La fine dell’Occidente - Osservazioni sul “politicamente corretto” (di Alfredo Franchi)
Nell’impostazione storiografica, stando alla nota indicazione di Benedetto Croce, si notano due modalità interpretative antitetiche che si delineano tramite il loro contrasto: quella “moralistica” e quella “storicistica”. Croce era coerente esponente dell’ultimo indirizzo quando asseriva che la storia deve assumere nel suo andamento più tipico la valenza “giustificatrice” e non quella “giustiziera”, cara ai fautori del primo orientamento. Nessuna metodologia è esente da limiti. Nel caso dello storicismo c’è il rischio di ridurre il passato a quanto di positivo ed inevitabile poteva accadere. Ove prevalga l’ansia purificatrice del moralismo, poco o nulla delle vicende occorse si capisce per cui, alla fine, non si consegue la critica effettiva di quanto di negativo si è verificato nella storia. In importanti aree dell’Occidente l’opzione moralistica ha rinvenuto una vistosa espressione nel diffuso paradigma del “politicamente corretto” al cui interno si avvalora, tra le altre cose, il dialogo aperto e senza pregiudiziali con tutte le culture. Al fine di realizzare tale intento la critica radicale della categoria di identità si configura come basilare presupposto. Se è vero che una identità rigida e connotata in maniera etnocentrica impedisce ogni confronto, la sua liquidazione implica la mancanza di vaglio critico delle proposte culturali con la quale ci si commisura, sino a venirne assorbiti senza residui. Tomaso Montanari , in un articolo pubblicato il 10 settembre ne “Il Fatto” , dal titolo rivelatore “L’identità inventata degli italiani” , sostiene che essa non esiste e che tale termine, avendo alimentato “il veleno della retorica identitaria” , è servito a giustificare nefandezze di ogni sorta: il “noi” contro il “loro” , le dottrine del “respingimento”, “i campi di concentramento in Libia”, lo “straniero come nemico” , i “paradigmi culturali connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista”. Al fine di rendere convincente la sua argomentazione Montanari ricorre ad un espediente già stigmatizzato da Aristotele, ossia quello di costruire una teoria dell’identità palesemente assurda e quindi facilmente debellabile. “Se l’identità significa uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta…bisogna dire con chiarezza: no, questa identità italiana non esiste”, afferma Montanari, con il solo inconveniente, nota Galli della Loggia, che nessuno, dotato di senno, ha mai sostenuto una teoria del genere. E, di seguito, articolando la sua analisi critica, continua: “La denunciata mancanza di un’identità unitaria, non vuol dire affatto la mancanza di un’identità (e magari anche di un’identità fortissima). Se ciò fosse vero, del resto, nessun paese ne potrebbe allora vantare una, dal momento che né Spagna né Francia né Germania…possiedono certo un’identità molto meno variegata di quella italiana”. Nell’articolo di Montanari la critica dell’identità è funzionale alla proposta di accogliere tutti dal momento che “tutti siamo provvisori, migranti e stranieri” , che “il nostro noi si è formato grazie ad una somma di <loro> accolti e fusi in questa terra”, e che dunque “l’Italia è sempre stata multietnica e dunque multiculturale” , affermazioni perentorie e non sufficientemente argomentate 1.
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La rivisitazione acre della identità in altri paesi occidentali è sintomatica dello stato d’animo condiviso da chi si colloca all’interno del “politicamente corretto”. In una delle più note competizioni per studenti inglesi – Il Times Law Awards, organizzato da Times con la One Essex Court – quest’anno è stato dato il seguente tema: “bisogna riscrivere la storia in accordo con l’attuale visione dei diritti umani?”. Spencer Turner, risultato vincitore, si è occupato di Edward Colston, la cui statua è presente nel centro di Bristol e il cui nome ritorna più volte in strade ed edifici. Da anni di è aperta un’accesa polemica intorno alla sua figura sino all’ipotesi di procedere nei suoi confronti ad una “damnatio memoriae” perché le sue benemerenze nei riguardi della città non possono far dimenticare che egli è stato detentore del monopolio della tratta degli schiavi per l’Africa occidentale nel XVII secolo. Turner ha sostenuto che Colston, giudicato alla luce dei diritti umani, sarebbe condannato con certezza pur riconoscendo che, di queste storiche ingiustizie, la Bristol odierna e i suoi abitanti si sono avvantaggiati. Egli ha allora suggerito di non distruggere o rimuovere la statua ma di porre alla sua base una targa che, in maniera dettagliata, informi delle sue attività non commendevoli. Per quanto riguarda la scritta, posta sulla vetrata della cattedrale di Bristol, che invita a ripetere i suoi comportamenti, questa andrebbe invece cancellata.
Alcuni studenti di Manchester hanno espresso la loro ostilità nei riguardi di una poesia di Rudyard Kipling affissa ad un muro dell’università poiché lo scrittore aveva simpatizzato con il colonialismo ed aveva avuto atteggiamenti razzisti, ma la liquidazione di Kipling come razzista impedisce di comprendere il carattere complesso e contraddittorio del colonialismo britannico come ha notato Marcello Flores. Del pari ridurre Thomas Jefferson ad uno “stupratore razzista” per avere avuto un figlio da una schiava sino a dimenticare del tutto il ruolo da lui svolto nella costruzione della democrazia americana, significa impedire il dialogo senza fine “tra il passato e il presente” da cui scaturisce la comprensione di quanto è accaduto e di ciò che si verifica oggi. La storia viene commisurata ai valori morali del presente dislocati meccanicamente al passato di cui viene ignorato del tutto il contesto. Usufruendo di tale paradigma, negli ultimi anni, si è giunti alla severa condanna di Cristoforo Colombo “colpevole di aver…, partecipato alla distruzione degli indigeni delle Americhe”. Appena un secolo fa quel personaggio era il simbolo di una possibile integrazione degli italiani in terra americana. Giova ricordare che, di solito, la revisione della storia viene favorita da governi di natura autoritaria. Nel 2017 i National Archives di Londra furono criticati per avere parlato del colonialismo britannico in termini negativi, senza accennare minimamente alla lotta contro la tratta degli schiavi condotta dal deputato William Wilberforce che, nel 1807 dopo una prolungata battaglia parlamentare, fece approvare l’abolizione della tratta. Gli episodi sopra ricordati ci ricordano che la storia necessita di una narrazione completa quale non si verifica ove ci si apra all’influsso del “politicamente corretto” in cui la complessità degli eventi viene quasi a scomparire. Va ricordato che Wilberforce, ormai in pensione, fu contrario alla richiesta di emancipazione femminile con diritto di voto “non ritenendola adatta al ruolo e al decoro delle donne”. L’avere lottato in maniera coerente per i diritti di alcuni non implicava evidentemente un impegno analogo a favore di altri 2.
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Pierluigi Battista scrive che all’insegna del “politicamente corretto”, una sorta di furia iconoclasta, da qualche anno, nel mondo occidentale, si “sta facendo a pezzi la cultura, l’arte e il passato”. A livello verbale è opportuno dire “non vedente” piuttosto che “cieco”, e “operatore ecologico” anziché “spazzino”. Non si tratta, secondo lui, di mera ed innocua ipocrisia verbale: al suo fondo si ravvisa “una malattia ideologica contagiosa e pericolosa” in cui il passato viene condannato in blocco come negativo e peccaminoso. Le opere di Shakespeare sono criticate, come si è verificato in una università americana, perché lo scrittore “non si è conformato con secoli di anticipo alle ingiunzioni della nuova Inquisizione”; in esse potrebbe celarsi “qualche subliminale invito alla violenza sessista, fino addirittura alla legittimazione dello stupro”. Dietro l’attacco alla cultura si cela “un’ideologia, una retorica, un’ossessione, un istinto di sopraffazione che indossa gli abiti virtuosi del Bene, del Giusto”. In una atmosfera lugubre e sospettosa certi accademici fanatici usano la ghigliottina per epurare i testi colpevoli della letteratura universale al fine di proteggere “nuove vittime innocenti” che potrebbero andare incontro ad un trauma dinanzi a testi e immagini che “non condannino la violenza che rappresentano”. A Firenze si è giunti alla manomissione del finale della Carmen al fine di “salvare nuove vittime innocenti” nella convinzione che esso “avesse qualcosa di perverso e diseducativo che avrebbe portato a nuovi femminicidi”. In questa atmosfera di delirio morale, negli Stati Uniti, si è giunti in ambito universitario a rifiutare conferenze e dibattiti aperti al confronto di idee diverse e di concezioni di vita alternative. Il dialogo e il confronto, da sempre al centro della pedagogia illuminata, sono esclusi in via preliminare a vantaggio del “pensiero unico e rassicurante” in cui vengono racchiusi gli ascoltatori Quando l’ossessione censoria riguarda le opere incorporate nell’immaginario occidentale occorre reagire con fermezza, senza pavida rassegnazione nei confronti di una “malattia contagiosa” che può decretare la fine dell’Occidente almeno in senso culturale 3.
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Nella lunga storia del “politicamente corretto” non si colgono fautori illustri con cui confrontarsi in maniera teoreticamente significativa. Molto più famosi sono i suoi oppositori tra i quali spicca il nome di Harold Bloom che ha dedicato le sue energie intellettuali al fine di “arginarne i mostruosi effetti nel campo dell’insegnamento della letteratura”. Nella storia della stupidità umana non c’è mai stato bisogno di un “pensiero articolato e ben riconoscibile” dal momento che tale movenza deteriore si nutre di dicerie anonime e della ottusità di chi pensa di “essere nel giusto” per cieca e immotivata convinzione. Tra gli esponenti del “politicamente corretto” si notano “burocrati accademici e ministeriali, studiosi e studiose di second’ordine, studenti facinorosi e insoddisfatti, genitori con troppo tempo libero a disposizione”. In tale clima di assoluta mediocrità può maturare la convinzione che “Euripide sia un drammaturgo sessista, o che <Cuore di tenebra> sia un racconto colonialista”. Queste idee, palesemente infondate, esercitano una pesante censura nei programmi accademici e scolastici sino a creare serie difficoltà professionali per chi continua a ritenere che la letteratura e le arti sono “un patrimonio umano che non può essere adeguato agli umori e alle frustrazioni del momento”. Frequentemente giungono notizie dall’America e anche dall’’Inghilterra che, del “politicamente corretto” “follia tipicamente americana, è un po’ la filiale europea”, che generano stupore e sconcerto. Una delle più belle fiabe della letteratura mondiale, “La bella addormentata” viene messa in stato d’accusa. Si scopre che il bacio del principe che pone fine al lungo incantesimo è una vera e propria molestia sessuale: il principe non è dissimile, nell’ottica moralistica, dai mascalzoni che drogano e violentano le ragazze in discoteca. Il processo alla fiaba rivela le storture di certa diffusa mentalità contemporanea in maniera esemplare; in particolare si nota l’incapacità di instaurare un corretto rapporto tra passato, presente e futuro. Nota Emanuele Trevi che “tra tutte le espressioni e le immagini credibili del mondo, la fiaba e il mito sono non solo le più antiche, ma corrispondono a necessità primarie non meno impellenti del nutrirsi, del costruirsi una casa, dell’indossare dei vestiti”. Anzi, più del mito che è destinato agli esponenti adulti di una comunità, la fiaba “ha esercitato un ruolo essenziale nella storia umana perché, pur non essendo necessariamente inventata per i bambini, è un elemento necessario del loro accudimento, il primo passo di un lungo e accidentato processo di adattamento alla realtà”. Tramite la fiaba i bambini trovano rassicurazione sull’andamento ciclico del tempo, fonte di angoscia ove la scomparsa della luce non si coniughi al suo ritorno. Le fiabe “nelle loro componenti essenziali, viaggiano fino a noi dalla notte dei tempi, dall’oscurità delle origini. Ogni cosa che vi accade, possiede i caratteri indelebili della necessità e del sacro”. In linea generale di molti eventi e situazioni fiabesche non è possibile la trascrizione concettuale e, quindi, è molto più importante “raccontare una fiaba che capirne il significato”. In epoca moderna La bella addormentata è stata rielaborata al fine di renderla più avvincente “senza pregiudicarne la potenza, l’imperituro nucleo simbolico”. Questo incontro felice tra “la forza impersonale della tradizione e il genio individuale” si è verificato nella scrittura di Charles Perrault e nelle immagini di Walt Disney. In ambedue i casi si è trattato di un processo elaborativo non esente da “modifiche e adattamenti notevoli”. In ogni caso, tuttavia, al di fuori di una loro precisa consapevolezza” sia Perrault che Disney e i suoi collaboratori si sono messi al servizio della fiaba almeno tanto quanto l’hanno utilizzata ai loro fini. Le hanno fornito un sontuoso veicolo per proseguire il suo viaggio nel tempo. Non si sarebbero mai sognati di amputarla del bacio del principe alla principessa addormentata”. L’eliminazione della scena e del gesto “così carico di un sentimento ancestrale della vita e della morte”, e del tutto estraneo a qualsiasi sembianza di molestia sessuale, appare come una prevaricazione arrogante del presente ai danni del passato.
Analoghe considerazioni affiorano alla mente alla notizia che un’opera classica come Le avventure di Huckleberry Finn, in una nuova edizione scolastica, viene sottoposta ad una epurazione lessicale, quasi che il termine <negro>, “usato da un maestro della prosa come Twain negli anni Ottanta dell’Ottocento”, abbia lo stesso valore dispregiativo della parola “scritta sul muro di un bagno pubblico ai nostri giorni”. Nell’esecrabile valutazione, tipica del “politicamente corretto”, si ritiene che “le convenzioni e i valori del presente, anziché stadi di un cammino per natura imprevedibile e transitorio, siano delle conquiste assolute alle quali tutto il passato deve sottomettersi”.
Il “politicamente corretto”, salvo sporadici casi, sembra non avere attecchito nella vecchia Europa mediterranea e in America Latina. Sembra che “la sua furia iconoclasta e moralizzatrice” sia stata frenata negli ambiti culturali ed umani “modellati per secoli dal cattolicesimo”. Forse in chi è estraneo a certi condizionamenti della mentalità puritana non attecchisce la convinzione che “l’uomo d’oggi possa arrogarsi il diritto di giudicare e biasimare il passato, adeguandolo alle sue esigenze”. Di sicuro è difficile immaginare in ambito italiano o spagnolo qualcosa di analogo alla vicenda narrata da Philip Roth nella “Macchia umana”, ambientata nel piccolo campus del New England. A distanza di venti anni dalla sua composizione appare ancora “la più lucida e spietata anatomia dei meccanismi psicologici e sociali della <correctness>” . Nel destino del professore di Letteratura Coleman Silk, prossimo alla pensione, “tutto è assurdo e lugubremente verosimile”. La sua carriera viene compromessa da una citazione di Shakespeare in cui “due studenti credono di riconoscere un’allusione razzista”. I colleghi di Coleman, pur consapevoli dell’assurdità di tale accusa, a poco a poco lo abbandonano al suo destino di “capro espiatorio di una comunità fondamentalmente intollerante, e che si crede tanto più virtuosa se non distingue tra un fatto vero e uno immaginario” . Philip Roth, con una satira spietata e assoluta libertà di spirito, dipinge in maniera perfetta “un mondo ottuso e fiero di sé, dove il solo fatto che una parola, o addirittura la citazione di un classico, possa risultare offensiva per un pelandrone che non ha nulla di più serio da fare che offendersi, basta a condannare un uomo onesto, ad allontanarlo dal suo posto di lavoro, a ipotecare il suo onore”. Non è un caso se queste società in cui si praticano con zelo fanatico false virtù e immaginarie purificazioni siano anche quelle in cui “le disuguaglianze sono più brutali, i legami di solidarietà sono ridotti al minimo, e le esplosioni di violenza e disperazione scandiscono quotidianamente i notiziari”. Per una sorta di corto circuito la vana ricerca di “rappresentazioni edulcorate e rassicuranti” finisce per produrre nella realtà proprio il suo contrario. Il paradigma del “politicamente corretto” elaborato con le più nobili intenzioni si scontra con le impietose repliche della storia 4.
NOTE
1 E. GALLI della LOGGIA, La sinistra e l’identità, p.11, Corriere della Sera 16 Settembre 2018. Importante dello stesso autore, Ora l’identità piace a sinistra, p.13. Corriere della Sera 22 Luglio 2018 : “fa piacere …vedere rimesso in auge quel concetto di identità che per tanto tempo il benpensante progressista ha giudicato alla stregua di qualcosa che andava assolutamente espulso dalla storia e dalla politica per bene.Non si è letto infatti mille volte che l’identità è un concetto che richiama le <radici>, il blut und Bloden nazista, un concetto che sa di atavismo, di tribalizzazione, una dimensione che è fatta per escludere, per discriminare…Ora che si torna a una più sobria valutazione delle cose non c’è che da rallegrarsi…Ma non era il caso di pensarci prima?...Non era il caso di pensarci ogni volta che per anni e anni non si è persa l’occasione per prendere le parti dell’identità, ma solo a patto che fosse di una minoranza, mai se era quella della maggioranza? Non era il caso di pensarci allorché in ogni occasione si è esaltata qualunque <diversità>, qualunque <differenza> contro vere o presunte persecuzioni? Non era il caso allora di farsi attraversare dal dubbio che a forza di legittimare sempre e comunque il punto di vista e gli interessi dei <meno> si finiva inevitabilmente per delegittimare il punto di vista e gli interessi dei <più>…?
2 M.FLORES, Requisitorie moraliste, Corriere della Sera – La lettura 5 Agosto 2018 p.3-4.
3 P.BATTISTA, Ma quale buona causa!, Corriere della Sera – La lettura 5 Agosto 2018 p.3-4.
4 E.TREVI, Quel bacio non è stupro, Corriere della Sera – La lettura 5 Agosto 2018 p.3-4.
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