ogni parola, da ogni frase, riceveva stimoli a fantasticare, a ricostruire il mondo, a riflettere in maniera originale e critica[101]. Dopo qualche anno di letture furiose e caotiche si accorse di aver dato fondo ai libri di casa e dei conoscenti, con gioia venne a sapere che in città esistevano «grandissime e ricchissime librerie aperte a tutti»[102]. La scoperta delle biblioteche fu un avvenimento straordinario e così cominciò a frequentarle quotidianamente; in tutto il tempo libero dalla «tediosissima scuola… mi gettai a capofitto in tutte le letture che mi suggerivano le mie pullulanti curiosità… e intrapresi allora, senza esperienza, senza guida, e senza un qualsiasi disegno, ma con tutto il furore e l’impeto della passione, la vita dura e magnifica dell’onnisapiente»[103]. Il desiderio di saper tutto era il movente che stava dietro l’insaziabile curiosità di conoscere[104], e tale istanza doveva rimanere caratteristica saliente della sua avventura esistenziale: «tutta la mia vita… è stata così – un eterno slancio verso il tutto, verso l’universo, per dopo ricascare nel nulla o dietro la siepe di un orto; un succedersi di ambizioni enormi e di rinunzie e disfatte continue»[105]. Non casualmente Papini parla di una “malattia della grandezza”[106] che, dalla nascita, lo avrebbe accompagnato nelle sue avventure esistenziali non senza ambiguità ed inconvenienti di varia natura poiché da una parte lo induceva a rimarcare tutti gli aspetti negativi della sua personalità[107], dall’altra, a compensazione dell’altrui ostilità nei suoi riguardi, sollecitava in maniera enfatica lo sviluppo di un io esasperatamente narcisista[108]. Con sincerità aspra e disarmante Papini dice di sé: «Ero brutto e spregevole… Ma pure sotto quella bruttezza e quella miseria c’era un’anima che voleva sapere, conoscer la verità e imbeversi tutta di luce e sotto quel cappellaccio untuoso e quella testa spettinata c’era un cervello che voleva capir ogni idea e dappertutto entrare e sognare – c’era una mente che di già guardava quel che gli altri non vedono e si nutriva là dove i più non trovano che vuoto e desolazione»[109]. Lo scrittore riconosceva peraltro che senza le miserie e le umiliazioni della vita sarebbe stato più vigliacco e meschino[110], per cui, alla fine, l’aspra scuola del dolore lo aveva preservato dal grigiore e dalla banalità caratterizzante la vita della maggior parte degli uomini.
È facile capire come Papini sia ben presto pervenuto ad una concezione pessimistica della vita[111], dando supporto argomentativo a tale visione con «tutti gli sfoghi dei poeti, le battute dei drammatici, gli incisi degli oratori, i moniti dei predicanti, gli aforismi dei mezzi e degli interi filosofi dove fosse, velata o no, dimostrata o lamentata l’inutilità dell’esistenza, il sopravvento del male, la tristezza dei sogni interrotti, delle illusioni lacerate; l’accoramento del passato irritornabile»[112].
Nota comunque lo scrittore:«l’assettatura del mio sistema pessimistico –fondato sulla legge che sono necessariamente irraggiungibili i fini più desiderabili – fu accompagnata da gioie intellettuali quasi nuove per me»[113]. Lettore accanito di Schopenhauer si rammaricava della sua ostilità al suicidio universale che era diventata invece per lui una vera e propria idea ossessiva: «il pensiero fisso di dover esser l’apostolo di questa suprema conclusione della vita fu per me, un certo tempo, l’unico pretesto per rimanere ancora in vita. E acconsentii a vivere soltanto colla buffa speranza di far morire tutti gli uomini insieme a me»[114]. La mania di grandezza ed il desiderio di morte alimentavano in dialettica paradossale e sofferta la vita di un giovane che tentava ansiosamente di sfuggire all’isolamento cercando « i giovani, i giovani come me e tanto cercai che nel giro di pochi anni feci parte di gruppi o cenacoli che a me sembrarono, almeno sulle prime, banchetti e paradisi d’intelligenza»[115]. Certo non era facile imbattersi in personalità così composite[116], eppure per il misterioso intreccio della vita si ebbero incontri di varia durata ed intensità[117] in cui peraltro il fattore di coesione era piuttosto negativo che positivo, difatti «alcune simpatie comuni, e specialmente alcuni odi da tutti fortemente sentiti, ci tenevano stretti insieme»[118], e questo aiuta a capire la fine di questo sodalizio[119], più forse che il contrasto su certe questioni specifiche che furono l’occasione e non la causa definitiva della rottura. Un amico solo, quello che doveva essere l’amico di tutta la vita, rimase fedele a Papini più di dieci anni, come ricordava in maniera commossa: «Io non so se tu abbia mai sentito profondamente, in tutta la sua pienezza, che avvenimento grave e bello è stata la nostra lunga fraternità. Per conto mio non so rivedere la mia vita di quegli anni che accompagnato dalla tua figura di laborioso ed eccitabile giacobino. Mi vedo con te contro il vento d’inverno e contro il polverone d’estate; appoggiato sulle spallette dei lungarni a contemplare l’inutile furia della pescaia; disteso sull’erba, sopra una vetta del Mugello… Per quanti sforzi faccia non mi vedo mai solo. Ricordo giorno per giorno la nostra vita comune e nient’altro all’infuori di quella»[120]. E di seguito in una pagina di forte emozione e di rara bellezza ricorda all’amico Prezzolini di quando «s’andava più lontano, sui monti, in cerca di solitudine, di vento e di severità. La strada non pareva mai lunga. Si andava innanzi col nostro passo lesto di camminatori impazienti e invece dei canti ci allietavano il cammino i pensieri e i paradossi. Le salite ci animavano come una battaglia da vincere; le scese ci umiliavano e ci ammutolivano. Si scappava presto dai muri di cinta, dalle siepi di fil di ferro, dai campi rigati a solchi diritti come un quaderno di scuola. Si cercava l’altezza e la libertà; le strade senza la regola delle fratte; i viottoli e le scorciatoie; le macchie spoglie; l’erte sassose che portano alle case disabitate. E quando si giungeva in cima, sotto i muri di un convento povero e chiuso o presso alle pietraie dei castellacci in rovina, si cantava la marsigliese nel gelido silenzio di febbraio dinanzi alle valli deserte e sconsolate, alle montagne lontane, nere di povertà lungo le coste, bianche di luce e di neve verso il cielo arruffato di nuvolaglia e il nostro petto s’allargava sotto l’ansito dei polmoni e il battito del cuore. Quanto s’era lontani dalla città stretta e strepitosa e da tutte le sante leggi dell’umiliazione quotidiana! Ci pareva d’essere soli nel mondo; padroni del mondo; gli unici uomini degni e nobili nel mondo. Soffiava il vento spruzzandoci in viso qualche goccia rimasta sulle foglie ingrinzite; viaggiavano le rigide nuvole bianche nel cielo grande senza colore; si rammaricavano gli alberi percossi senza grazia da un’ondata di tramontana e l’erbe bruciate e impallidite dal gelo aspettavano pazienti la primavera e l’odoroso segreto delle mammole»[121]. Per esplicito riconoscimento di Papini se qualcosa di autentico avevano realizzato, e quindi destinato a rimanere ed a perpetuare il ricordo dopo la loro scomparsa, lo si doveva «a quelle fredde feste d’inverno, a quelle fughe in due verso la terra ignuda e l’altezza pura»[122]. La loro vita, per scelta deliberata, era stata tutta una faticosa salita[123], con andamento eccentrico e provocatorio[124]: «Era la nostra, come la divina giovinezza, un’ubriachezza senza vino; un’orgia senza donne; una festa senza musica e balli. Era l’esultante dissotterramento quotidiano del nostro io, del nostro più intimo e vero io; lo scoprimento, il rifacimento perpetuo della nostra intelligenza di lirici del concetto e di scandagliatori di profondità.
Noi ci siamo scoperti assieme e assieme abbiamo scoperto il pensiero. Io rivelai a te medesimo l’anima tua e tu apristi a me stesso l’anima mia. Assieme abbiamo creduto tutto e tutto negato; abbiamo edificato e diroccato. Accanto, la mano nella mano, abbiamo cercato le verità, divorato i libri, e perquisite le glorie più incontestabili. Nello stesso istante ci siamo liberati dalle fedi dei padri, dagli idoli della tribù, dalle mordacchie dei timorosi»[125].
Lo scrittore riconosce che si era trattata di una amicizia soprattutto intellettuale, estranea ad ogni sdilinquimento del cuore[126], eppure Papini non si rassegna ad ammettere la totale assenza di emotività[127] e, rivolto all’amico, afferma: «Non senti quanta nostalgia in questi richiami, in queste memorie di una felicità irrevocabile? E perché questo passato di letture e di gite e di colloqui … mi commuove più del ricordo di un amore? Perché sento ancora per te una tenerezza mai detta, non manifestata mai, che non ho mostrato neppure una volta ne’ miei atti o espressa nelle mie lettere? No: io non sono affatto sicuro che il cuore non c’entrasse per nulla»[128]. Ma per pudore estremo lascia che la domanda rimanga tale e non venga data la risposta e così, nel mantenimento del segreto, l’amicizia rimane più autentica e pura[129]. Se è vero che ogniqualvolta una generazione si sostituisce ad un’altra si assiste ad un avvicendamento che è anche rottura[130], i giovani che in Papini rinvenivano l’interprete accreditato della rottura generazionale, nel mito del giovanilismo dettero compiuta espressione al travaglio dell’epoca: «Per l’uomo di vent’anni ogni anziano è il nemico; ogni idea è sospetta; ogni grand’uomo è da rimetter sotto processo e la storia passata sembra una lunga notte rotta da lampi, un’attesa grigia e impaziente, un eterno crepuscolo di quel mattino che sorge ora finalmente con noi»[131]. Il mondo e la società appaiono deludenti, la vita degli uomini comuni vuota ed insulsa, tutto appare sbagliato e da rifare[132], e più forte è lo scontento più profonda è la certezza esaltata di essere «i primi uomini del mondo… Soli, innocenti, vergini e puri ci sentiamo il diritto di cancellare i ricordi e la forza di ritessere la realtà su nuove trame e con nuovi disegni»[133].
In una sorta di ebbrezza mistica Papini andava preparando le iniziative editoriali[134] che avrebbero dato concretezza ai sogni di palingenesi universale: «Ci pareva che tutta la vita della città, della nazione, del mondo intero girasse febbrile intorno a noi, nella nostra medesima attesa, e che da noialtri, dal nostro crocchio vociferante di sconosciuti entusiasti, dovesse venir fuori ad un tratto la luce e la fiamma che tutto illuminerebbe e brucerebbe. Come poteva rimaner calma la gente mentre si stava preparando la rivelazione d’idee e d’anime nuove e la distruzione di errori e di uomini vecchi?»[135]. Molti giovani di varia estrazione e variopinta configurazione accorrevano per semplice curiosità o perché sedotti nel profondo dal mito del giovanilismo[136]. In questo clima effervescente e surriscaldato ebbe la sua nascita la rivista “Leonardo”[137], in cui gli aneliti convulsi, le polemiche acri, le speranze e le frustrazioni[138] dei giovani dell’epoca in maniera provocatoria e veemente venivano alla luce[139].
Il limite fondamentale di tale atteggiamento esistenziale lo si coglie in una dichiarazione di Papini: «più forte e visibile dell’amore per i grandi era in me il disprezzo e l’inimicizia per i piccoli vivi»[140]. L’enfatica percezione della sua personalità[141] lo induceva ad approntare un progetto palingenetico a favore dell’umanità, più disprezzata che amata, in chiave soprattutto negativa[142]. Tale scelta, alla fine, risultava esiziale per lo stesso Papini che veniva come risucchiato, al di là delle sue dichiarazioni di segno contrario[143], nelle dinamiche distruttive vagheggiate e tentate[144]. A distanza di tempo, difatti, delineando un bilancio delle spericolate avventure di cui era stato protagonista indiscusso, doveva riconoscere «Avevo fatto me stesso: dovevo fare gli altri. Avevo distrutto: dovevo ricostruire. Avevo disprezzato la realtà: dovevo mutarle e purificarla. Avevo odiato gli uomini: dovevo amarli, sacrificarmi per loro, renderli simili a dei»[145]. Il sogno della palingenesi rimaneva[146], ma il progetto redentivo vedeva ridimensionata la componente polemica e distruttiva sin allora prevalente difatti, in tale ultima impostazione, si trattava soprattutto di «guidare gli uomini verso questo regno, annunziare questa nuova età, realizzare quest’epoca… disgustare e allontanar gli uomini dalla vita presente e preparare e render visibile la superiore e soprumana vita»[147].
5. Il mito del giovanilismo nel pensiero e nella vita di Giuseppe Prezzolini
Del mito del giovanilismo, della sua seduzione, del suo diffondersi nella cerchia dei giovani più sensibili alle istanze dell’epoca Giuseppe Prezzolini offre una testimonianza attendibile e significativa[148] nella sua memorialistica quando, a più riprese, documenta l’accaduto o ricorda in maniera sofferta e critica come in tale mito la sua generazione abbia dato espressione alle inquietudini ed alle speranze di una generazione: «mi tornò a mente il tempo di Papini, quando si dava importanza ai <giovani> - discorsi ai <giovani> - <noi giovani>, anzi <noi giovini> - e forse io son ancora attaccato a questo pregiudizio o superstizione»[149]. Prezzolini individua con esattezza nella sua vicenda personale la presenza di certe movenze tipiche della condizione giovanile, cioè della fantasticheria e del sogno[150] che rendono plausibile la costruzione di un mondo idealizzato ed alternativo[151] rispetto a quello reale in cui si opera e si vive sino ad affermare chiaramente: «io mi sentivo nuovo non volevo appartenere al passato»[152], estendendo poi tale sentimento ai giovani più inquieti della sua epoca «nuovi e senza antenati, da tutto sradicati, senza impegni e senza obblighi verso nessuno, soli di fronte all’avvenire»[153].
In tale analisi Prezzolini coglie bene un aspetto decisivo del mito del giovanilismo ossia il rifiuto del padre[154], simbolo del passato e della tradizione che non hanno più niente da insegnare. Più tardi si renderà conto dell’errore in cui lui ed i suoi compagni di avventura erano incorsi: «avevo infilato una strada sbagliata e con indomabile cocciutaggine volevo che mi portasse con un lungo giro ozioso là dove ero già arrivato: ad affermare che non vi son legami tra padri e figli, che il mondo ricomincia da capo ogni generazione, che i doveri verso i genitori sono infondati perché non abbiamo noi chiesto di venire al mondo»[155]. L’anelito di perfezione che lo animava lo aveva indotto ad elaborare paradigmi ideali di vita che lo avevano portato alla critica spietata ed al rifiuto totale della realtà esistente[156], ed inoltre l’idealismo giovanile, del tutto privo di acribia, lo aveva portato al rifiuto di ogni tentativo concreto di calare nella realtà i progetti alternativi atti a migliorarla sino a condurlo «vicino al suicidio»[157]. A distanza di anni dovrà riconoscere come: «poche energie posson essere così pericolose come l’intelligenza sbandata, che si crede padrona del mondo, senza rispetto di tradizione e luce di legge morale, ma quel che feci, con inaspettate conseguenze tragiche, mi fece avvedere degli altri e del loro dolore: esserne stato sopraffatto mi salvò, ed anche certi sentimenti depositati in me dalla famiglia, ch’io non ero riuscito a scoprire e a distruggere»[158].
In tale spericolata ed ammaliante avventura l’esasperazione della componente individualistica aveva favorito il totale scollamento dalla realtà e dalla vita[159]. Prezzolini retrospettivamente riconoscerà come sia stato «uno dei momenti più belli della mia esistenza sentirmi trasportare nelle sue isole di sogno»[160]. Il sentimento fondamentale in questa fase della vita lo induceva ad una sorta di disprezzo per gli uomini comuni[161], per la massa[162], del tutto estranei a quel desiderio di grandezza tipico della condizione giovanile[163] ed enfatizzato al massimo nella sua personalità che, unicamente a contatto con le forze primigenie della natura, rinveniva la sua estrinsecazione più genuina ed appropriata per cui: «Vento, sentieri e cime son simboli del nostro vivere libero, selvaggio, ribelle. Li cerchiamo nelle passeggiate che facciamo per i colli vicini a Firenze. Non aver nessuno più alto di noi. Nessuno che ci sia stato prima di noi»[164]. Nel sofferto riepilogo della sua vita Prezzolini ricorda come «per anni mi son condotto nella vita con fede in valori fuori della storia e della realtà, puro d’interessi pratici, sociali, terreni, puro di ambizioni, di desideri di guadagno, di vanità»[165]. Eppure tale tensione ideale non si era poi concretizzata in qualcosa di reale e di fattivo[166], anzi l’aver «desiderato vivere secondo verità e giustizia, qualche volta anche secondo amore e carità»[167] lo aveva reso poi egoista e disilluso dinanzi alle impietose repliche della vita refrattaria ad ogni idealità e così, quasi per contraccolpo, da un estremo idealismo lo scrittore nella sua maturità era passato ad una sconsolata visione della vita[168] estesa per meccanismo proiettivo consolatorio alla gioventù dell’intera epoca[169]: «Credo che tutta la gioventù del mondo senta nello stesso modo e sia disillusa, incerta, stanca»[170].
In maniera lucida e disincantata Prezzolini riconosceva che può esser molto pericoloso suscitare nei giovani grandi ideali, invitare ad una vita eroica, poiché la società nel suo normale decorso non ne ha bisogno e così i giovani più sensibili ed entusiasti vanno incontro alla più amara delusione sia per l’incapacità di tradurre gli ideali nella vita, sia per l’ostilità generalizzata verso tali progetti esistenziali[171]. Si comprende pertanto come Prezzolini esasperando la componente onirica tipica della condizione giovanile si fosse come cristallizzato in essa al punto di rendersi del tutto estraneo alla vita ed alla società umana. Se è pur vero che tramite l’esperienza onirica si colgono i limiti del mondo reale e ci si colloca in posizione autonoma rispetto ad esso[172], ove ci si risolva senza residui in tale movenza psicologica, si blocca il processo di maturazione della personalità che implica, pur con tutti i suoi turbamenti, la riconciliazione con la vita[173]. A tal fine l’incontro con l’opera di Croce fu decisivo per Prezzolini difatti: «le opere del Croce finiron per persuadermi, o piuttosto vennero incontro ad un mio smarrimento e turbamento con un’offerta di vita nuova che non trovavo altrove, e certamente sentii dentro di me una fede nella vita, che non avevo trovato prima. Dico questo perché è probabile che altri, che furon giovani al tempo mio, abbian avuto simili sentimenti. Le filosofie costruttive, come quella del Croce, non son che sostituti della religione e della teologia e intendono consolare l’uomo»[174].
Nella filosofia di Croce, trascrizione secolarizzata della concezione cristiana, la storia va assecondata senza resistenze e vacui sentimentalismi[175]. Prezzolini ricorda comunque di aver letto le opere di Croce e di averle inizialmente criticate «vari anni prima di considerarlo come il maestro della mia vita; le avevo criticate dal punto di vista che dava al sentimento, al misticismo, alla scelta personale, un valore maggiore che alla ragione, alla storia e alla vita sociale. Noi cercavamo soluzioni personali e Croce credeva di stabilire equazioni universali»[176]. Di seguito la sua valutazione divenne più benevola e così «mi avvicinai con maggiore simpatia al Croce. Cercai di assorbire Croce dentro le dottrine mistiche e fui invece assorbito da quelle di Croce»[177]. In consonanza con la sua concezione di vita Prezzolini afferma: «il motivo principale della mia adesione al Croce furono, come credo che sempre accada, ragioni di sentimento e di morale. Le dottrine sono sempre il frutto di un motivo personale; sono il vestito e non il corpo delle filosofie»[178]. Per suo esplicito riconoscimento «la filosofia del Croce arrivò al punto giusto di una crisi personale, nella quale mi trovai. Ero in quello stato di disperazione che resta dopo che si è tentato qualche cosa che ci fa rimorso, e per di più non si è stati capaci di arrivare fino al fondo del male … Oggi lo scrivo con un certo sorriso, ma a quel tempo mi parve che fosse necessaria una riparazione al male che avevo ideato e fatto, anche incompiutamente; e nella filosofia del lavoro del Croce trovai una specie di morale di redenzione che mi soddisfece… Con la sua dialettica, con la sua accettazione del momento del male in quello del bene, con la sua conciliazione degli opposti, con la sua apologia dei fatti compiuti, la filosofia hegeliana del Croce mi offrì il ponte delle riparazioni»[179].
Nella riflessione filosofica di Croce Prezzolini trovò provvisorio rimedio all’angoscia esistenziale che gli rendeva insopportabile la vita[180]. Il sodalizio intellettuale doveva però ben presto incrinarsi[181]. Prezzolini si rese conto che nel suo ammirato maestro i « gusti personali, le simpatie e le antipatie, le fantasie e le inclinazioni contavano assai. Non soltanto la opacità della sua critica di alcuni autori, ma anche vere e proprie cacofonie col resto del suo pensiero apparvero anche più evidenti a chi, come me, viveva lontano da lui»[182]. Nello storicismo del Croce si annidava inoltre un’aporia fondamentale per cui tra pensiero e vita si delineava una antinomia insolubile ed allora «com’era possibile che un uomo potesse pensare in due modi differenti, prima con l’imparziale filosofia che deve spiegar la logica e la ragione intima dei movimenti storici, e poi con la parzialità dell’uomo di passione? »[183].
In effetti il suo pensiero induceva alla ratifica ed alla giustificazione di quanto nella storia si verificava e soprattutto aveva successo[184], ed in tale ottica appariva difficile la critica ed il rifiuto di quanto si era effettuato[185]; del resto, non senza ironia, Prezzolini aveva fatto notare a Croce che «i suoi scritti fino al fascismo avevano, sia pure involontariamente, preparato la strada al fascismo, gettando in noi giovani i germi… del disprezzo delle democrazie e dei principi sui quali si fondan le democrazie»[186]. Per coerenza, Croce avrebbe dovuto avvalersi dello stesso paradigma storico giustificativo per comprendere quanto stava avvenendo in Italia[187] ed invece Croce riteneva «che i criteri adoperati per giudicare delle situazioni del passato non fossero più validi arrivando al presente»[188]. La tragedia della guerra avvalorò in Prezzolini il recupero del pensiero agostiniano «con il suo senso della perversità umana perenne ed irredenta (homo vulneratus) più che l’ottimismo del Croce il quale si poneva al servizio dei grandi conquistatori del mondo»[189]. Il fatto che il Croce abbia protestato contro le violenze e le ingiustizie della storia non elimina la contraddizione in cui veniva a trovarsi e così «per essersi lasciato prendere dalla passione del politico egli allora perdette la sua facoltà di pensatore»[190]. Del resto la critica di Prezzolini era formulata nei termini delle indicazioni crociane che invitavano a diffidare di tutti coloro che, competenti in un determinato ambito disciplinare, s’arrogavano pretese di valutazione in contesti estranei alla loro preparazione specifica[191]. Se la filosofia crociana aveva liberato il giovane Prezzolini dal fantasticare tumultuoso che l’aveva reso ostile alla vita, con il suo giustificazionismo assoluto giungeva ad avvalorare l’accettazione totale della storia anche nelle sue manifestazioni più dolorose e conturbanti e così «quando scoppiò la grande tragedia, l’ottimismo storico di Croce mi parve una barchetta di carta lanciata per salvare dei naufraghi in tempesta. Non c’era nulla nel mondo da capire o da giustificare, ecco tutto. Sentii che gli uomini erano chiusi dalla stretta d’un universo fisico inconoscibile al fondo e indifferente, e dalla oppressione di una storia che nasce da ferine ambizioni. La filosofia del Croce, che era stata per me strumento di resurrezione e fede di azione, era svanita. Non mi provai nemmeno ad attaccarmi a una barchetta di carta»[192].
Commisurando la filosofia crociana alla realtà Prezzolini si rese conto di tutti i limiti del giustificazionismo storicistico che, in maniera puramente verbale, eliminava gli aspetti dolorosi ed inquietanti della vita tramite una comprensione funzionale alla ratifica ed alla legittimazione dell’accaduto. Il mito del giovanilismo da cui Prezzolini aveva preso congedo, dopo averne sperimentato nel bene e nel male tutte le implicazioni, tornava a nuova vita nell’incipiente fascismo[193]. A suo parere il successo di tale movimento era spiegabile anche attraverso la dialettica giovinezza-fascismo, vecchiaia-socialismo[194] difatti: «oggi le simpatie di tutta la classe dirigente e di una grande quantità … degli studenti vanno verso il fascismo, come venti anni fa andavano verso il socialismo»[195]. Lo scrittore non si limitava alla constatazione del fatto e, in una analisi comparativa del mito del giovanilismo, individuava il motivo conduttore e le varie trasformazioni cui si era adattato: «Se la generazione dannunziana fu la generazione della Bellezza, se quella della Voce fu la generazione della Critica, la generazione nuovissima potrà essere chiamata dell’Avventura. Il numero del gioco e del rischio sembra presiedere alle sue sorti… Cresciuti fra il disordine della guerra e le passioni della lotta civile, la vita fisica ed esterna hanno ripreso ad avere un senso, che non avevano per la generazione di prima»[196]. In tal senso, adattandosi ad una definita temperie storica e dando voce allo spirito ed alle istanze caratteristiche, si profilava all’orizzonte la nuova generazione dell’azione e dell’avventura così qualificata «nata o cresciuta fra il disordine della guerra e attraverso le passioni della lotta civile, la vita fisica e la vita esterna hanno riacquistato per essa un valore che pareva perduto nella precedente. Meno libri e più automobile, meno rimpianti e più decisione, meno programmi ben studiati e più coraggio di rischio e di responsabilità. Ciò che temono i nuovi rappresentanti della gioventù italiana non è di parere ignoranti ma di parere imbelli. Talora l’ignoranza diventa per taluno di essi una bandiera da sventolare con civetteria: si vantano di non sapere, anche se poi la realtà non corrisponde all’affermazione»[197].
Conclusione
Il mito del giovanilismo si afferma in maniera decisa tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nel momento in cui la scienza e la tecnica celebrano il loro trionfo dotando l’umanità di risorse energetiche e di espedienti tecnici sin allora impensabili[198]. In tale clima culturale il passato e la tradizione di cui i vecchi erano esponenti significativi sembrano privi di ogni aspetto positivo e così l’antagonismo giovani-vecchi, ognora presente nella dinamica sociale, si carica di risonanze emotive del tutto inedite. In maniera convulsa e non necessariamente coerente, attraverso il mito, si liquida impietosamente il passato, ratificando il nuovo semplicemente perché tale. Per suo tramite si coagulano le ansie, le insoddisfazioni, le aspirazioni innovative dell’epoca, ma al suo fondo, sotto gli aspetti più vistosi ed appariscenti, si può forse ravvisare il desiderio di eterna giovinezza con cui, nel passato, si era cercato di esorcizzare il timore della vecchiaia e della morte. Tale ipotesi interpretativa trova conferma nell’ultima e vistosa metamorfosi del mito che induce i suoi fautori ad avvalersi di tutti gli espedienti approntati dalla farmacologia e dalla chirurgia estetica al fine di ritardare o bloccare l’invecchiamento organico. Ove tale scelta si radicalizzi in maniera univoca viene trascurata del tutto la giovinezza dello spirito che, a parere di Aristotele, non era retaggio esclusivo dei giovani ed appariva invece istanza fondamentale per tutti gli uomini che avessero voluto vivere in maniera originale e creativa[199].
Nella diffusione del mito del giovanilismo, nelle avventure e disavventure che ne hanno scandito le vicende si può ravvisare l’esistenza di una crisi non risolta dell’uomo contemporaneo, restio a fare i conti con le autentiche esigenze della vita che appaiono comunque ineludibili e decisive nella valutazione critica del mito e delle movenze esistenziali da esso avvalorate. Attraverso il mito la gioventù del primo Novecento ha dato voce allo scontento, al disagio provato nei riguardi di una società per molti aspetti deludente ed estranea alle aspirazioni ideali tipiche dell’anima giovanile. In tal senso il mito ha facilitato la scoperta delle ambiguità e delle contraddizioni presenti nel mondo contemporaneo e così, da tale angolatura, ha svolto una funzione plausibile, troppo limitata però alla fase critica e negativa. I progetti alternativi, i sogni di palingenesi indotti dal mito o sono rimasti nella pura condizione onirica o, se realizzati, hanno ricevuto le aspre smentite della storia restia ad adempiere ogni vagheggiamento ideale astratto.
[1] ARISTOTELE, Retorica, Bari 1973, 1938 a-b, p.97-99: « I giovani vivono la maggior parte del tempo nella speranza; infatti la speranza è relativa all’avvenire; così come il ricordo è relativo al passato; e per i giovani l’avvenire è lungo e il passato è breve; infatti all’inizio del mattino non v’è nulla della giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto… Essi non sono di cattivo carattere, ma di buon carattere, perché non hanno ancora visto la malvagità; e sono facili a convincersi perché non sono stati ingannati molte volte… sono riscaldati dalla natura anche per il fatto che non hanno subito molti insuccessi… e sono magnanimi; perché non sono stati ancora umiliati dalla vita, anzi sono inesperti della ineluttabilità».
[2] ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Bari 1973, I, 1094 b-1095 a, p.5: «Perciò della scienza politica il giovane non è un discepolo adatto; giacché egli è inesperto della vita pratica… Inoltre, essendo incline alle passioni, ascolterà invano e inutilmente, poiché lo scopo della politica non è la teoria ma l’azione. Non v’è alcuna differenza s’egli è giovane d’età oppure di carattere; poiché questa mancanza non dipende dal tempo, ma dal vivere seguendo le passioni e dal seguire ciascuna di esse».
[3] Nella crisi di fine Ottocento, con l’avvento del pensiero vitalistico ed irrazionalistico, entra in crisi radicale l’idea di progresso che aveva fatto da supporto alle filosofie dell’epoca.
[4] PLATONE, La Repubblica, Milano 1981, l.VII, 1260-1270, p.276: «L’uomo invece più anziano, dissi io, non vorrà partecipare a questa mania, e imiterà chi intenda discutere ed esaminare il vero anziché chi per gioco stia a scherzare e contraddire, e sarà egli stesso più equilibrato, e renderà questo studio più onorato, di inonorato che era». Ed ancora al l.VIII, 980-995, p.306: «Che per esempio il padre si abitui a farsi simile la figlio e a temere i figli, e il figlio a esser simile al padre, e a non aver più vergogna né paura dei genitori, al fine d’esser libero; che il meteco si agguagli al cittadino, e il cittadino al meteco, e così il forestiero.
- Così infatti avviene, disse.
- Queste appunto, diss’io, e altre piccolezze del genere sogliono accadere; il maestro in tale stato teme e accarezza gli scolari, e gli scolari si infischiano dei maestri, e così dei pedagoghi. E in generale i giovani si mettono alla pari dei vecchi, contendendo con loro nelle parole e nelle opere, e i vecchi abbassandosi al livello dei giovani si riempiono di giocosità e di piacevolezza, imitando i giovani per non sembrar d’essere inameni e autoritari»
[5] DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, Firenze 1981, p.192.
[6] Op.cit., p.193: «questo metodo… consiste, in primo luogo, nel lodare la gioventù nella sua totalità, per ogni cosa e in qualsiasi caso, e nell’attaccare con volgarità tutti coloro che si permettono, all’occasione, di valutare criticamente anche la gioventù. Questo metodo è fondato sulla ridicola supposizione che la gioventù sia ancora tanto arretrata e ami l’adulazione tanto da non saper discernere e da prendere tutto per moneta sonante. E in verità si è giunti al punto che ormai i moltissimi giovani… si compiacciono effettivamente delle lodi volgari, esigono di essere adulati e sono pronti ad accusare senza distinzione tutti coloro che non li compiacciono di continuo e ad ogni passo».
[7] Op.cit., p.193: «Quest’altro aspetto del metodo della <difesa della nostra gioventù dinanzi alla società e dinanzi al governo> consiste semplicemente nel negare il fatto, talvolta nel modo più volgare ed impudente: “No – dicono – questo fatto non è accaduto e non poteva accadere; chi afferma che è accaduto, vuol dire che calunnia la gioventù, vuol dire che è un nemico della nostra gioventù».
[8] Op.cit:, p:217.
[9] Op.cit., p.217: «Facilità non è sempre sviluppo, qualche volta anzi significa regresso».
[10] Op.cit. p.689.
[11] Op.cit., p.689.90: « Proprio per imitare i giovani… vent’anni fa erano comparsi degli strani conservatori <rettilinei>, dei vecchi irritati, che non capivano letteralmente nulla degli affari correnti, degli uomini nuovi e della nuova generazione».
[12] Op.cit:, p.693.
[13] Op.cit:, p.741: «Che c’è nel fatto che un giovane che non ha ancora vissuto celi ancora dentro di sé il sogno di diventare col tempo un eroe? Credetemi simili superbe e boriose fantasie possono essere assai più vivificanti e utili a un tale giovane, che non certa assennatezza di adolescente che a sedici anni già crede alla saggissima norma che <la felicità è meglio dell’eroismo>».
[14] Op.cit., p.1168: « Se le nazioni non vivono di idee superiori disinteressate e dall’alto scopo di servire l’umanità, ma soltanto dei propri interessi, esse immancabilmente perdono ogni calore e forza e muoiono».
[15] Op.cit., p.741.
[16] Op.cit., p.697: « tutti questi suicidi sono dovuti a una sola malattia spirituale, la mancanza cioè di un’idea superiore dell’esistenza. In questo senso il nostro indifferentismo, come malattia russa moderna, ha avvelenato le anime»
[17] Op.cit:, p.698.
[18] Op.cit, p. 703: «questi fatti vanno considerati con amore umano e non con boriosa sufficienza. Di questi fatti forse siamo colpevoli noi stessi e nessuna ferrea rigidità ci potrà salvare dalle tristi conseguenze della nostra tranquillità e boria, quando essi si verificheranno».
[19] Op.cit., p.1015: « L’uomo per il momento non può osare di decidere nulla con la superbia della sua infallibilità; non sono ancora i tempi e i termini. Lo stesso giudice umano deve saper di se stesso che egli non è ancora il giudice ultimo, che egli stesso è un peccatore, che la bilancia e le misure nelle sue mani saranno, sono un assurdo, se egli stesso, tenendo in mano misure e bilancia, non si inchinerà alla legge del mistero non ancora risolvibile e non farà ricorso all’unica via d’uscita: la Misericordia e l’Amore».
[20] Op.cit., p.1014.15: «dal momento che il male si nasconde nell’umanità più profondamente di quanto non suppongano i medici socialisti, che in nessuna organizzazione della società sfuggirete il male, che l’anima umana resterà sempre la stessa, che l’anormalità e il peccato derivano direttamente da essa e che, infine, le leggi dello spirito umano sono così ignote alla scienza, così indeterminate e così misteriose che non ci sono e non ci possono essere ancora né medici né giudici definitivi».
[21] Op.cit., p.1209: «(persone) malate appunto della loro salute, cioè di una smisurata sicurezza della propria normalità, e perciò stesso contagiate da una terribile presunzione, da una incosciente autoammirazione che talvolta arriva addirittura all’infallibilità».
[22] Op.cit., p.1350.
[23] R.WOHL, 1914 Storia di una generazione, Milano 1984, p.336: «Nella seconda metà del XIX secolo il termine era usato sempre più spesso per designare i coetanei e soprattutto per indicare la dicotomia fra la generazione più vecchia e la <gioventù>, e da questo deriva il diffondersi di espressioni come <la generazione del futuro>, <la nuova generazione> e la <giovane generazione>. Tale trasformazione nell’uso della parola è fondamentale in quanto sta ad indicare che la società è divisa in settori o mondi definiti in base all’età e prospetta l’esistenza di un gruppo a sé chiamato <gioventù>».
[24] Op.cit., p.337.
[25] Op.cit., p.339: «Anche se nella maggior parte dei casi gli adulti creavano per i giovani delle organizzazioni per timore della delinquenza o per esigenze di ordine sociale, queste sfuggivano talvolta al loro controllo e davano origine a delle rivolte contro la vecchia generazione in nome della gioventù».
[26] Op.cit., p.341.
[27] Op.cit., p.354.
[28] Op.cit., p.355.
[29] Op.cit., p.356: «Quando la guerra arrivò davvero in Europa, fu interpretata da chi apparteneva al mondo della cultura come l’ora della redenzione, un rito purificatore e un’occasione, forse l’ultima, di fuggire da una civiltà che stava cadendo in rovina».
[30] Op.cit., p.357: «Questo non significa che a subire le conseguenze della guerra fossero soltanto coloro che erano nati fra il 1880 e il 1900, tutti gli abitanti dell’Europa sperimentarono la militarizzazione della vita e del linguaggio, la progressiva riduzione della libertà individuale e delle differenze sociali, lo sfacelo della vita economica, l’esaurimento
delle ricchezze, le privazioni dovute alla mancanza di cibo, lo sviluppo del collettivismo e della burocrazia, il crollo del sistema internazionale e il prorompere di enormi quantità di aggressività e violenza represse fino a quel momento».
[31] Op.cit., p.358: «Persino Omodeo era costretto a riconoscere che se la guerra aveva <elevato ad altezze sublimi degli spiriti superiori> come i fratelli Garrone, aveva anche <spaventosamente moltiplicato le occasioni di crudeltà e vigliaccheria>. Uccidendo i migliori e i più generosi, distruggendo le speranze, diffondendo il cinismo e il <delirio dei Nibelunghi> fra i più giovani, aveva trascinato un’intera nazione nell’abisso del nichilismo e per causa sua la civiltà aveva fatto un grosso passo indietro».
[32] Op.cit., p.359-60.
[33] Op.cit., p.363.
[34] Op.cit., p.365.
[35] Op.cit., p.366, ed ancora alla nota 29 p.366: «Nel 1922 Drieu la Rochelle aveva definito la sua generazione come quei giovani che si trovavano in una trincea, isolati dal mondo, per gentilezza e odio nei confronti di se stessi, da una cortina di ferro. Nelle retrovie, i vecchi si sentivano soli con le proprie idee. Questo è tutto ciò che ci rimane, questa realtà grandiosa: lo spirito di corpo, di squadra, come potremmo chiamarlo?... Noi siamo una generazione».
[36] Op.cit., p.369.
[37] Op.cit., p.375: «Gli intellettuali appartenenti alla generazione che aveva vissuto la guerra erano affascinati dalla figura del viaggiatore. Si consideravano pellegrini erranti senza meta».
[38] Op.cit., p.378: «i viaggi erano fonte di sostentamento per una vita spirituale che non era capace di far leva sulle proprie risorse e che per la disperazione era costantemente sull’orlo del suicidio. Per dei giovani soffocati dal peso del proprio io e la mancanza di speranza della propria epoca, ciò costituiva una liberazione da se stessi. Se uno continuava ad andare non aveva nessun bisogno di sistemarsi in modo definitivo o impegnarsi nei confronti di una donna, un amico, una carriera o una causa specifica… Partire significava <confrontare i propri sogni con il mondo>. Era <il desiderio insaziabile di conoscere sempre qualcosa di nuovo>. Era <domani, eternamente domani>. Era un modo per fuggire di fronte alle decisioni e a se stessi. L’elemento fondamentale di questo tipo di viaggio non era la destinazione ma il fatto stesso di partire. <Dove vai?, chiede la gente di solito a chi sta per andare via. Dove? Che importanza ha?... Per me viaggiare non è arrivare, ma partire>».
[39] Op.cit., p.379: «Dalla persuasione di essere condannati a vagare fra due mondi, <uno morto, l’altro incapace di nascere>, derivava tutta una serie di supposizioni, che ricorrono nei libri e nelle poesie degli anni ‘20». Ed ancora alla nota 42 a p.379: «Tutte le realtà felici del passato che avrebbero dovuto fiorire, maturare, erano state spazzate via. Non c’era nulla a cui aggrapparsi, nessuna sicurezza nella quale la vita potesse radicarsi ed espandersi. La vita non era che un pugno di ombre che sfuggivano dalle mani di tutti, bramose, annaspanti, frustranti».
[40] Op.cit., p.379.
[41] Op.cit., p.380: «Credo che vecchi si nasca, che vi sono persone che sono vecchie a vent’anni e già moribonde nello spirito e nella carne, mentre ci sono dei settantenni… che vibrano e ardono con la stessa virilità dei giovani».
[42] Op.cit., p.380: «La giovinezza non ha nulla a che vedere con l’età (cronologica). La giovinezza ha a che fare con l’atteggiamento. La gioventù vuole migliorare. La gioventù è diffidente verso tutto ciò che trova nell’esistenza e che riconosce di aver fatto male».
[43] Op.cit., p.380.
[44] Op.cit., p.380.
[45] Op.cit., p.380-1: «L’idea di una coalizione su base generazionale… non fu priva di conseguenze pratiche e politiche. I sostenitori della rivoluzione bolscevica se ne servirono per indebolire la direzione dei vari partiti socialisti e provocare una frattura nel movimento operaio europeo, che ancora oggi persiste. Mussolini la giudicò indispensabile per procurare nuovi seguaci al fascismo e ne fece in seguito una delle pietre miliari dello stato fascista. I responsabili delle associazioni di reduci la sfruttarono per mantenere in vita le proprie organizzazioni ed ottenere privilegi per i propri membri. In Francia i capi del governo di Vichy se ne servirono per trovare dei sostenitori del regime, mentre in Inghilterra i partigiani di una politica conciliante e della pace ad ogni costo trovarono vantaggioso presentarsi come gli unici rappresentanti ed eredi degli uomini che avevano combattuto nelle trincee».
[46] Op.cit., p.381.
[47] B.CROCE, Pagine sparse, Bari 1960, p.480.
[48] Op.cit., p.480-1: «voi sapete che c’è in Italia, tra i giovani, un nuovo spiritualismo, che così in critica e in filosofia come in etica, in politica, in poesia, si sente e si proclama vostro avversario.
-C’è? Non me ne sono accorto. E se c’è, dev’essere di quelle cose in germe e in fiore, delle quali non ho voglia di parlare ora, ed aspetto che si maturino, se pure non abortiranno in germe o non sfioriranno in fiore».
[49] Op.cit., p.481: «Ma, veramente non vi siete accorto di questo nuovo movimento di idee? E si tratta veramente di nuove idee?
-No, non me ne sono ancora accorto perché non sono riuscito a cogliere le idee nuove e precise, nelle quali dovrebbe concretarsi».
[50] Op.cit., p.505: «questo sentimento, che è fuggevole perché designa una crisi ed è benefico solo in quanto è fuggevole, si fa patologico, particolarmente nei giovani, quando si cangia in uno stato d’animo abituale; appunto perché, come sentimento di morte… accusa in chi ne è posseduto abitualmente, sotto specie di bramosia infinita, scarsezza di energia vitale. E, in verità, mai nulla di buono ho visto compiere dagli uomini perpetuamente aspiranti a qualcosa di oltreumano… Ormai, nella mia esperienza di clinico, quando alcuno mi si metta a parlare del suo scontento e del disdegno e dei suoi sogni smisurati, formo subito diagnosi di grave debolezza organica, con prognosi riservata. Operosità è amore, e ama non chi ama il sogno dell’amore, ma chi gode e soffre per una creatura particolare. E il disdegno e fastidio, quando non è passaggio ad altro amore, è impotenza ad amare».
[51] Op.cit., p.481.
[52] Op.cit., p.482: «io potrei rispondervi con un motto del Pascoli, uno dei rari motti spiritosi che egli abbia pronunziati, a un giovane scrittore… che protestava e tempestava contro i <quarantenni>.- <Affrettati, caro mio, a far qualcosa… perché i quarant’anni giungono più presto di quanto credi!>».
[53] Op.cit., p.482.
[54] Op.cit., p.482-3: «Ma il movimento dannunziano, che tanti brutti vezzi della letteratura francese o, meglio, dei caffè parigini, ha introdotto presso di noi, ha introdotto anche questo».
[55] Op.cit., p.483.
[56] Op.cit., p.483: «Il mondo della scienza e dell’arte ha ben poco da fare con le annotazioni dello stato civile».
[57] Op.cit., p.483.
[58] Op.cit., p.484.
[59] Op.cit., p.484.
[60] Op.cit., p.484-485.
[61] Op.cit., p.485: «Gli artisti falliti debbono bene attribuire a colpa di qualcuno il loro fallimento, non rassegnandosi, com’è umano, a riconoscere la loro congenita impotenza».
[62] Op.cit., p.485: «e anche in Italia si può notare come si screditino a vicenda, e vedere che chi or son pochi mesi si levava rappresentante dei <giovani>, e aveva intorno a sé una piccola schiera, è già abbandonato e solo, e non trova rifugio né presso <les jeunes>, che aveva chiamati sotto la sua bandiera, né presso i <vieux>, contro i quali aveva indetto una guerra a vuoto».
[63] Op.cit., p.485.
[64] Op.cit., p.485: «mi compiaccio nel riconoscere, qua e là, anche attraverso il camuffamento letterario di moda, in taluno dei partecipanti alle odierne mascherate e chiassate, segni di vivace ingegno e disposizioni al ben fare. Ma temo che quelle mascherate e chiassate manderanno in perdizione anche i meglio disposti, o lasceranno tracce indelebili nei loro intelletti, o renderanno, in ogni caso, asperrimo il lavoro del ravvedimento e della maturazione».
[65] Op.cit., p.485-6.
[66] Op.cit., p.492: «Che cosa c’è di più facile che avere <idee>? A ogni istante, le cose che vediamo, gli uomini che udiamo, i casi che ci colpiscono o ci sfiorano, muovono idee o abbozzi d’idee».
[67] Op.cit., p.492: «E si può anche fabbricarle artificialmente, come usano i poveri di spirito, che comprano a buon prezzo nomea di ingegni originali col prendere le più ovvie massime e rovesciarle».
[68] Op.cit., p.492: «se la gente tiene per fermo che bisogna onorare i genitori, affermano che non bisogna onorarli; se ogni città o villaggio spende cure pel suo cimitero, saltano su a consigliare che i cimiteri dovrebbero essere trasformati in terre da pascolo, da grano o da vigna; se maschi e femmine fanno all’amore, scoprono che il mondo può far di meno dell’amore e ne propongono l’abolizione».
[69] Op.cit., p.492: «il difficile non è avere <idee>, ma avere quell’una idea che domini e metta ai loro posti le altre tutte, e dia coerenza e saldezza all’opera della scienza e dell’azione».
[70] Op.cit., p.492.
[71] Op.cit., p.492.
[72] Op.cit., p.493.
[73] Op.cit., p.493.
[74] Op.cit., p.493.
[75] Op.cit., p.498.
[76] Op.cit., p.499: «Come mai essi che vogliono far credere di aver letto e studiato i miei libri, non si sono accorti che io sono un pensatore <insuperabile>? Pure, questo concetto è uno dei più importanti che io abbia lumeggiato, e non sarebbe dovuto sfuggire alle loro acute intelligenze».
[77] Op.cit., p.499.
[78] Op.cit., p.499.
[79] Op.cit., p.499: «ogni volta che si formula un nuovo problema in qualsiasi parte della filosofia, ogni volta che si ritocca un concetto, si produce un riaccordo generale e un nuovo armonizzamento, e si fa un nuovo sistema, superiore al precedente».
[80] Op.cit., p. 499.
[81] Op.cit., p. 499-500.
[82] Op.cit., p.500: «Come mai, dunque, il mio sistema sarebbe stato, ora, a quanto suonano le voci funeree, <superato> … la mia filosofia è sine titulo: è o vuol essere, un frammento della perennis philosophia, che è perenne perché si rituffa sempre e si rinnova nelle onde della vita…Né, purtroppo, la mia concezione apre la vista e la speranza su grandi conquiste rivoluzionarie da compiere, nelle quali uno si possa pompeggiare come eroe; ma consiglia l’opera assidua e modesta, il contentarsi di comprender meglio e far meglio comprendere gli altri».
[83] Op. cit., p.500.
[84] B.CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1967, p.227-8.
[85] Op.cit., p.228.
[86] Op.cit., p.228. «Se si ha voglia di rivedere questo spettacolo da caleidoscopio, si ricerchino le riviste di quel tempo, particolarmente le giovanili, più sensibili alla moda e per tal riguardo più significanti, il Leonardo, che venne fuori a Firenze dal 1903 al 1907, Prose, L’Anima, fino via via a Lacerba, opera in parte dei medesimi scrittori, che fu del 1913-14. In tutte esse, pure tra qualche tentativo di raffrenarla o di opporvisi o di temperarla mercé pensieri di diversa origine, si vedeva chiara la conseguenza che è propria dell’irrazionalismo».
[87] Op.cit., p.229.
[88] Op.cit., p.229: «Tolti i freni logici, depresso il senso critico, scossa via la responsabilità che è nella razionale affermazione, il giuoco dell’immaginazione e di una nuova rettorica si presentava agevole e seducente… Né piaceva meno il giuoco dei paradossi, che simulano l’originalità del pensiero o dissimulano l’incapacità di dire qualcosa che valga, e l’invenzione di sempre nuove formule d’arte, e addirittura la proposta di un’arte intrinsecamente diversa da quella prodotta in passato e che negasse la stessa eterna natura dell’arte».
[89] Op.cit., p.229.
[90] Op.cit., p.230.
[91] R.WOHL, Op.cit., p.270-1: «Sebbene fosse troppo impaziente per organizzare il suo pensiero in modo rigoroso o sistematico, Papini riuscì a capire la dinamica del pensiero generazionale altrettanto bene se non meglio di qualsiasi sociologo europeo, ivi compreso Ortega. Non esiste una guida migliore alla psicologia della rivolta delle generazioni in
Europa all’inizio del XX secolo della autobiografia giovanile di Papini, Un uomo finito. Il capitolo 14 del libro ritrae la mentalità di un generazionalista in un modo unico per la sua onestà ed intuizione».
[92] G.PAPINI, Un uomo finito, in Opere, Milano 1977, p.135: «Io non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza. Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell’innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell’universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento».
[93] Op.cit., p.135.
[94] Op.cit., p.135-136.
[95] Op.cit., p.136.
[96] Op.cit., p.136-137.
[97] Op.cit., p.137.
[98] Op.cit., p.137: «E fin da quel principio di vita cominciai a gustare, se non a capire, la virile dolcezza di quell’infinita e indefinita malinconia che non vuole sfoghi e consolazioni, ma che si consuma in sé stessa, senza scopo, creando a poco a poco quell’abitudine della vita interna, egoista che ci allontana per sempre dagli uomini».
[99] Op.cit., p.140: «Mi salvò da codesta solitudine senza luce la smania di sapere. Da quando ebbi conquistato rigo per rigo il mistero del sillabario… io non ebbi piacere più grande né consolazione più sicura del leggere».
[100] Op.cit., p.142.
[101] Op.cit., p.142-3: «Non leggevo soltanto: fantasticavo, ripensavo, rifabbricavo, tiravo a indovinare. Per me quei libri eran tutti sacri e pigliavo assolutamente sul serio tutto il loro contenuto. Non distinguevo tra storia e leggenda, tra fatto e fantasia: i caratteri di stampa erano ai miei occhi i testimoni infallibili della verità».
[102] Op.cit. p.144.
[103] Op.cit. p. 147.
[104] Op.cit., p.148: «Allora volevo saper tutto e non sapendo da che parte incominciare sfarfalleggiavo attraverso la conoscenza, coll’aiuto di manuali, dizionari, enciclopedie. L’enciclopedia era il mio sogno più alto, l’ideale più caro – il libro massimo e perfettissimo».
[105] Op.cit., p.160.
[106] Op.cit., p.161.
[107] Op.cit., p.162-3: «Ero vestito male; ero brutto; ero bianco in viso; avevo l’aspetto severo del malcontento: sentivo che nessuno mi amava e poteva amarmi… Tutta la vita bella mi pareva negata: io solo, io senza amore, io senza fortuna. E quella gente non si dava pensiero di me o mi disprezzava e andava alla sua passeggiata, tranquilla, senza saper nulla delle mie tristezze di adolescente povero e pensoso».
[108] Op.cit., p.163: «E allora, ad un tratto, mi rivoltai… Voglio essere più di voi, più di tutti, sopra a tutti. Son piccino, povero e brutto ma ho un’anima anch’io e quest’anima getterà tali gridi che tutti dovrete voltarvi a sentirmi… E io farò e creerò e penserò e diventerò grande più dei grandi… e gli uomini seri si leveranno il cappello e lo terranno ben alto
sopra il loro capo quando passerò io, io in persona, il grande, il genio, l’eroe».
[109] Op.cit., p.167-8.
[110] Op.cit., p.168.
[111] Op.cit., p.177: «Così accadde a me e rapidamente mi affermai, con tutto l’ardore di una vita ascendente, nella negazione della vita. La mia risposta – la sola possibile allora – alla maligna ingiustizia della sorte e alla fredda e silenziosa inimicizia degli uomini fu la persuasione dell’infinita vanità del tutto, della canaglieria congenita e dell’infelicità perfetta e indistruttibile del genere umano».
[112] Op.cit., p.177.
[113] Op.cit., p.178.
[114] Op.cit., p.179.
[115] Op.cit., p.181.
[116] Op.cit., p.183: «Da quelle giovinezze oscure, affannate, ubriacate dai sogni e dilaniate dai dubbi sarebbero usciti i geni di domani, i conquistatori dell’eternità, i donatori felici delle bellezze nuove. Ed io volevo essere uno di loro, sentirmi compagno, fratello in questa sotterranea ricerca della bellezza e della fortuna».
[117] Op.cit., p.184-5: «V’era in tutti noi la ferma speranza d’esser designati alla gloria e alla grandezza: Ognuno di noi ammirava l’altro e n’era ammirato. Non c’erano invidie o rivalità. Si voleva essere ingannati e sognare: una delle frasi più ripetute fra noi era <che bisognava bere a gran sorsi nella coppa della chimera>. Cosa poi fosse e in che consistesse
questa famosa chimera di cui si faceva un così smoderato uso domenicale non ho mai potuto sapere…Ma non sentivo in nessuno dei miei nuovi amici la passione per il pensiero nudo, l’abitudine del ragionamento, il gusto e la pratica della schermaglia logica. E dopo un paio d’anni avvenne il mio tradimento: - li abbandonai a poco a poco per altri compagni,
per altre orgie cerebrali».
[118] Op.cit., p.185.
[119] Op.cit., p.185-6: «Alla fine, però, si cominciò a punzecchiare e a pungere; dall’ironia si passò presto al sarcasmo, all’ingiuria, all’assalto. La compagnia finì misteriosamente: ci fu per aria un sospetto tragico. Finalmente si venne d’accordo alla separazione assoluta e perpetua… ci separammo senza addii né strette di mano».
[120] Op.cit., p.187-8.
[121] Op.cit., p.188-189.
[122] Op.cit., p.189.
[123] Op.cit., p.190: «La nostra vita era e voleva essere una salita. Tutti i nostri sogni li abbiamo sognati in alto, coi piedi nell’erba fradicia e il profumo delle ginestre nell’aria. Tutti i nostri progetti di libri, i nostri programmi di giornali, i nostri piani di azione li abbiamo concepiti e sviluppati lassù, a qualche centinaio di metri sopra il mare e sopra la gente».
[124] Op.cit., p.191: «Ti rammenti come si passava muti e sdegnosi, chiusi e diritti nei mantelli neri attraverso le tavolate delle famiglie per bene, accanto ai filistei solitari che crepavan di noia ipnotizzati dai bicchieri vuoti, sotto lo sghignazzio dei giovinotti eleganti e volgari come servitori?».
[125] Op.cit., p.191-2.
[126] Op.cit., p.192: «La nostra amicizia non fu come tutte le altre. Tutta cerebrale, tutta intellettuale, tutta filosofica».
[127] Op.cit.., p.192: «ebbe pur nondimeno gli ardori e le tempeste degli attaccamenti del cuore. E non son neppur sicuro che il cuore non c’entrasse per nulla. Io non sono soltanto un cervello».
[128] Op.cit., p.192-3.
[129] Op.cit., p.193: «Tu solo, forse potresti dirlo, ma non te lo chiederò. Non voglio che tu lo dica: sarà un altro di quei segreti (l’ultimo!) che rendevan più pura la nostra virile fraternità».
[130] Op.cit., p.205: « Ogni volta che una generazione s’affaccia alla terrazza della vita pare che la sinfonia del mondo debba attaccare un tempo nuovo. Sogni, speranze, piani di attacco, estasi delle scoperte, scalate, sfide, superbie».
[131] Op.cit., p.205.
[132] Op.cit., p.206: «Il mondo ci sembra mal congegnato; la vita senza armonia e senza grandezza; il pensiero ci fa l’effetto di una furiosa intenzione rimasta a mezzo, di un gesto appena iniziato, di un disegno nero e confuso che nessuno ha svolto in affresco».
[133] Op.cit., p.206.
[134] Op.cit., p.215: «Tutte le sere, per due o tre ore, ci s’ubriacava con questo sogno di parole e di carta e null’altro ci sembrava più importante intorno a noi e tutto quanto si scorgeva e giudicava in vista del giornale imminente».
[135] Op.cit., p.215.
[136] Op.cit., p.215.
[137] Op.cit., p.223: «Si voleva fare un giornale assolutamente diverso dagli altri e che fosse per tutti i versi, anche nella veste inattuale».
[138] G.PAPINI, Diario 1900, Firenze 1981, p.137: «La mia vecchia ammirazione per Leonardo cresce in me viepiù che lo conosco e lo studio. Egli è veramente l’uomo, l’uomo universale, perfetto: l’eroe… A noi fiacchi ed abulici e pur avidi di tutto, egli appare come l’Energia sempre viva e pronta, come l’Universalità vasta e possente. Noi l’amiamo perché vorremmo esser lui e non sappiamo e possiamo esserlo».
[139] G.PAPINI, Un uomo finito, Op.cit., p.218-9: «Un nuovo accesso di fede mi riaccendeva in quella vigilia d’armi, tra quella gioventù scalpitante e pronta a tutte le avventura. E in quel concitato discorso notturno affermai la nostra piena e cosciente paganità contro le deliquescenze e le vigliaccherie del secolare pecorismo nazareno; e il nostro feroce individualismo… contro la frenesia solidarista e socialista che allora ammortiva gli spiriti della gioventù la quale s’immaginava d’esser rivoluzionaria spengendo il color vivo della propria persona solitaria nel pantano bigio della moltitudine sciocca ed inetta, nella miserabile politica di un’Italia avvilita e umiliata; e infine l’idealismo intransigente, monopsichista di noialtri filosofi pei quali il mondo esterno non esisteva, e la realtà era l’ombra di un sogno, e l’universo un frammento scombinato della nostra mente e le antiche verità bugie a servizio del gregge e soltanto nella contradizione era il certo e nell’atterramento la gioia e nell’assurdo la luce. E sopra a questo caos e a questo cozzo di tendenze, di istinti, e di reazioni avevo piantato, come fiori supremi e bandiere comuni, la fede nell’intelligenza spregiudicata e nella divina virtù della poesia e nel perenne miracolo dell’arte».
[140] Op.cit., p.244.
[141] Op.cit., p.244.: «Nessun uomo – tolti tre o quattro compagni di odio e d’avventura – ritenevo mio pari. Nessuno mi sembrava degno di giudicarmi e neanche di starmi accosto. Credevo sul serio d’esser l’unico spirito senza pregiudizi e paraocchi; senza falsità, sciocchezze e bestialità in testa; il solo capace di sbandire gli inganni e di buttar giù gli usurpatori».
[142] Op.cit., p.244-5-6: «Volevo liberare … quelli stessi che disprezzavo e li disprezzavo appunto perché non eran liberi e appunto perché eran spregevoli volevo liberarli… Ma non volevo destarli colle buone e colle carezze: bensì scotendoli e pigliandoli per il petto e sbattendoli contro il muro perché dall’ira e dalla vergogna di quel rude risveglio venisse fuori uno scatto di energia, una mossa sdegnosa dei virilità… Bastava ch’io sapessi qual’era il tarlo più nascosto d’un uomo perché proprio su quello facessi cadere il discorso accusandolo senza complimenti coram populo».
[143] Op.cit., p.246-7: «Mi feci così in breve tempo una fama di terribile e di strafottente che mi piaceva; fui guardato come un pazzo villano e come l’apostolo della franchezza; come un mascalzone da sfuggire e come un eroe della sincerità».
[144] Op.cit., p.259: «Quand’ebbi conquistato con l’attività capricciosa e temeraria di tre o quattr’anni quel che per uno qualunque (per molti) sarebbe parso un arrivo e una vittoria – avere un nome, esser letto, discusso, seguito, temuto – sentii più profondamente di prima un vuoto vergognoso in me stesso».
[145] Op.cit., p.263.
[146] Op.cit., p.278: «Ma il pensiero fisso era uno solo: sempre lo stesso. Render possibile, desiderabile, prossima la palingenesi del genere umano, la trasfigurazione dell’uomo-bestia, l’avvento universale dell’uomo-dio. Ma era necessario, prima di tutto, che anche gli altri cominciassero a sentire quel che sentivo io, e che il disprezzo, lo schifo, il rossore, il terrore dell’ambigua e anfibia vita nostra fosse in tutti quanti come in me. E allora pensai all’arte».
[147] Op.cit., p.266.
[148] G.PREZZOLINI, Diario 1942- 1968, Milano 1980, p.205: «mi tornò alla mente il tempo di Papini, quando si dava importanza ai <giovani> - discorsi ai <giovani> - <noi giovani>, anzi <noi giovini> - e forse io son ancora attaccato a questo pregiudizio o superstizione … E una volta tanto fui profeta, quando guardando dal palco della Associazione della Stampa le prime sedute del Parlamento con il primo gruppo fascista, vidi da una parte delle teste nere e dall’altra (socialista) i capelli brizzolati o bianchi che profetizzavano l’avvenire».
[149] Op.cit., p.205.
[150] G.PREZZOLINI, L’Italiano inutile, Milano 1983, p.15: «Vivevano in quei palazzi gatti, sorci, lucertole, piccioni e passerotti che furono miei amici e mie vittime, e mi dettero passatempo ed esperienze infinite, e mi provvidero d’allegrie e di mestizie e d’interpretazioni avventurose che mi conducevano lontano, in regni disposti dalla mia fantasia incontentabile».
[151] Op.cit., p.79: «La mia natura mi portava alla fantasticheria, ma in essa si rivelavano quelle idee, quei guizzi di sentimento, quelle apparizioni di speranza, che han dato ai miei scritti una durata qualche volta superiore all’effimera apparizione giornalistica».
[152] Op.cit., p.97.
[153] Op.cit., p.98.
[154] G.PREZZOLINI, Diario 1900-1941, Milano 1978, p.26: «Le prime idee d’indipendenza e di rivolta nacquero a Macerata al tempo che finivo la scuola elementare e cominciavo il ginnasio. I miei sogni d’una società segreta di tutti i ragazzi contro i loro genitori… liberarsi dalla tirannia dei padri… uccidere tutti i genitori… le nostre modeste armi ingrandite … l’accordo doveva scoppiare ad un tratto… mi pareva così vero… fatto… che ci credevo anch’io quando li raccontavo al mio compagno di giochi».
[155] G.PREZZOLINI, L’Italiano inutile, Op.cit., p.91.
[156] Op.cit., p.87: «Gran parte del mio sconforto nasceva da un desiderio acuto di perfezione che ho sempre avuto. Mi rappresentavo modelli di fronte ai quali la realtà appariva così inferiore, che mi disperavo di mai ottenerla e abbandonavo anche il tentativo di avvicinarmi ad essa».
[157] Op.cit., p.86.
[158] Op.cit., p.101.
[159] Op.cit., p.102: «Nella splendida avventura l’individualismo mi aveva portato così in alto, che non potevo neppure respirare, non potevo nutrirmi e non potevo amare. Il mondo che mi ero voluto creare non poteva esistere, senza qualche contatto con la realtà, e pure un solo contatto con essa bastava a negarlo».
[160] G.PREZZOLINI, Diario 1900-1941, Op.cit., p.47.
[161] Op.cit., p.44: «Sentimento fondamentale di questo periodo: odio per gli uomini comuni e le folle. Desiderio di mondi isolati, separati, di sogno più che di realtà».
[162] Op.cit., p.44.
[163] Op.cit., p.45: «Vi è in me un desiderio e quasi un bisogno di grandezza, ed accetterei anche il dolore, che pure cerco normalmente di evitare, purché fosse utile a qualche cosa e alto. Invece dovrò dibattermi sempre nel meschino».
[164] Op.cit., p.43.
[165] Op.cit., p.611.
[166] Op.cit., p.611.
[167] Op.cit., p.632.
[168] Op.cit., p.632: «La vita ha fatto di me – o io mi son fatto vivendo – un egoista e un disilluso, che cerca il comodo e la tranquillità. Se volessi vivere secondo coscienza, dovrei abbandonare tutti i beni che mi permettono i pochi piaceri di cui godo; e fin qui non sarebbe troppo; ma dovrei anche gettarmi… Dove? Qui viene il problema e il perché non mi getto. Non c’è una causa che mi paia degna, assoluta. Da per tutto vedo screpolature, difetti, falsità».
[169] Op.cit. p.319: «Parlato a lungo con Papini che è d’accordo con me. Vede un gran materialismo tra i giovani, smania di guadagnar rapidamente, di godimento grossolano,
mancano dell’idealismo nostro di un tempo».
[170] Op.cit., p.632-3.
[171] Op.cit., p.392: «è molto pericoloso suscitar nel cuore dei giovani, che facilmente s’appassionano, l’amore dell’eroismo e della poesia. La società ha bisogno di molti spiriti che riveriscono l’eroismo, ma che non ne siano tentati, perché non ne son capaci, e sappiano che non ci arriveranno mai, e che una paziente vigliaccheria è per loro meglio d’un mezzo eroismo».
[172] Secondo la nota teoria dello psicologo J.Piaget.
[173] Op.cit., p.45: «il mio cuore resta sempre pur quello: vuoto. Incapacità d’amare: ecco la mia malattia. In me stesso nulla; affetti nessuno; e soltanto desideri vaghi e passeggeri».
[174] G.PREZZOLINI, L’Italiano inutile, Op.cit., p.171.
[175] Op.cit., p171: «Nella filosofia del Croce, la Storia non è altro che Domine Iddio, che ci conduce dove sa lei, e noi dobbiamo esser contenti di assecondarla e di far il nostro compito che c’è assegnato (anche a chi è assegnato d’esser ladro o carnefice) e lavorare sul serio senza chiacchiere o sentimentalismi».
[176] Op.cit., p.177.
[177] Op.cit., p.177.
[178] Op.cit., p.177.
[179] Op.cit., p.178.
[180] Op.cit., p.179: «La filosofia del Croce, infatti, è un grande casellario nel quale un Aristotele dei nostri tempi ha messo a posto tutte le cognizioni (salvo quelle della scienza, che è una casella vuota nel suo sistema). Coloro che più tardi di me ne sono diventati studiosi e ammiratori non si accorgono che quella grande mente ha lasciato pochissimo da fare: tutto è a posto in quel casellario, ben condizionato e legato con spago al quale il Croce non ha dimenticato, nel catalogare con un cartellino, di farci un nodo».
[181] Op.cit., p.179: «Ora che ho narrato perché e come diventai crociano accennerò come a poco alla volta mi allontanai da lui, pur continuando a leggerlo con grande gusto, a imparare dai suoi studi e a cercare di spiegare il suo modo di giustificare il mondo alle menti impreparate degli studenti americani che dovettero passare nei miei corsi per ottenere i loro diplomi».
[182] Op.cit., p.180, ed ancora alla medesima pagina: «I suoi oppositori gli rimproveravano i suoi saggi migliori e le sue idee più radicali; io ero colpito da quelle interne parzialità. Mi accadde di notarlo, per citare un esempio, quando lo vidi irritato per le mie riserve sulla lingua poetica del Berchet; il suo patriottismo non gli permise di ragionare; ma ebbi il piacere di avere con me il De Lollis, che la lingua poetica sentiva più di lui e non la mescolava con il patriottismo».
[183] Op.cit., p.173.
[184] Op.cit., p.181. «Avendo letto il Croce, ricordavo che s’era cavato il cappello di fronte a forze storiche altrettanto reazionarie o violente. Non aveva fatto l’elogio della Inquisizione? Non aveva giustificato la funzione nazionale storica delle orde del cardinale Ruffo? Non aveva ripubblicato gli scritti dei conservatori, anzi reazionari, come Silvio Spaventa e Vittorio Imbriani, autore di un Inno alla forca? ».
[185] Op.cit., p.181: «Per un Croce il problema di un Napoleone cattivo, perché aveva fatto ammazzare tanti milioni di persone, non esisteva; era un giudizio non storico, ma infantile. Napoleone andava giudicato per gli effetti della sua azione, lasciando che dei suoi peccati o meriti giudicasse la sua coscienza, o Dio. Ed allora perché non adoperava lo stesso sistema di misura storica per quello che stava avvenendo in Italia, cercando di capir meglio la realtà della lotta?
Si conosce la risposta del Croce, che allora mi fece perdere molta della fiducia che avevo nel suo potere di imparzialità e di sovranità mentale: ossia che egli, storico imparziale fino al 31 dicembre 1915, diventava partigiano dopo quel momento, non so se proprio dalla mezzanotte in poi, o un po’ prima. Ancora mi fa meraviglia che un uomo della levatura ed onestà intellettuale di Croce potesse contentarsi di una situazione così equivoca, e credesse di poter regolare il rubinetto della ragione secondo i bisogni della sua passione politica; e di poter accettare come un modo degno di un uomo di spirito e di scienza che i criteri adoperati per giudicare delle situazioni del passato non fossero più validi arrivando al presente; e di poter dire <fino a questo giorno è il regno della verità, e da quello in poi il giorno dell’arbitrio>».
[186] Op.cit., p.173-4.
[187] Op.cit., p.181.
[188] Op.cit., p.182.
[189] Op.cit., p.183.
[190] Op.cit., p.183.
[191] Op.cit., p.183: «Non paia presunzione questo giudizio; perché è di pura marca crociana. È proprio da Croce che abbiamo imparato a diffidare degli artisti che si mettono a fare i filosofi, degli scienziati che vogliono parlare di arte, e dei professori che voglion dettar legge ai politici».
[192] Op.cit., p.183.
[193] G.PREZZOLINI, Sul fascismo, Milano 1976, p.31: «Il fascismo, con il fare appello alle energie dei giovani, specie della piccola borghesia, che avevano fatto la guerra e dimostrando che i socialisti non resistevano alla violenza, fece riprendere animo e dette una nuova vitalità a questa classe, la quale ora considera il fascismo come il suo salvatore.
Il fascismo ha per sé il fascino della giovinezza; gli scolari di tutte le scuole vi sono attratti da una naturale spinta verso ciò che è eroico e sportivo, da quei giochi di guerra che il Fascismo fa, con le sue parate militari, i suoi costumi, le sue decorazioni, l’aria di spavalderia; da quella specie di guerra che per essi rimpiazza la vera guerra che non hanno fatto e di cui hanno tanto sentito parlare dai loro fratelli maggiori».
[194] Op.cit., p.32: «Quanto più si guarda a fondo il successo del fascismo e tanto più ci si accorge che esso è dovuto essenzialmente alle deficienze dei suoi avversari. La vecchiaia di questi, lo scarso eroismo dei capi socialisti, che non si sono quasi mai dimostrati disposti a sacrificarsi ed a pagare di persona, l’educazione troppo materialista data alle masse,
l’ostilità alla guerra senza rispetto per i dolori e le glorie di essa, ecco altrettante mancanze dei socialisti che hanno aiutato la rapida avanzata del fascismo».
[195] Op.cit., p.37.
[196] Op.cit., p.89.
[197] Op.cit., p.89.
[198] R.WOHL, Op.cit.
[199] ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Bari 1973, I, 1094 b- 1095 a.. Suggestiva al riguardo la poesia di C.BETOCCHI, in Tutte le poesie, Milano 1984, p.595:
Ma è pur vero che ai vecchi,
privati della bellezza,
resta quel segno, nell’anima,
del suo veloce apparire
e sparire, quel solco di cosa
esistita, che sanguina ancora,
grave, nella coscienza,
ma che, goccia a goccia, va poi
lentamente affondando in un quasi,
in un quasi livore
di bianca innocenza…