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ISSN 2532-8913

A Country based on the rule of law (di Margherita Turillazzi)

Quando le manifestazioni popolari, le dichiarazioni sdegnate di uomini politici, di artisti e di attrici “sopravvalutate” nulla possono, non resta che affidarsi alla Costituzione e a coloro che hanno giurato di difenderla.

Nel mese appena trascorso, il primo da Presidente degli Stati Uniti d’America di Donald Trump, abbiamo assistito a un massiccio movimento di contestazione popolare contro le controverse decisioni del tycoon newyorkese. Ma niente ha scosso le coscienze come l’ordine esecutivo del 27 gennaio 2017, il cosiddetto “Muslim Ban”. Per comprenderne appieno la rilevanza storico politica è preliminarmente necessario analizzare lo strumento dell’ordine esecutivo.

Attraverso l’emanazione di tale atto il Presidente fornisce, alle agenzie destinatarie dell’ordine, delle direttive su come gestire una determinata situazione o in relazione all’ambito di applicazione di una specifica norma. Tale strumento viene principalmente utilizzato quando il Presidente ritiene che la particolare urgenza non consenta il ricorso all’ordinario processo legislativo. Appare più che evidente a chiunque abbia, anche sommariamente, seguito la campagna elettorale che ha portato il candidato repubblicano alla Casa Bianca quale sia la “situazione di emergenza” che sta alla base dell’emanazione del “Muslim Ban”. Donald Trump si è infatti più volte violentemente schierato contro i musulmani facendo riferimenti neppure troppo velati alla sua convinzione che essi costituiscano un pericolo per la sicurezza degli USA.

Penso che l'Islam ci odi. [...] C'è un grandissimo odio. Un grandissimo odio. Dobbiamo andare in fondo [alla questione]. C'è un incredibile odio nei nostri confronti. [...] Dobbiamo essere molto attenti. Dobbiamo essere molto prudenti. E non possiamo permettere a gente che ha questo odio per gli Stati Uniti di venire nel nostro paese.[1].

Parole, queste, che per i più rappresentavano solo promesse elettorali in quanto un approccio di questo tipo appariva, di fatto, impraticabile. Ma così non è stato; infatti, dopo più o meno una settimana dal suo giuramento[2] , il tycoon è passato dalle parole ai fatti con l’emanazione di quello che si appresta a diventare uno degli ordini esecutivi più discussi della storia moderna.

Ordine esecutivo avente forza di legge in quanto trae la sua origine da una legge federale, l’Immigration Nationality Act, e che già dalle prime battute lascia intuire le intenzioni del Presidente.

Alla Prima Sezione del documento troviamo infatti subito un riferimento agli attentati delle Torri Gemelle, con i suoi 19 autori materiali che causarono la morte di 2974 persone, e a tutti i crimini collegati al terrorismo compiuti da stranieri che si trovavano negli Stati Uniti con visti di vario genere. Conseguentemente, a detta del Presidente “The United States must be vigilant during the visa-issuance process to ensure that those approved for admission do not intend to harm Americans and that they have no ties to terrorism” )nella concessione dei visti, per proteggere gli americani dalla minaccia degli stranieri.

Dalle Sezioni 3 e 5 emerge, più chiaramente, cosa si intende per restrizioni. È infatti alla Sezione 3 che il documento prevede la sospensione, per soggetti provenienti da Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan e Yemen, del Refugee Admission Program, bloccando, di fatto, l’ingresso nel Paese anche di chi già era in possesso di un visto. Per quanto riguarda la Siria, il provvedimento non si ferma qui, in quanto ai sensi della Section 5 l’ingresso dei rifugiati di tale paese è bloccato a tempo indeterminato. Ciò in quanto i cittadini provenienti da tali nazioni a maggioranza musulmana sono considerati potenziali pericoli per gli Stati Uniti e il loro ingresso è considerato detrimental (dannoso, deleterio[3]). Questa selezione di nazioni appare quantomeno bizzarra o almeno non del tutto coerente con le premesse, poiché nessuno degli attentatori del citato attacco dell’11 settembre proveniva da uno di questi sette paesi “banditi”. In quest’ottica, la scelta di non includere, a titolo esemplificativo, l’Arabia Saudita nella lista appare, per certi versi, singolare , avendo questo Paese dato i natali a ben quindici dei diciannove terroristi[4].

Per i sette Paesi coinvolti non è prevista alcuna eccezione: poco importa che si abbia a che fare con un bambino di cinque anni, la cui madre si trovi magari   in territorio statunitense: se provieni da uno dei paesi inclusi nella lista non passi. Ovviamente il discorso vale per individui di religione musulmana. perché, proseguendo nella lettura della Sezione 5 dell’ordine esecutivo, si apprende che sarà data priorità alle richieste di coloro i quali, pur provenienti dai paesi della lista, professino invece la religione cattolica.

La reazione dell’opinione pubblica, come noto, è stata immediata, sin dai primi giorni gli aeroporti sono diventati teatro di numerose manifestazioni, moltissime persone hanno cercato di far sentire la propria voce esprimendo il loro dissenso nei confronti di quanto deciso da “the Donald”. In mezzo a tutte le polemiche, i dibattiti - ognuno  convinto, a torto o a ragione, di essere nel giusto - una sola soluzione appare, infine, praticabile: In a courtroom, it is not the loudest voice that prevails. It’s the Constitution[5]”. È proprio la Costituzione degli Stati Uniti da cui prende le mosse la causa intentata da Robert “Bob” Ferguson, procuratore dello Stato di Washington il primo ad aver chiesto il blocco del provvedimento, seguito a distanza di breve tempo dallo Stato del Minnesota Alle base del ricorso intentato dallo Stato di Washington vi sono i danni subiti dallo stesso a causa dell’azione del Presidente degli Stati Uniti. Ciò in quanto il ban avrebbe danneggiato non solo l’economia statale ma  avrebbe prodotto anche negativi effetti sociali. Si legge nella lawsuit che, a seguito del Muslim ban, molte famiglie sono state separate e numerosi abitanti di Washington hanno subito danni morali e sociali. Essendo lo Stato federale responsabile della salute e del benessere dei suoi abitanti, il  Procuratore non ha potuto che intervenire proponendo una azione civile nei confronti anche di Trump, citato tra i convenutinella sua veste ufficiale di Presidente degli Stati Uniti.

Ma torniamo al contenuto della lawsuit. Leggendo l’atto troviamo numerosi argomenti a fondamento dell’accusa. Uno di essi è la violazione del Quinto emendamento di cui riportiamo il testo integrale:

No person shall be held to answer for a capital, or otherwise infamous crime, unless on a presentment or indictment of a grand jury, except in cases arising in the land or naval forces, or in the militia, when in actual service in time of war or public danger; nor shall any person be subject for the same offence to be twice put in jeopardy of life or limb, nor shall be compelled in any criminal case to be a witness against himself, nor be deprived of life, liberty or property, without due process of law; nor shall private property be taken for public use without just compensation. Ogni individuo ha dunque diritto ad un pari trattamento di fronte alla legge. Appare quindi palese come la sezioni Sezioni 3 e 5 dell’ordine esecutivo del 27 gennaio 2017 si pongano in aperto contrasto con tale principio di rango costituzionale, prevedendo  un trattamento differenziato e discriminatorio a seconda del paese di origine. Infatti, ai sensi del sovracitato Quinto Emendamento, nessun essere umano può essere privato della propria libertà senza essere sottoposto ad un regolare processo: regolare processo che, evidentemente, non vi è  stato nei confronti dei numerosi immigrati che hanno visto limitare la propria libertà personale in forza dell’ordine esecutivo in questione.

Ma il Quinto emendamento non è l’unica norma di rango costituzionale ad essere stata ignorata da Trump. Il primo dei dieci emendamenti originali [6]del “Bill of Right” statuisce il divieto assoluto di preferire o avvantaggiare in alcun modo una religione rispetto ad un'altra (Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the government for a redress of grievances). Preferenza che però il Muslim Ban accorda, espressamente, alla religione cattolica quando, alla Sezione 5, precisa che”the Secretaries of State and Homeland Security may jointly determine to admit individuals to the United States as refugees on a case-by-case basis, in their discretion, but only so long as they determine that the admission of such individuals as refugees is in the national interest including when the person is a religious minority in his country of nationality facing religious persecution” , in aperta ed evidente violazione della norma costituzionale.

Trump, però, non ha ignorato solo i principi costituzionali alla base della grande democrazia americana , ma anche quanto puntualmente disposto dall’Immigration and Nactionality Act, che vieta qualsiasi discriminazione nella concessione dei visti[7]e consente a chiunque di fare richiesta di asilo[8].

Nel caso di specie si è trattato di una vera e propria presa di posizione dettata dalla preoccupazione per il futuro economico e lavorativo degli Stati Uniti. In tale documento gli “amici” hanno piuttosto illustrato le possibili conseguenze del provvedimento presidenziale sul proprio modello imprenditoriale e sulle proprie attività. E ciò soffermandosi su due profili. In primo luogo, dal punto di vista etico  la politica isolazionistica trumpiana sembra innescare una brusca inversione di tendenza, rispetto al “sogno americano”,  che ha portato ha permesso all’America di diventare una grande  nazione di immigrati, al punto che, come affermato dall’allora senatore e futuro presidente John Kennedy “The contributions of immigrants, can be seen in every aspect of our national life. We see it in religion, in politics, in business, in the arts, in education, even in athletics and in entertainment. There is no part of our nation, that has not been touched by our immigrant background.”[9] (il contributo degli immigrati può essere percepito in ogni aspetto della nostra vita. Lo vediamo nelle arti, nell’educazione, anche nell’atletica e nello spettacolo. Non c’è una sola parte della nostra nazione che non sia stata toccata dagli immigrati). Ma il contributo degli immigrati non è ritenuto rilevante soltanto dal punto di vista sociologico, essi infatti rivestono un ruolo di primaria importanza anche nell’economia e nel mercato del lavoro statunitense. E un provvedimento volto ad impedire la libera circolazione delle persone non può che rendere più difficile e costoso per le compagnie americane il reclutamento, l’assunzione e il trattenere  i migliori talenti mondiali.

Accanto al Presidente e ai Procuratori generali questa storia ha però un altro protagonista, James Robart, giudice federale di Seattle nominato da George W. Bush nel 2004. Robart ha giudicato fondate la causa intentate dallo Stato di Washington e da quella di poco successiva del Minnesota[10] e sospeso quindi temporaneamente l’ordine esecutivo in tutto il Paese. Sta proprio qui l’importanza della decisione del giudice Robart in quanto, fino a quel momento, gli interventi giudiziali si erano limitati a sospendere il bando solo in una parte degli Stati Uniti o in relazione a un singolo caso concreto. Decisione innovativa, quindi,  motivata sulla base del fatto che l’ordine colpisce i residenti degli Stati federali nei settori-chiave dell’occupazione, dell’istruzione, business, famiglia, e non soltanto inibendo la loro libera circolazione. Il pregiudizio causato dall’ordine esecutivo viene ravvisato in un danno per il sistema economico-sociale degli Stati federali, non soltanto per i cittadini.

Ovviamente la reazione dell’Amministrazione non si è fatta attendere. Infatti il Dipartimento di Giustizia ha presentato ricorso dinanzi alla Corte d’Appello federale del nono Distretto con sede a San Francisco, definendo il provvedimento del giudice federale di Seattle “vastly overbroad” in quanto assunto in violazione del fondamentale principio di separazione  dei poteri e violando la sfera di competenze presidenziali in materia di immigrazione ed affari esteri.

A formale sostegno della causa intentata dallo Stato di Washington e del Minnesota si sono mosse 97 tra le principali aziende a livello mondiale, utilizzando a tal fine lo strumento giuridico dell’“Amicus curiae”:  un documento mediante cui chiunque,  non essendo parte in causa ma rischiando comunque di subire un danno per effetto di un determinato provvedimento, offre sua sponte informazioni alla corte giudicante, al fine di far comprendere le possibili ricadute  della propria futura sentenza. Nel caso di specie si è trattato di una vera e propria presa di posizione dettata dalla preoccupazione per il futuro economico e lavorativo degli Stati Uniti. In tale documento gli “amici” hanno  illustrato le possibili conseguenze del provvedimento presidenziale sul proprio modello imprenditoriale e sulle proprie attività. E ciò soffermandosi su due profili. In primo luogo, dal punto di vista etico, la politica isolazionistica trumpiana sembra innescare una brusca inversione di tendenza rispetto al  “sogno americano”, che ha  permesso all’America di diventare una grande nazione di immigrati, al punto che, come affermato dall’allora senatore e futuro presidente John Kennedy “The contributions of immigrants, can be seen in every aspect of our national life. We see it in religion, in politics, in business, in the arts, in education, even in athletics and in entertainment. There is no part of our nation, that has not been touched by our immigrant background.”[11] (il contributo degli immigrati può essere percepito in ogni aspetto della nostra vita. Lo vediamo nelle arti, nell’educazione, anche nell’atletica e nello spettacolo. Non c’è una sola parte della nostra nazione che non sia stata toccata dagli immigrati). Ma il contributo degli immigrati non è ritenuto rilevante soltanto dal punto di vista sociale, essi infatti rivestono un ruolo di primaria importanza anche nell’economia e nel mercato del lavoro statunitense. E un provvedimento volto ad impedire la libera circolazione delle persone non può che rendere più difficile e costoso per le compagnie americane il reclutamento, l’assunzione e il trattenere i migliori talenti mondiali.

Ma le aziende non sono state le uniche a voler dire la loro.

Infatti anche molti docenti delle facoltà di legge, anche le più prestigiose come Harvard, hanno depositato presso la Corte d’Appello, un “Amicus Curiae” poiché la loro posizione di docenti universitari implica ““personal, professional, and academic connections to students, researchers, faculty, and staff from all over the world.”.

Proprio in ragione di questi collegamenti i firmatari dell’ “Amicus Curiae” si sono trovati a dover fornire assistenza ai numerosi studenti non citizen, per far fronte alle possibili conseguenze dell’EO, maturando così una esperienza diretta degli effetti negativi dell’ordine esecutivo, esperienza  che li ha convinti a “scendere in campo” per difendere i diritti dei loro colleghi, studenti e clienti la cui permanenza negli Stati Uniti è stata messa a rischio. 

Ma tra tutti gli “amici”, i più importanti per i due Stati promotori sono stati senza dubbio alcuni degli altri Stati federali[12] che hanno voluto  esprimere il loro dissenso per un provvedimento giudicato incostituzionale.

Dopo un’attenta valutazione degli elementi in suo possesso dalla Corte è arrivato un vero e proprio schiaffo per Trump. L’appello del dipartimento di Stato è stato infatti rigettato , ritenendo il Presidente, sì, competente in materia, ma evidenziando altresì che la previsione di una priorità a favore delle minoranze religiose perseguitate (i cristiani)  violerebbe la previsione costituzionale che vieta, appunto, di favorire alcune fedi a discapito di altre.

Persa ormai la battaglia nelle aule dei tribunali The Donald” ha firmato un nuovo ordine esecutivo che sostituirà il vecchio ma che è stato anch’esso bloccato dal giudice federale delle Hawaii e ancor prima della sua entrata in vigore. Blocco che ha fatto infuriare il Tycoon che ha definito l’intervento giudiziale come un abuso senza precedenti (unprecedented judicial overreach) oltre a minacciare che, stavolta, è disposto ad arrivare fino alla Corte Suprema. Resta da vedere se, ancora una volta, a prevalere sarà la voce della Costituzione.



[1]I think Islam hates us. [...] There's a tremendous hatred there. There's a tremendous hatred. We have to get to the bottom of it. There is an unbelievable hatred of us. [...] We have to be very vigilant. We have to be very careful. And we can't allow people coming into this country who have this hatred of the United States” (da un'intervista condotta da Anderson Cooper, CNN, 9 marzo 2016]).

[2] Avvenuto il 20 gennaio 2017.

[3] Cit. Wordreference Dictionary.

[4] I restanti quattro provenivano, rispettivamente, dagli Emirati Arabi Uniti (2), Libano ed Egitto (1 ciascuno).

[5] “in un’aula di tribunale non è la voce più forte che prevale. È la Costituzione”.

[6] Ci si riferisce ai primi dieci emendamenti della Costituzione del 1787.

[7] Titolo 8, chapter 12, subchapter II, part1 art.1152.

[8] Titolo 8, chapter 12, subchapter II, part1 art.1158.

[9] John F. Kennedy, A Nation of Immigrants 4 (1958).

[11] John F. Kennedy, A Nation of Immigrants 4 (1958).

[12] California, Connecticut, Delaware, Illinois, Iowa, Maine, Maryland, Massachusetts, New Hampshire, New Mexico, New York, North Carolina, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont, and Virginia, and the District of Columbia.

 

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